Lettere Napolitane di Pietro Calà Ulloa

di Armando Pepe

L’atto di una riedizione, nel senso di nuova acquisizione agli studi storiografici, di un libro molto citato e non parimenti letto, è sempre un momento che stimola il dibattito intorno a un tema. Da pochi giorni, per i tipi della D’Amico Editore, è uscito il volume “Lettere Napolitane”, di Pietro Calà Ulloa, nella traduzione di Teodoro Salzillo e con un saggio introduttivo di Carmine Pinto. L’utilità dell’operazione, al di là di un punto di vista meramente commerciale, rientra nel riportare alla luce le fonti da cui attingono, per sentito dire più che per meditata lettura, gli odierni scrittori del versante neoborbonico. Quindi, a ogni buon conto, è un lavoro che tende alla demistificazione, cercando di riportare alle sue vere dimensioni e proporzioni ciò che è stato oggetto di una deliberata alterazione e/o falsificazione delle fonti. Giustamente, compito dello storico è scrivere le cose per come sono andate,  ma c’è anche- come fa Pinto- chi si pone l’implicita domanda sul perché altre narrazioni trovino riscontro non marginale tra i lettori, non tenuti ad essere necessariamente informati dei fatti. 

Dopo la resa di Gaeta, nel 1861 Francesco II e la sua corte, cui apparteneva anche il marchese Pietro Calà Ulloa, andarono in esilio a Roma, dapprima soggiornando al Quirinale, poi a Palazzo Farnese fino al 1870, andandosene pochi mesi prima che la città fosse presa dalle truppe italiane, dai bersaglieri nella breccia di Porta Pia. Già nella prima pagina introduttiva, Pinto precisa che nel corso dell’esilio romano «il re [Francesco II di Borbone] e il marchese [Pietro Calà Ulloa] conversavano a lungo. Il tema era sempre lo stesso, da quando avevano lasciato Napoli nel settembre del 1860. Come riconquistare il regno? Come giungere a quella Restaurazione che i Borbone avevano ottenuto contro i francesi e contro i rivoluzionari? […] Il marchese, scrittore grafomane e parlatore instancabile, cercava di portare sul suo terreno Francesco II». 

Nelle more delle chissà quanto illuse conversazioni il marchese Calà Ulloa trovava il tempo di scrivere a vari corrispondenti di pregio sparsi per l’Europa, quasi a voler far sentire a tutti i costi la propria voce disperata e vaticinante, post eventum però. Le lettere sono ordinate per argomento e ricoprono un ampio ventaglio di temi, che sottendono un’auto-rappresentazione immaginata e immaginifica di una realtà che mai fu. Proditoriamente invaso, il regno duo-siciliano, secondo Calà Ulloa, era un paradiso in Terra. Sistematicamente, per fare presa sulla psicologia del lettore, sono usati vieti ma sempre efficaci stereotipi come il massacro di genti inermi, anzi «l’impazienza di questi carnefici [i piemontesi] non permette neppure alle vittime di ricevere gli ultimi conforti di che è larga la pietosa e santa religione. […] Quante madri sono state fucilate nelle Due Sicilie per aver portato o perché si sospettavano portatrici del pane ai loro figli insorti, o refrattari! L’oscura condizione di questi figli ha fatto ignorare all’Europa il supplizio delle loro madri. Uomini, donne, vecchi, fanciulli, tutti si passano per le armi, ora come parenti, ora come parenti dei complici, o come complici de’ parenti. (pagina 111)». Gente data a fuoco, e per implementare le fiamme si usava l’acqua ragia, non si conta, seguendo i falsi esempi addotti da Calà Ulloa. Se fossero stati veri i roghi oggi il Mezzogiorno d’Italia sarebbe probabilmente abitato, ma di certo non da italiani. Il cliché è sempre lo stesso: l’invasione piemontese è la negazione dello stato di diritto, napoletani e piemontesi sono di due “razze” diverse; al massimo avrebbe potuto esserci una confederazione, ma mai l’unità di due corpi che per legislazione e antropologia erano agli antipodi. Per quanto si possano definire desueti se non rozzi, i moduli narrativi di Calà Ulloa sono stati ripresi da epigoni contemporanei e vengono attualmente declinati in chiave minore se non minima. Riesce difficile da leggere e alquanto stucchevole solamente l’esaltazione finanziaria del regno di Napoli a fronte degli altri stati italiani coevi, chiaramente confutabile avendo a portata di mano dati economici inconfutabili. A dire il vero, a me Calà Ulloa è parso triste e solitario, avviato verso un inesorabile declino, come un personaggio dei romanzi di Gabriel García Marquez.   

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