Processi di attuazione costituzionale e periodizzazioni della Repubblica

“Bisogna aver vissuto a lungo in mezzo ai partiti […] per comprendere […] come il destino di questo mondo proceda per effetto, ma spesso a rovescio dell’intenzione delle volontà che lo producono.”

A. de Tocqueville, Ricordi, in Scritti politici, I, Utet, Torino, 1969, 319. 

di Cesare Pinelli

1. Perché parliamo di processi di attuazione costituzionale. 2. Le diverse funzioni del legislatore e della Corte costituzionale. 3. Ragioni e limiti della periodizzazione dominante. 4. La I Legislatura (1948-1953). 5. La crisi del centrismo (1953-1960). 6. La “Repubblica dei partiti” e l’opera di attuazione costituzionale. 6.1. Il ciclo 1961-1978. 6. 2. Il ciclo 1988-1992. 7. La XIII Legislatura (1996-2001). 8. La fine della politica costituzionale.  

1. La questione della periodizzazione della storia repubblicana si pone da varie prospettive e acquista a seconda di esse differenti implicazioni. Così, la tesi che l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse (1978) abbia segnato uno spartiacque nella storia repubblicana,[1] è riferita chiaramente alla sfera politica. Più ambigua è la distinzione fra “Prima” e “Seconda Repubblica”, che porterebbe a desumere dal solo mutamento di sistema politico (1994) una trasformazione dell’assetto istituzionale, nonostante le invarianti dei governi di coalizione. 

Quando parliamo di processi di attuazione costituzionale, gli stessi criteri di periodizzazione vengono a mutare. Adopero il termine nel senso sotteso da Leopoldo Elia nel 1981 a proposito di quella “singolare competizione per l’attuazione della prima parte della carta del 1947” che la Corte costituzionale avviò col Parlamento a partire dalla sua prima sentenza: “In realtà questa gara, su un piano e con metodi tanto diversi, avveniva in qualche modo tra due proiezioni, storicamente parlando, dell’Assemblea Costituente: la maggioranza legislativa, assai più ampia […] della maggioranza governativa, tale da comprendere i maggiori partiti politici (essendo ciò vero soprattutto per le leggi di attuazione costituzionale); e la Corte che, non solo per la presenza tra i suoi membri, fino agli anni ’80, di illustri costituenti, si poneva come custode dei valori costituzionali e promotrice/realizzatrice della loro attuazione”.[2]

La “singolare competizione” terminerà col “venir meno della attuazione costituzionale ‘in linea retta’ che aveva caratterizzato il periodo ’48-’74 ed in particolare gli anni ’56-‘74”.[3] Ma non per questo termineranno i processi di attuazione a compartecipazione Parlamento/Corte, pur se con esiti non sempre facili e lineari, e talora previa reinterpretazione di enunciati costituzionali. Si pensi al diritto di famiglia (nella fase degli anni Settanta e in quella che fra gli anni Novanta e il 2016 porterà al riconoscimento delle unioni civili) all’informazione radiotelevisiva dal 1974 in poi, allo sciopero nei servizi pubblici essenziali e alla tutela della concorrenza a cavallo degli anni ’90. Se qui è la Corte a propiziare una legislazione attuativa di enunciati costituzionali, salvo a censurare in seguito disposizioni adottate in violazione degli stessi, altrove è il Parlamento a muoversi per primo aprendo la via a importanti reinterpretazioni del testo, come ad es. per l’autonomia universitaria (1989) e per il Concordato (1985). 

2. Quei processi si resero possibili proprio in ragione della “diversità di piani e metodi” di cui parlava Elia in riferimento alle attività del legislatore e del giudice costituzionale e ai loro effetti giuridici. Proprio perché, cioè, ciascuno continuava a fare il suo mestiere, e in quanto tale era riconosciuto dall’altro, si rendeva possibile concretizzare, e in tal senso attuare, uno od altro principio costituzionale.

