Non è un governo del presidente

di Marco Plutino

Ci attendevamo sorprese e sono arrivate. Nel momento in cui scriviamo non se ne sa abbastanza su come sono stati scelti i ministri anche se si intravedono alcuni criteri, ma a chi prospettava una scelta autonoma dei ministri da parte del Presidente Draghi non sfuggirà la fortissima fondazione partitica di questo esecutivo. Che si tratti di colloqui dell’ultim’ora con i partiti o del contributo sapiente del Presidente della Repubblica il risultato è un governo molto più politico che tecnico. Un governo che cessa oggi di essere “del Presidente” e che diventa un governo Draghi a pieno titolo. Una persona di enorme prestigio che guida un governo di big di partito, e con il Presidente del Consiglio uscente Conte fuori gioco. Un governo molto forte sia per la testa che per le fondazioni che affonda nel sistema partitico. Un governo di unità nazionale non solo in senso esteriore ma anche sostanziale, presieduto – diciamolo per l’ultima volta – da uno degli uomini più influenti della terra ma tenuto a riparo dalle fibrillazioni partitiche dalle prime file dei maggiori partiti.

Le altre considerazioni, come alcuni limiti di genere e un marcato squilibrio territoriale a favore del Settentrione, passano in secondo ordine rispetto a questa macroscopica caratteristica, che ad avviso di chi scrive non appare l’identikit di un governo che deve fare poche cose subito (piano vaccini e scrittura del recovery) ma la cui ambizione va oltre. Non so se ci siano patti sottesi. Molti commentatori della prima ora parlano di un governo costruito per agevolare una futura elezione di Draghi al Quirinale. Lettura plausibile ma potrebbe essere riduttiva. Per questo risultato sarebbe bastato un governo “tecnico” a gestire i dossier più urgenti con efficienza nell’ambito di una finestra molto stretta. L’elezione di Draghi al Quirinale, del resto, sarebbe nell’interesse del paese e dei partiti a prescindere, non un’assicurazione, ma quasi. Può darsi che il Presidente Draghi, che oggi sicuramente pensa solo all’attività di governo, domani potrebbe decidere di non cedere alla tentazione, del tutto legittima e comprensibile, di concludere un cursus honorum formidabile rivestendo la massima carica di uno Stato del G7. Soddisfazione impagabile per un italiano che però è già oltre, uno dei padri fondatori dell’Europa politica. E che potrebbe fare anche di più per il proprio paese. E’ presto per dirlo, ma se fosse così allora tutto sarebbe in discussione. La composizione del governo sembra cristallizzare l’attuale sistema partitico attraverso un sistema di bilancini che proseguirà con il completamento della compagine, dove altre forze troveranno visibilità. Però allo stesso tempo sembra portare avanti ed ad un livello più alto quello tsunami derivante dell’indicazione secca di Draghi da parte del Quirinale. Il Draghi che fosse passato dalle consultazioni con i partiti avrebbe corso il rischio di essere bruciato dai veti reciproci. Così non è stato con il metodo Matterella. Ma un governo del Presidente che si fosse caratterizzato tecnicamente avrebbe avuto un orizzonte necessariamente breve, più subìto che altro. Il governo nella composizione annunciata questo orizzonte breve non ce l’ha aprioristicamente. E’ un governo che ha testa e gambe per completare la legislatura.

Qualcuno legittimamente continuerà a vedervi un civil servant che si vuole “coprire” dalle imboscate dai partiti o rendere l’operato del governo più funzionale rispetto a qualche scelta difficile. Ma potrebbe essere anche qualcosa di molto diverso. Il canto del cigno degli schieramenti e del sistema partitico attuale attraverso un governo “di sistema”, quindi con tratti giolittiani, cioè che deve guidare il paese attraverso una grande trasformazione, con un orizzonte che nel nostro caso corrisponde alla progettazione ed attuazione del Recovery fund: sei anni. Ecco che se questo governo superasse l’orizzonte del rinnovo del Quirinale, una grande prova (soprattutto se Draghi non fosse interessato), allora la tesi acquisterebbe ben altra forza ed evidenza. Già oggi l’effetto Draghi ha prodotto molti effetti, ma sarebbe nulla a confronto della prospettiva che Draghi non sia solo il commissario straordinario prima di tornare alle contrapposizioni della classe politica di prima. Allora il dilemma è se sarà un governo di breve tregua (formula venuta alla ribalta con Napolitano) o un governo di superamento dell’attuale sistema politico-partitico, la cui guida si dovrebbe, ovviamente, cimentare con le elezioni. Si immagini anche solo per un attimo cosa significherebbe. L’alleanza giallo-rossa sembra aver resistito ed anzi anche essersi rafforzata. Ma come immaginare un futuro di federatore dell’ex presidente Conte dopo un governo Draghi? Implausibile, salvo che – torna il punto – Draghi non vada al Quirinale. Ma se così non fosse potrebbe diventare difficile immaginare molti degli attuali partiti ostili alla leadership di Draghi. Soprattutto se l’azione di governo fosse coronata da successi e riconoscimenti interni ed internazionali. 

Se lo scenario non è peregrino, allora tutto dipenderà dai risultati del governo fin dai primi mesi. E’ da questo punto di vista che colpisce la sua composizione e il coinvolgimento forte dei partiti nella compagine di governo. Sia per la caratura tecnica che per l’investimento politico in una prima fase la differenza di passo e di tono con il governo Conte potrebbe apparire subito e clamorosa. Ma a quel punto, lo scenario sarebbe radicalmente aperto ad ogni possibilità. 

Non è sterile risiko della politica. Mai dimenticare che parliamo dell’ultima chiamata per un paese in declino da quarant’anni e che vivrà nei primissimi mesi il dovere di coltivare una speranza di tagliare quei nodi gordiani che gli impediscono da troppo tempo di liberare le proprie energie. Se fallisse Draghi chi potrebbe sperare di riuscire dopo? E una ipotetica “agenda Draghi” si risolverebbe scrivendo un ottimo piano di spesa dei fondi europei e facendo qualche legge di riforma in pochi mesi?

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