
Autore: Chris Wickham; editore: Viella; pagine: 239
Opera originale che offre una dettagliata radiografia delle diverse tipologie di élite cittadine (Milano, Pisa, Roma in via principale) agli albori della loro nascita come istituzione autonoma, individuando, per ciascuna delle (tre) diverse tipologie, la propria base economia e di potere. L’opera inoltre tenta di tracciare l’orizzonte ideale di queste élite, verrebbe da dire alla loro visione ideologica, che li condusse alla costituzione dei quella particolare istituzione che fu il comune.
Fatta questa radiografia del potere comune, Chris Wickham tenta di pesare il ruolo che ciascun strato della élite cittadina ebbe nella formazione del comune per individuare le diverse combinazioni che hanno dato vita a risultati istituzionali diversi di città in città, pur su uno schema comune, fatto di tre distinti elementi. Nello specifico, “una collettività urbana autoconsapevole, (…) una serie di magistrature occupate in base a una regolare rotazione, (…) un’autonomia di azione di fatto per la città e i suoi magistrati, incluse la guerra e la giustizia, e in seguito la tassazione e il potere legislativo”.
Tuttavia il grande dettaglio dell’analisi e la vastità delle fonti non paiono sufficienti a provare la tesi che l’autore intende sostenere e cioè, come si intuisce già dal titolo, che la forma comunale, con la sua peculiare tipologia istituzionale, fu uno sbocco a cui le élite cittadine arrivarono per caso, inconsapevolmente: si mossero cioè come sonnambuli in un mondo nuovo che non capirono, “senza che fossero realmente consci di creare qualcosa del tutto nuovo (…) senza una chiara consapevolezza del radicale mutamento in atto”.
Tesi che è abbastanza debole per una serie di ragioni. In primo luogo perché l’autore non considera che tra la consapevolezza di creare una nuova istituzione e l’agire come sonnambuli vi possa essere una terza ipotesi. L’autore cioè non considera l’ipotesi che le élite cittadine fossero perfettamente consapevoli del fatto di non creare qualcosa di nuovo, ma di riproporre l’antico modello istituzionale di quella particolarissima città-Stato che fu la Roma repubblicana.
E infatti scrive che “i consoli stavano creando una nuova struttura basata su elementi (come i giuramenti collettivi e le cariche a rotazione annuale) che in precedenza non erano mai stati usati di per sé per governare”. Il che non è vero, se si pensa, appunto, al precedente di Roma repubblicana o anche della Atene classica.
C’è di più, l’autore stesso adduce delle prove e fa delle considerazioni che confutano l’ipotesi che l’opera vorrebbe dimostrare e che invece possono essere addotte a sostengo della tesi che qui si è indicata, per difendere la quale non diventa nemmeno necessario far ricorso a testimonianza più tarde come quella di Ottone di Frisinga che scrive che “i Latini imitano oggi la saggezza dei romani nella struttura delle città e nel governo dello Stato”; o come dirà più tardi Sismonde de Sismondi: “procurarono di costituirsi a foggia della repubblica romana e delle sue colonie” o per dirla con uno studioso a noi contemporaneo come John K. Hyde che sostiene come fosse palese “la consapevolezza delle città medievali italiane di muoversi su un cammino di civico sviluppo di cui gli antichi avevano avuto esperienza prima di loro”.
Per iniziare, l’utilizzo stesso della parola consul, dovrebbe fornire un indizio, certo non decisivo, di quale fosse l’orizzonte ideale della leadership comunale. A dire il vero l’autore riconosce che “in quel periodo, era certo noto che il termine consul aveva significato i capi cittadini a mandato annuale dell’antica Roma”, ma poi subito aggiunge che spesso il termine era usato in senso figurato a indicare qualunque membro dell’aristocrazia tradizionale. Una affermazione troppo netta per non essere considerata arbitraria.
A Milano, scrive l’autore, nella gestione del comune “dopo il 1138 erano certo coinvolti degli aristocratici, ma erano in minoranza: e quelli più regolarmente attivi, alcuni con nomi goliardici, erano tutti esperti giuridici” e più oltre “Milano è ben nota come esempio tipico di un comune aristocratico, ma in effetti era quasi il contrario. Nei suoi primi vent’anni, era certo dominato dall’aristocrazia, ma dopo gli anni Trenta i consoli che presero il centro della scena per il resto del secolo non erano aristocratici, ma membri del terzo livello dell’élite urbana”. Il punto è che questi erano tutti intellettuali con – come scrive a più riprese l’autore – una spiccata “formazione romanistica” ed veramente improbabile che quel mondo, di cui erano culturalmente impregnati, non li guidasse nella gestione della cosa pubblica.
Quanto al caso di Pisa, l’autore con grande franchezza scrive che i pisani erano affetti “da una vera e propria ossessione per Roma” e che per questo essi, come si legge nel Constitutum usus, vissero “seguendo il diritto romano per lungo tempo”. Un’affermazione che però l’autore considera totalmente falsa. Il che può essere anche vero, ma che dice chiaramente quale era l’orizzonte ideale (la cui ricostruzione è il fine ultimo di questo libro) nel quale l’élite politica pisana si muoveva e cioè ancora una volta Roma. Eppure, più oltre Chris Wickham è costretto ad ammettere per quanto riguarda le ragioni dell’adozione anche a Pisa del termine consul che questo “era usato per indicare i capi urbani nella prestigiosa e tuttora probabilmente più grande città d’Italia, e questo era abbastanza per i Pisani, di cui abbiamo ampiamente visto il desiderio di essere Romani (o almeno, antichi Romani)”.
A Roma, invece, a detta dello stesso autore, il problema non si pone nemmeno dato che “non ci fu assolutamente sonnambulismo: questo comune fu una creazione del tutto deliberata” dato che il senato romano, fonte dalla legittimazione comunale, “fu chiamato così per evidenziare la speciale condizione storica della città”.
A Roma dunque Chris Wickham ammette che l’élite comunale guardava all’antico passato della città come un esempio che li potesse aiutare ad affrontare i tempi nuovi. Eppure, quasi incomprensibilmente, poche righe dopo, scrive: “la caratteristica più notevole del senato fu la sua sicurezza di sé. Fu fondato originalmente per «rinnovare» la dignità romana «sotto il pretesto dell’unità della respublica» (espressioni vaghe, che ci dicono poco)”. Sono parole che in realtà parlano chiarissimo e dicono, come meglio non si può, al modello a cui si guardavano.
Tutto ciò vuole dire che nei tre casi studiati dall’autore, le élite cittadine non furono consapevoli di creare una nuova istituzione. Ma non perchè fossero dei sonnambuli, imprigionati all’interno di vecchi schemi regali o aristocratici, inconsapevoli di quello che stavano facendo e di quanto stesse cambiando il mondo politico intorno a loro.
Al contrario, queste élite comunali erano perfettamente consapevoli di quello che stavano facendo, visto che ebbero chiarissima la consapevolezza di creare qualcosa non di originale, ma di ricostruire e ridare vita a un antico modello.
In conclusione per rispondere alla domanda che l’autore si pone con insistenza nell’Introduzione e cioè “Che cosa pensavano di fare?”, la risposta è chiara in tutti i casi che egli analizza, anche se Chris Wickham non la coglie: pensavano di ridare vita all’antica città-stato della Roma repubblicana, ricostituendo quella struttura istituzionale propria del Municipium che era nella loro storia, nelle loro radici ideali e nelle stesse pietre delle loro antiche città.