Né processi del genere si sarebbero avuti se la Corte si fosse limitata ad applicare il testo, inchinandosi all’idea di un monopolio parlamentare circa la sua attuazione: dove ‘attuazione’ si  contrappone ad ‘applicazione’ nell’uso  risalente all’epoca del primato della legge su ogni altra fonte del diritto e della sua insindacabilità in sede giurisdizionale, e tuttora comune allorché parliamo di regolamenti attuativi di una legge (o di decreti legislativi attuativi di una legge di delegazione) e di giudici che la applicano. Un simile impiego di ‘attuazione’ mal si presta però ad essere riferito a una Costituzione consistente anzitutto di princìpi da tradurre in ius quo utimur. Questa sua primaria dimensione, prima che una qualche contingenza politica, spiega la larga diffusione nel linguaggio dei costituzionalisti del più ampio impiego di ‘attuazione’ che si è sopra segnalato: nel quale l’attenzione prestata al punto di arrivo, la concreta operatività dei princìpi, non ha mai significato che le attività del legislatore e della Corte fossero ponibili sullo stesso piano.[4]

Non a caso, i problemi di ordine tecnico-giuridico posti dalle due attività presero una strada diversa dai tentativi di ricostruzione e periodizzazione della storia costituzionale.  

Quanto ai primi, Vezio Crisafulli distinse una legislazione di attuazione della Costituzione da quella dettata in attuazione della stessa: “obbligatoria o doverosa, la prima, esecutiva di precise norme costituzionali o altrimenti necessaria per dar vita ad istituti, organi ed enti che la Costituzione dispone debbano esserci; discrezionale, la seconda, che comprende sia quella espressamente facoltizzata in Costituzione, sia quella rivolta al conseguimento di fini genericamente indicati da norme costituzionali ‘programmatiche’”[5]. La Corte aveva da poco annoverato le leggi “a contenuto costituzionalmente vincolato” fra quelle da ritenersi sottratte a referendum abrogativo (sent.n. 16 del 1978): categoria che la dottrina considerò subito più ristretta di quella delle leggi costituzionalmente obbligatorie, ma che, come si vide nella successiva giurisprudenza sui referendum, non sempre riusciva a distinguersi  dalla seconda. Che le leggi di attuazione costituzionale non richiedessero necessariamente un distinto trattamento giurisdizionale, lo si vide poi quando la Corte, nonostante l’operato allargamento del parametro di legittimità a norme integrative di singoli disposti costituzionali, rifiutò di attribuire la qualifica di norme interposte a quelle ricavabili dalle leggi di regionalizzazione, sulle autonomie locali o sulla Presidenza del Consiglio. 

Quanto invece ai tipi di interventi della Corte finalizzati o almeno riferibili all’attuazione della Costituzione, si potrebbe individuare una prima fase di dispiegamento di un ampio arsenale di  tecniche decisorie, che in termini di efficacia nei confronti del legislatore vanno dalle “sentenze-monito”, provviste cioè in motivazione di moniti di caducazione a futura memoria, alle additive di prestazione, la cui intrusione nella sfera della discrezionalità legislativa stentava, secondo una parte significativa dei costituzionalisti, a trovare giustificazione nella metafora crisafulliana delle “rime obbligate”. A questa fase, che termina con l’introduzione delle additive di principio nei primi anni Novanta, ne subentra una nella quale sono piuttosto i bilanciamenti, e in generale le tecniche interpretative, a caratterizzare l’operato e il ruolo della Corte anche sotto il profilo dei rapporti col legislatore. Comunque, gli studi sulla giustizia costituzionale, comprese le classificazioni di tali interventi, hanno raggiunto punte di elaborazione concettuale tanto elevate, quanto disancorate da ricostruzioni di ordine storico. Alla fine, la “cassetta degli attrezzi” ha contato molto più dei contesti storico-politici nei quali la Corte ha forgiato ciascuno di essi.[6]

3. Le ragioni della periodizzazione tuttora dominante, secondo cui l’attuazione costituzionale sarebbe terminata negli anni Settanta, vanno dunque cercate altrove. 

