MEDICINA NARRATIVA


Autore: Rita Charon; editore: Raffaello Cortina; pagine: 127

Che la medicina sia attualmente assai più concentrata sulla componente biologica della malattia anziché sulla componente umana e relazionale è probabile.

Che vi sia bisogno di istruire le nuove generazioni di medici a un viaggio non solo fisiologico, diagnostico, tecnologico ma anche empatico dentro le componenti uniche e irripetibili di ogni paziente è indiscutibile.

Che, tutto ciò premesso, fornire, per così dire, delle soft skill di carattere relazionale, comunicativo e psicologico possa assurgere alla dignità di istituire una nuova branca della medicina, pare francamente un po’ esagerato.

Nel libro si assiste al continuo e sconnesso girare a vuoto intorno a un potenziale sostanzialmente inespresso. “Onorare le storie dei pazienti”, il proposito ultimo dell’autrice è certamente nobile ma al contempo ricorda molto da vicino i già conosciuti concetti alternativi e non convenzionali della medicina olistica. Lei stessa dice di essere la destinataria diretta o indiretta di migliaia di storie raccolte in una intera vita di medico internista, spesa al servizio e alla cura di una sterminata quantità di pazienti: ma qual è il significato ultimo di queste storie, a cosa porta favorire e incentivare negli studenti la voglia di raccontarsi e raccontare le storie dei loro pazienti, se poi da tutto questo emerge solo un lamento diffuso, una specie di Spoon River ospedaliera di cui non si elabora mai una sintesi?

Si potrà pure criticare la “tendenza della medicina alla replicabilità e all’universalità” che “non ci dà modo di cogliere la singolarità delle nostre osservazioni” ma francamente pare un ragionare per paradossi, irrisolto. Cos’altro dovrebbe fare la medicina se non tenere questo approccio? Semmai la questione è quella di sensibilizzare i medici all’universalità del dolore, al tema della solitudine, alla gestione dello stress e della paura del paziente.  Ma quasi tutte le storie riportate nel libro si interrompono sul più bello. Non è un problema di happy ending, che spesso purtroppo non c’è, ma di esito della narrazione. Come nel caso seguente: arriva in ambulatorio un uomo, lamenta dolore severo all’addome, problemi intestinali e respiratori. Si arriva al punto dell’esame obiettivo e il paziente si blocca, “piegato sul lavabo d’acciaio inossidabile accanto al lettino, con i pugni stretti e la testa china, di spalle”. Confessa allora che il suo atteggiamento è dovuto a quello che gli era successo l’ultima volta che si era presentato in ospedale. L’Autore capisce che “dovevo essere molto cauta, calma e delicata nel contatto, affinché potesse vivere l’esame obiettivo come un aiuto e non come un’aggressione”. Qui il racconto si interrompe e si resta col dubbio: cosa ne è stato del paziente, cosa era che lo bloccava, cosa gli era mai successo, è servito al medico ascoltarlo e a lui raccontare compiutamente la sua storia?  In questo, come in vari altri casi disseminati nel volume, si rimane disorientati per questa incompiutezza, strana in un libro che fa della capacità di narrazione il suo tema fondamentale. Se la voce della medicina e quella della vita non sempre vanno d’accordo, sarebbe però anche necessario suggerire con chiarezza temi e modalità per migliorare questo stato di cose e trovare punti di raccordo.

E inoltre, si dovrebbe tener maggior conto delle nette diversità tra il sistema sanitario italiano e quello americano, dove esistono differenze “inammissibili e inique” e dove, continua lo stesso Autore “le questioni di politica della salute sono affrontate con cinismo, prestandosi a giochi di potere”.  Dove, quindi, c’è un bisogno differente e forse ancora più basilare non solo di recuperare un rapporto con il medico ma prima ancora la possibilità di un accesso alle cure stesse.

Lo scopo di tutte le nostre azioni è portare umanità a chi soffre, aggiungendo un po’ di sano umorismo“, ci dice Patch Adams, senza scomodare Henry James, Joyce o la semiologia, perché capisce che la narrazione è atto immediato e non mediato da categorie, semplice strumento utile per entrare in contatto con il mondo del paziente e che si risolve lì, nel momento dell’interazione, coadiuvando e non sostituendo in alcun modo i medicinali e un adeguato supporto psicologico.

Perché è proprio in questo ultimo aspetto, e cioè nella descrizione di interazioni con i pazienti probabilmente benefiche (ma come verificarlo compiutamente in storie poco approfondite?) che però somigliano per qualità e quantità a sedute di psicoanalisi o di counselling  più che a un percorso di cure mediche, che il concetto di medicina narrativa perde consistenza e chiarezza e mostra tutti i suoi limiti, finendo per invadere, a nostro modo di vedere, campi che proprio non le competono. Certe conclusioni di casi descritti nel volume relative a pazienti affetti da gravi problematiche psichiche paiono infatti un po’ sommarie e stereotipate se indagate da un punto di vista psicologico e psicoanalitico.

Insomma un testo con dei passi commoventi e senza dubbio interessante dal punto di vista del vissuto professionale dell’Autore, ma che resta sospeso e irrisolto a metà tra l’autobiografia, il manuale e il saggio.

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