
di Federico Smidile
Questo libro è uno di quelli che comprai il 24 dicembre 2018 a Parigi, per poi iniziarlo nei primi giorni del 2019 tornato a Roma. Ci ho dunque messo quasi due anni a portarlo a termine, pur non essendo un libro di difficile comprensione. La parte iniziale, però, è pesante, sia pure indispensabile. La spiegazione tecnica del funzionamento del terribile strumento del Terrore del 1793-94 è faticosa ma, appunto, indispensabile per capire un Tribunale politico di cui spesso si parla come termine di paragone ma che si conosce poco. Poi la narrazione prende però ritmo, seguendo i processi, dando vita e volto alle vittime, siano esse famose come Maria Antonietta o Danton, o meno note ma sempre significative come Brissot o Hebert, o sconosciute come le centinaia di donne e uomini condannati per motivi spesso futili, se non falsi.
Viene illustrata anche la terribile discesa agli inferi del Tribunale che, seguendo gli ordini della Convenzione, la Camera della Prima Repubblica francese, travolge tutte le procedure, tutte le garanzie, tutti i dubbi e viene chiamato a scegliere tra morte ed assoluzione. Preferendo la prima. Dai decreti di Pratile anno II (aprile 1794) alla caduta di Robespierre a Termidoro (fine luglio dello stesso anno), si assiste ad un’impressionante orgia di sangue, e proprio quando la situazione francese migliora sia all’interno (stroncate le rivolte, si attenua la crisi economica), sia all’esterno (fermate le invasioni e ricacciati indietro i principi coalizzati). Un Terrore che riproduce se stesso, che non riesce a fermarsi, che sfugge al controllo di coloro che lo hanno scatenato. Sino alla parodia di processo a Robespierre morente, al gelido Saint Just e agli altri giacobini, capri espiatori di scelte che avevano responsabilità molto più ampie.
Su tutti, però, spicca la figura del Pubblico Accusatore, del Pubblico Ministero dell’epoca, dell’eroe dei Travaglio, dei Davigo, dei 5 Stelle forcaioli (che non lo conoscono ma che sono figli suoi): Antoine Quentin Fouquer-Tinville. Le pagine dedicate al processo contro di lui, processo che di fatto chiude l’esperienza del Tribunale, sono magistrali. L’autore, senza nessun accenno moralistico, osserva che allo spietato magistrato sono concesse tutte quelle garanzie difensive che egli aveva negato a centinaia e centinaia di francesi, molto più innocenti di lui anche nella feroce ottica della Rivoluzione. E impressiona la totale mancanza di un minimo pentimento, di una riflessione, di un ripensamento, anche alle soglie della morte, anche mentre, per ultimo, sale sul patibolo. Con la cecità tipica dei fanatici, che quando finiscono nella magistratura sono una tragedia immane.
Fouquet Tinville da un lato ricorda di aver “obbedito agli ordini”, dall’altro rivendica di aver agito per la difesa della Patria, della Rivoluzione. Non rinnega nemmeno di essere stato complice del “complotto delle prigioni”, un immaginario complotto che ha condotto a morire centinaia di persone in pochi giorni. L’accecamento del fanatismo politico e giustizialista fa sì che non si riesca a trovare nessuna giustificazione per questo criminale legale, per questo zelante servitore di un’idea di giustizia sconvolgente anche nell’ottica rivoluzionaria. E nelle sue parole si leggono gli echi dei fanatici di oggi, di coloro che condannano tutti gli inquisiti a prescindere, di coloro che ritengono la difesa un ostacolo, un orpello, un formalismo. Fouquet Tinville è un paradigma di come le cose possono precipitare se si crede ad una Giustizia spietata e che non riconosce innocenza alcuna. Un libro, dunque che fa pensare e che resta attuale anche se narra di eventi di oltre 200 anni fa.