Al riguardo ha certo giocato la constatazione dell’ampia massa di leggi e di altri atti normativi volti ad attuare disposizioni costituzionali fra la quinta legislatura (1968-1972) e la sesta (1972-1976)[7]. Ma l’opinione si è consolidata soprattutto per la convinzione che le Trente Glorieuses fossero  culminate nella traduzione in legge degli enunciati sui diritti sociali, mentre la successiva accelerazione dell’integrazione europea fondata sul mercato, le privatizzazioni realizzate in ampi settori dell’economia in mano pubblica, i tentativi di revisione della Seconda Parte ispirati alla “governabilità” avrebbero determinato un “arretramento” delle conquiste appena realizzate se non una “delegittimazione” della Costituzione del 1948.

Eppure, a uno sguardo più ravvicinato, gli stessi fautori della tesi notano che, fra le leggi di attuazione degli enunciati sui diritti sociali, solo quella istitutiva del Servizio sanitario nazionale (l.n. 833 del 1978) abbia realizzato il principio di eguaglianza sostanziale, andando ben oltre la lettera dell’art. 32.[8] E soprattutto riferiscono la loro periodizzazione, compreso il giudizio sulla fase 1979-1993 come “nuova glaciazione”, non alle leggi effettivamente adottate, ma alle “diverse modalità con cui la Costituzione – come fonte e nello stesso tempo oggetto di una politica nazionale – è stata percepita”[9]

Si può convenire che negli anni Ottanta le percezioni fossero cambiate, con un abbandono della visione costruttivistica della Costituzione come “loi politique per eccellenza” tipica dei primi decenni della Repubblica[10]. Ma possono i costituzionalisti fermarsi a questo punto? Se la vicenda dell’attuazione del testo avesse inciso sul diritto costituzionale come ius quo utimur al di là della periodizzazione convenzionale, non occorrerebbe forse tornare sulla questione al di là delle percezioni della Costituzione, e della contestuale ridiscussione politica di alcune sue parti?[11]

4. Per la verità, la fortuna di certe formule fra i politici e i giuristi determina fin dal primo decennio della Repubblica notevoli semplificazioni, che vanno riportate al contesto ma restano tali. L’accusa di “deliberato ostruzionismo di maggioranza” nell’attuare la Costituzione e l’epiteto di “legge-truffa” attribuita alla legge elettorale per la Camera approvata nel 1952,[12] maturano in un periodo nel quale si registrano un elevato numero di condanne per vilipendio alle istituzioni e alla religione di Stato, un ricorso massiccio alla censura cinematografica, direttive governative a prefetti e questori volte a discriminare cittadini iscritti a partiti di opposizione  nell’esercizio delle libertà civili e politiche, e l’uso propagandistico del servizio pubblico radiotelevisivo nelle mani del governo.[13]

Si comprende allora perché, per ‘l’altra Italia’, la Costituzione diventi “una scialuppa di salvataggio”, non per la presbiopia dei Costituenti ma in virtù “della forzosa attualità – e dell’involontario avvenirismo – di un testo disatteso fin nel suo introibo liberale, laddove garantisce ai cittadini (art. 3) l’eguaglianza di fronte alla legge indipendentemente dalle opinioni politiche e religiose”.[14]

Nello stesso tempo, la fortuna di quelle formule polemiche verso la maggioranza oscurò i conflitti che l’avevano attraversata proprio con riguardo alle prospettive politico-costituzionali. Il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi era fautore di un parlamentarismo classico, incentrato sul circuito maggioritario e rispettoso del ruolo dell’opposizione, nel quale i partiti venivano visti quali mere sedi di formazione delle idee politiche e strumenti di propaganda.[15] Ma in quella fase di “guerra civile fredda”,[16] dovette misurarsi con contrasti crescenti nella Democrazia Cristiana e nella coalizione di governo intorno al modo di fronteggiare la minaccia del comunismo, avendo le elezioni del 1948 raccolto nel suo partito una destra che poco aveva in comune con la dottrina sociale cristiana o con la tradizione cattolico-moderata[17].  

