
Se c’è una cosa che si è soliti invidiare ai grandi divulgatori scientifici, in primis quelli americani e inglesi, è quella di far sentire il lettore a casa in un edificio concettuale complesso e spesso mai frequentato prima.
Ai grandi saggisti si ruberebbe invece volentieri la consistenza del ragionamento, l’argomentazione solida e originale, l’interpretazione inedita e spiazzante di un fenomeno o di un fatto ben conosciuto, proprio come è la memorabile chiave interpretativa di una partitura vecchia di secoli che fa a fortuna di un direttore di orchestra.
Questo libro è purtroppo un’occasione persa sotto tutti e due i punti di vista. Intendiamoci: investigare il tema del rapporto che c’è tra il crimine privato e l’aberrazione di una intera società, specialmente in certi deliranti periodici storici, come ad esempio la Germania degli anni Trenta, è cosa meritoria e non se ne parlerà mai abbastanza. La sola discussione di questi temi è infatti positiva, perché non lascia che i ricordi cadano nel dimenticatoio di mal studiati e peggio scritti libri di storia.
È senza dubbio sconcertante, come sottolinea l’autrice, leggere documenti storici e carteggi privati, dove emerge la rappresentazione di un inquietante uomo bifronte, spesso marito premuroso e padre amorevole, ma allo stesso tempo medico e aguzzino in un campo di concentramento.
È senza meno utile, del pari, rendere chiare e comprensibili al grande pubblico le dinamiche dell’odio e del razzismo che si diffonde attraverso i social all’indomani di toccanti e divisivi fatti di cronaca, con un progressivo e a volte inarrestabile processo di degenerazione sociale e del linguaggio, nonché di distorsione della realtà asservita di volta in volta a giustificare questa o quella finalità. Il tutto spesso, nell’indifferenza assolutoria e nella colpevole inconsapevolezza di tanti.
Tuttavia se l’intento del libro doveva essere divulgativo, allora esso perde più volte la sua scommessa, rendendosi, soprattutto nella sua parte iniziale, ripetitivo ma soprattutto non scorrevole nella lettura. Inoltre un altro difetto è una certa supponenza, che dà per scontata la conoscenza, anche piuttosto approfondita, dei fatti della Germania nazionalsocialista, quando una recente ricerca attesta, complici gli arretrati programmi didattici della scuola italiana che rendono per gli studenti liceali Pascoli e Carducci poco meno che dei poeti contemporanei, la difficoltà di molti a collocare anche solo temporalmente l’inizio e la fine della seconda guerra mondiale. La stessa supponenza si ritrova poi nella seconda parte, quando, confrontandosi con fatti della recente cronaca nera italiana quali l’omicidio Mastropiero o l’uccisione del senegalese Idy Diene, pochissimo o nulla si dice per inquadrare questi episodi, o almeno descriverne per sommi capi il contesto. Inutile dire che sono altrettanto pochi in Italia quelli che si documentano e leggono i giornali. Un buon divulgatore sa che questo è un errore imperdonabile. In Italia c’è questa tendenza a scrivere libri per altri che scrivono i libri, ma il piatto piange e occorrerebbe invece pubblicarli per chi non solo non si prova scriverli, ma nemmeno più li legge (del resto non sono forse questi ultimi, come il libro più volte sottolinea, quelli più facilmente influenzabili e manipolabili dal fascino subdolo di certe pseudo teorie sociali e politiche?)
Se invece lo scopo era quello di creare un saggio di una certa consistenza, il lettore si trova quantomeno disorientato. Infatti dopo essere stato intrattenuto per ben 163 delle 212 pagine sulla Germania hitleriana (per altro talvolta con una giustapposizione argomenti in gran parte ben conosciuti e/o trattati in molti altri celebri testi), lo stesso si trova catapultato nella curva degli ultrà di una nota squadra di calcio italiana e poi in una sorta di sommaria analisi delle ricadute sul web di tre fatti di cronaca recente, tra i quali quelli sopra citati. Si fatica francamente a trovare dei paralleli consistenti e delle illuminazioni che non siano più che qualunquistiche o emergenti dal desiderio, a volte invero piuttosto lampante, di voler fornire un giudizio su questioni di stretta attualità politica. Desiderio legittimo, si intende, ma che poco ha a che fare con l’ambizione di voler portare a casa, per sé stessi e forse per il povero lettore, delle considerazioni socio-criminologiche di valenza universale. Insomma, ammettiamo pure che il novecento sia la culla di ogni male e il nazismo la matrice di ogni razzismo (ma un approfondimento maggiore delle radici storiche e dei prodromi alle degenerazioni del secolo breve era forse opportuno), ma è successo forse qualcos’altro tra il ’45 e l’insediamento dell’attuale governo? Ci saranno state e si sono tuttora, in altri tempi o in altre latitudini, esempi di “normalità del male” ovvero dove la pressione del conformismo sociale e dell’autoritarismo di certi regimi ha indirizzato popoli divenuti folla indistinta a mettere in sordina la propria coscienza a riversare la loro violenza nelle strade, rivendicando però il diritto di usare spolverino e pattine nei loro dorati consessi familiari? Di certo la risposta ad entrambe le domande è sì, ma il libro sembra ignorarle. Ma questo per l’appunto avrebbe consentito di aumentare lo spessore delle argomentazioni esposte e di analizzare le dinamiche trattate in modo più omogeneo, senza dare l’impressione di mettere assieme pere con mele. Ottima idea per una macedonia si sa, ma un po’ rischiosa quando si maneggiano in modo ambizioso argomenti come quelli in parola. Si rischia di cadere in tesi un po’ scontate o in stereotipi che invece di sconvolgere e colpire profondamente il lettore, come dovrebbero, finiscono perfino per annoiarlo.
L’autrice alla fine del libro si chiede se il suo postulato iniziale, ovvero che l’uomo sia buono ma possa inspiegabilmente e collettivamente macchiarsi di atrocità, come fecero i gerarchi nazisti, continuando imperterrito a considerare la sua coscienza immacolata senza per questo essere affetto da patologie mentali, non sia sbagliata, e invece si sia tutti fondamentalmente dei cattivi “costretti”, se la società va nella giusta direzione, a comportarci bene. Domanda ambiziosa ma di cui nel libro si fatica a reperire la consistenza di una risposta o quantomeno spunti originali per modificare la propria opinione.
Troviamo che Paul Celan, grandissimo poeta tedesco che l’ Olocausto e le sue conseguenze ha vissuto sulla sua pelle, abbia descritto in due righe e assai meglio l’eterna ambivalenza dell’uomo nella sua celeberrima Todesfuge “la morte è un maestro tedesco i suoi occhi sono blu /ti colpisce con una pallottola di piombo ti colpisce precisamente/un uomo vive nella casa i tuoi capelli dorati Margarete/egli istiga i suoi cani contro di noi ci regala una tomba nell’aria/egli gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco/i tuoi capelli dorati Margarete/i tuoi capelli di cenere Sulamith”.