L’età della cooperazione

Che la cooperazione, il muto appoggio, siano la struttura logica su cui impostare il nuovo paradigma digitale, insieme all’ordine spontaneo dal basso, alla personalizzazione di massa eta, qui lo si è detto spesso.

Ma oltre che la cifra per le relazioni tra esseri umani, la cooperazione potrebbe essere la chiave anche per impostare i rapporti tra uomini e macchine, tra uomini e intelligenza artificiale.

Per dirla diversamente, i due estremi non hanno senso. Nei mesi scorsi qui sono è a più riprese messa in dubbio l’intelligenza dell’Intelligenza Artificiale e si è criticata la grande fiducia che si sta riponendo nel duo algoritmi e big data. Ma d’altro canto affidarsi a nuove forme di luddismo o pensare che i dolori delle ossa siano il modo migliore per prevedere il tempo. 

In altre parole, affidare ogni decisione al combinato disposto di Big Data e algoritmi non solo è sbagliato, ma è la sorgente da cui sono scaturiti alcuni dei più grandi disastri dell’umanità (se ne parlava ieri qui). D’altro canto è insensato che gli esseri umani possano prendere decisioni in maniera del tutto arbitraria senza tenere in nessuna considerazione di dati o possano rifiutare del tutto la tecnologia esistente. Sulla questione tendiamo a non avere mezze misure e “a considerare gli algoritmi come entità onnipotenti o come un’inutile cianfrusaglia”. Il che ha veramente poco senso.

Ha senso invece che si istauri una forma di cooperazione tra uomo e macchine, dove le ultime fanno il lavoro che gli esseri umani fanno fatica a fare (macinare miliardi di dati), mentre all’intelligenza umana è lasciato il compito di creare, decidere, progettare, immaginare. 

Scrive Quintarelli, “Imparare a lavorare con sistemi di intelligenza artificiale sarà una nuova abilità richiesta alle persone, come lo è stato saper lavorare con strumenti di automazione materiale”. Per fare un esempio significativo. Dopo essere stato battuto da una macchina (Deep Blue dell’IBM) Garry Kasparov non ha smesso di giocare a scacchi, è anzi diventato uno dei maggiori sostenitori degli “scacchi avanzati”, dove un giocatore in carne e ossa collabora con un algoritmo contro un’altra squadra. L’algoritmo valuta gli sviluppi possibili di ogni mossa riducendo la possibilità di errore del giocatore che ha comunque l’ultima parola. “Giocando con l’aiuto del computer – è Kasparov a parlare – potevamo concentrarci sulla strategia, evitando di sprecare tempo a fare calcoli. In tali condizioni la creatività umana diventava ancora più importante”. 

L’algoritmo può, grazie alle sempre maggiori potenze di calcolo, elaborare una immensa quantità di dati, mostrare i risultati di questa elaborazione agli uomini e lasciare che siano essi a decidere: “se l’IA è in grado di renderci giocatori di scacchi migliori, è logico pensare che possa aiutarci a diventare anche piloti, medici, giudici e insegnati migliori”, come scrive Kevin Kelly in L’inevitabile.

Hannah Fry, in Hello World fa un esempio significativo “le reti neurali che analizzano gli esami istologici alla ricerca di tumori al seno sono così efficaci (…) perché l’algoritmo non decide se un paziente ha il cancro, ma riduce sensibilmente il numero di aree sospette da sottoporre all’attenzione del patologo, evitandogli di dove esaminare un’infinità di cellule. L’algoritmo non si stanca mai e il patologo sbaglia di rado. L’algoritmo e l’essere umano collaborano, condividendo pregi e difetti”.

Questo vuol dire che subiranno l’impatto negativo delle macchine quanti non saranno in grado di acquisire conoscenze tali da poter stabilire un rapporto cooperativo con le macchine e l’intelligenza artificiale che le muove, una collaborazione che in molti casi si articola come una divisione del lavoro dove le macchine sintetizzano dati e informazioni per potenziare le capacità creative degli esseri umani o facilitare il modo in cui potranno prendere decisioni sempre più corrette.

In sintesi gli esseri umani sono animali che producono macchine in grado di consentire loro di poter esprimere ad un livello più alto l’essenza stessa della propria umanità e cioè l’empatia, la fantasia e dunque la creatività. Per questo si può concordare con Kevin Kelly quando scrive che “la tecnologia è l’accelerante dell’umanità”.

“Sostituendoci nei lavori manuali, le macchine ci hanno permesso di concentrarci maggiormente su ciò che ci rende umani: la nostra mente. Le macchine intelligenti continueranno questo processo, accollandosi gli aspetti più triviali dei processi cognitivi e orientando così la nostra attività mentale verso la creatività, la curiosità, la bellezza e la gioia. Sono queste le cose che ci rendono davvero umani, non un’attività o abilità specifica come brandire un martello e nemmeno giocare a scacchi.” Parola di Kasparov.

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