In ragione di tali spinte confliggenti, i progetti di legge volti a edificare uno “Stato forte” – quello sulla “difesa civile”, le proposte di legislazione penale anti-sabotaggio e di repressione degli scioperi – si arenarono in Parlamento, salvo la l. n. 645 del 1952, che attuava la XII Disp. Trans. sul divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista.  Stessa sorte toccò, d’altra parte, ai progetti di legge di attuazione delle norme costituzionali sul referendum, sulla Presidenza del Consiglio, sull’ordinamento sindacale, sul Consiglio Superiore della Magistratura. Vennero invece approvate: la l.cost.n. 1 del 1953 e la l. n. 87 del 1953, sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale; la riforma fondiaria, attuativa dell’art. 44 Cost.; la legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno, che valorizzando il Sud e le Isole seguiva l’indicazione dell’art. 119, terzo comma; la legge sul Consiglio Supremo di Difesa; la l.n. 62 del 1953 sulla costituzione e sul funzionamento degli organi regionali, che però mostrò subito la corda.[18]

Il bilancio della I Legislatura appare in definitiva meno modesto di quanto si sia tante volte ritenuto, specie perché comprendeva il pur tormentatissimo varo delle leggi istitutive della Corte. Per il resto, fra la mancata approvazione degli altri progetti di legge di attuazione costituzionale e quella dei  progetti di “Stato forte”, che avrebbero legittimato e rafforzato una legislazione in vigore restrittiva dei diritti di libertà,[19] si può parlare di un gioco a somma zero, che col senno di poi siamo portati a valutare ben diversamente da quanto non potessero i contemporanei, fino a ricollegare la formale sopravvivenza della Costituzione proprio al “congelamento” della politica di attuazione costituzionale.[20]

5. Il mancato raggiungimento della maggioranza assoluta da parte delle forze centriste alle elezioni del 1953 comportò il ritorno alla proporzionale pura e la fine della leadership di De Gasperi, il solo politico che avesse mostrato di credere nel primato delle istituzioni sui partiti. La lunga fase che avrebbe portato al centrosinistra   si apriva così in condizioni di massima incertezza. A dominare il gioco erano ormai, anche nella DC, leader portati più alla mediatizzazione partitica che a rispettare il principio di responsabilità verso l’elettorato, né si erano ancora realizzate le condizioni di quella divaricazione fra maggioranza di governo e maggioranza legislativa (stabilmente allargata al Partito Comunista) che avrebbe caratterizzato la fase di più intensa e consapevole attuazione della Costituzione.  

Si  spiegano così sia i tempi lunghi dell’entrata in funzione della Corte costituzionale, realizzata a distanza di tre anni dall’approvazione della legge n. 87 del 1953, sia il fatto che, in ordine all’attuazione costituzionale, in quella legislatura vennero approvate le sole leggi istitutive del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (l.n. 33 del 1957) e del Consiglio Superiore della Magistratura (l.n. 195 del 1958), nonostante il Presidente Gronchi, eletto nel 1955, rimarcasse fin dal discorso di insediamento la necessità che la Costituzione venisse attuata per tutti gli istituti da essa previsti. 

Il fatto è che, in sede politica, l’attivismo gronchiano giuocò in un’altra direzione. Un conflitto latente opponeva fin dall’inizio del mandato il Presidente della Repubblica, eletto contro una parte importante del suo partito, alla Democrazia Cristiana intorno ai tempi e ai modi dell’apertura ai socialisti, con opposte valutazioni dei congegni procedurali utilizzabili nella gestione delle crisi di governo e in definitiva del ruolo del Capo dello Stato nel sistema istituzionale, allora tutt’altro che consolidato. Alla luce dei fatti del luglio 1960, l’appoggio a Tambroni costò assai caro a Gronchi, il quale nell’ultimo biennio del mandato vide realizzato dai partiti il progetto politico per cui si era pur avventatamente battuto.[21]

Ma il periodo 1953-1960 non conta tanto per le realizzazioni immediate, quanto per le opportunità che apre. A partire dalla sentenza n. 1 del 1956, la Corte costituzionale pone le premesse giuridiche di processi di attuazione che solo in seguito potranno giungere a maturazione, compreso quello che, di fronte ai tentativi di estendere con legge il trattamento economico stabilito dai contratti collettivi ai lavoratori di categoria non iscritti a sindacati, condurrà al riconoscimento della diretta applicabilità del principio di equa retribuzione ex art. 36 Cost.[22]

Quel periodo segna inoltre uno spartiacque sul piano internazionale. La Repubblica viene ammessa alle Nazioni Unite al termine di un travagliato processo[23], e aderisce al Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea dopo aver fattivamente contribuito alla sua approvazione, anche se la ratifica con legge ordinaria (l.n. 1203 del 1957) riflette la diffusa convinzione dei parlamentari che non comportasse l’adesione a un ordinamento sovranazionale tale da limitare la sovranità ai sensi dell’art. 11 Cost., come riterrà la Corte a partire dal 1973, ma a un’organizzazione internazionale che la manteneva in capo agli Stati membri.[24]

6. Dopo il 1960 la convergenza fra i partiti dell’“arco costituzionale”, che fino ad allora non era andata oltre la condivisione dell’intangibilità dei princìpi fondamentali della Costituzione, si estende alla convinzione della necessità di attuarne gli enunciati, salvo a dividersi su tempi e modi. Per questo aspetto fondamentale, la “Repubblica dei partiti”[25]non dura più di un trentennio. E al suo interno si possono distinguere due cicli: uno più lungo, dal 1961 al 1978, e un altro corrispondente alla X Legislatura (1987-1992).  

6.1. Quanto ai diritti di libertà, il primo centrosinistra viene di solito ricordato per la legge sulla scuola media unica in dichiarata esecuzione dell’art. 34 Cost., là dove richiede che l’istruzione inferiore sia “impartita per almeno otto anni” (l.n. 1859 del 1962), e per la legge di nazionalizzazione delle imprese che erogano energia elettrica, sulla base dell’art. 43 (l.n. 1643 del 1962). 

Tuttavia vengono all’epoca approvate le prime leggi di settore, non di rado seguìte a pronunce della Corte, che progressivamente trasformeranno il quadro dei diritti fondamentali nel ciclo 1961-1978.  

Numerose sono le leggi in materia di lavoro.[26] La dignità della donna e la parità dei sessi si affermano per vari aspetti[27]. Il diritto di famiglia viene investito da un compiuto processo di riforma.[28] Forti innovazioni si verificano nel settore dell’istruzione.[29] Comincia ad emergere la dimensione del diritto alla salute quale diritto a prestazione pubblica.[30] Vengono sotto svariati profili predisposte garanzie della libertà di espressione del pensiero,[31] della libertà personale,[32] e di altre libertà civili[33], mentre un discorso diverso vale per le libertà collettive.[34] Il codice di procedura penale viene entro certi limiti riformato in senso garantistico (l.n. 932 del 1969). 

Poco più tardi si istituiscono i tribunali amministrativi regionali in attuazione dell’art. 125 Cost. (l.n. 1034 del 1971), l’ordinamento militare viene adeguato “allo spirito democratico della Repubblica” secondo le previsioni dell’art. 52 Cost. (l. 382 del 1978), così come l’ordinamento penitenziario viene adeguato al principio costituzionale di rieducazione del condannato ex art. 27 (l.n. 354 del 1975). E una complessiva riforma del sistema tributario richiama i “princìpi costituzionali del concorso di ognuno in ragione della propria capacità contributiva e della progressività” (art. 1 l.n. 825 del 1971, recante “Delega al Governo della Repubblica per la riforma tributaria”). 

L’insieme di queste misure legislative riflette la “grande trasformazione” che andava investendo per ogni aspetto la società italiana.[35] Ne erano espressione leader politici pur molto diversi, da Aldo Moro, il quale “sacrificava sistematicamente il funzionamento della forma di governo al processo di democratizzazione della forma di Stato nel quadro di un sistema politico senza alternanza”,[36] a Pietro Nenni, che riconoscendo le disfunzioni e gli abusi del sistema contava sulle virtù correttive degli aumentati spazi di libertà.[37]

Tuttavia, proprio la democratizzazione e per certi versi l’aumento degli spazi di libertà permettevano ai partiti di acquisire il consenso di identità collettive che riflettevano bisogni di rappresentanza o di ulteriori spazi di negoziazione, col ricorso a un deficit spending che smarriva il confine fra spese correnti e spese di investimento, e con una moltiplicazione delle sedi di governo che in parte derivava dall’articolazione interna dei vecchi apparati e in parte dalla istituzione di nuovi.[38]

Fu questa, in effetti, una delle conseguenze che scaturirono dall’attuazione delle norme sull’organizzazione costituzionale, specie di quelle sulle Regioni a statuto ordinario nelle due fasi 1970-1972 e 1975-1977. Contrariamente a quanto auspicato dai sostenitori della “regione come ente di governo”, e in parte a quanto previsto dallo stesso testo costituzionale, la regionalizzazione si risolse in una proliferazione di amministrazioni di estrazione partitica, e nello stesso tempo dominate da un risalente culto per l’uniformità, anche per via del contestuale varo di una riforma tributaria che configurava il “più rilevante accentramento nella storia d’Italia”.[39]

Sotto il profilo ordinamentale, l’altro pilastro dell’attuazione costituzionale di quella fase fu la legge sul referendum (l.n. 352 del 1970). Per quanto frutto di una negoziazione fra i partiti della maggioranza al fine di far passare la legge sul divorzio in cambio di un futuro referendum abrogativo della stessa, la legge rivestiva portata strategica, e non solo per ciò che l’istituto avrebbe significato per il sistema dei partiti e addirittura per il passaggio ad un altro sistema nel 1993. La legge regolava pure le modalità di svolgimento del referendum costituzionale, senza le quali le leggi di revisione potevano approvarsi solo a maggioranza di due terzi dei membri delle Camere e quindi con l’apporto necessario del PCI, al punto da far notare che, “come il difetto della legge di attuazione dell’art. 138 simboleggia assai bene la fase del congelamento, così la sua approvazione sarebbe altamente significativa del disgelo”.[40]

La riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 era anch’essa frutto del disgelo, pur senza per questo esprimere scelte costituzionalmente obbligate. Rispecchiava una “centralità” del Parlamento non solo in ordine alla legislazione, per la quale si andava stabilizzando la prassi di deliberazioni a maggioranza più ampia di quella di governo,[41] ma anche nella determinazione dell’indirizzo politico.[42] Un modello simile non potrebbe tuttavia desumersi dalla Costituzione,[43] e fu d’altra parte praticato solo nella VII Legislatura (1976-1979), dove il Parlamento era il luogo istituzionale d’elezione per inserire il PCI nella maggioranza di governo[44]. Parallelamente veniva approvata la l.n. 468 del 1978, che prevedendo l’approvazione annuale di una legge finanziaria subito prima della legge di bilancio consentiva alle Camere di disporre del loro potere di spesa in un quadro organico e programmato.[45]

La fine delle maggioranze di solidarietà nazionale avrebbe segnato il declino del modello, ma i regolamenti parlamentari e la disciplina del bilancio che ne avevano costituito la maggiore traduzione normativa sarebbero sopravvissuti a lungo, con conseguenze sui processi decisionali tali da prestare il fianco a crescenti critiche di scarso rendimento.[46]

6.2. A cavallo degli anni Novanta giungono a maturazione processi di attuazione della Carta avviati da tempo, cui se ne aggiungono altri richiesti da esigenze sopravvenute. Neanche in questa fase obbediscono a un disegno preordinato, ma alcune tendenze sono ben riconoscibili. 

Sul versante dell’organizzazione costituzionale, si avverte qualche prima risposta a una domanda di governo che fino ad allora era rimasta insoddisfatta, e nello stesso tempo si ha una forte espansione dei circuiti istituzionali propri di una Costituzione ispirata al pluralismo interno e all’apertura verso ordinamenti da essa richiamati.    

Nell’attuare l’art. 95, terzo comma, Cost., la legge sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio prevede fra l’altro un compiuto assetto dei regolamenti governativi (l.n. 400 del 1988). Vengono poi individuati tassativamente, riducendone il novero, gli atti amministrativi da adottarsi con decreto del Presidente della Repubblica (l.n. 13 del 1991). E i regolamenti parlamentari introducono, salvo eccezioni, il voto palese sull’approvazione delle leggi, sostenuto dalla maggioranza per ragioni di trasparenza e responsabilità nei processi decisionali anche a fronte del rispetto del divieto del mandato imperativo, ma spiegabile soprattutto con l’esigenza di contenere la perdurante conflittualità interna delle coalizioni di governo.[47]

Parallelamente vengono attuati i disposti costituzionali sulle autonomie locali (l.n. 142 del 1990) e sull’autonomia universitaria (l.n. 168 del 1989), e si disciplinano, con rinnovata attenzione al principio di eguaglianza sostanziale, le azioni positive per la realizzazione della parità fra uomo e donna nel lavoro (l.n. 125 del 1991) e le modalità di conseguimento del diritto allo studio dei “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” enunciato dall’art. 34 (l.n. 390 del 1991). La l.n. 205 del 1993 (“Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”) si colloca nel filone avviato dalla legge del ’52 attuativa della XII Disposizione transitoria, ma va pure ritenuta direttamente attuativa di alcuni dei generali divieti posti dall’art. 3, primo comma.  

Sempre in quegli anni la Corte osserva che, col Concordato del 1984, la scelta confessionale dello Statuto albertino e poi dei Patti lateranensi viene “anche formalmente abbandonata…riaffermandosi anche in un rapporto bilaterale la qualità dello Stato laico della Repubblica italiana” (sent. n. 203 del 1989), e il contestuale varo di intese con altre confessioni religiose fra il 1984 e il 1988 induce a parlare di una “quasi totale innovazione” del sistema dei rapporti fra Stato e Chiese, in ritardata attuazione dei princìpi costituzionali.[48] Nuovi indirizzi giurisprudenziali e progetti di legge pongono poi le premesse di una riforma del diritto internazionale privato (l.n. 218 del 1995), la quale consente di ragionare di un ordinamento che in materia civile e commerciale non si può più considerare normalmente chiuso salvo eccezioni, ma normalmente aperto con significativi momenti di chiusura.[49] La stessa legge sulla cittadinanza, che riforma quella del 1912 (l.n. 92 del 1991), pur deludendo molte aspettative, recepisce indirizzi consolidati nella giurisprudenza costituzionale del ventennio precedente.[50]

Dall’Atto unico europeo del 1986 al Trattato di Maastricht del 1993, l’integrazione europea subisce una forte accelerazione. L’Italia ne è fra i maggiori protagonisti politici, ma fra contraddizioni che si riveleranno esiziali. Da una parte il deficit spending non si era fermato malgrado un crescente “vincolo esterno”,[51] al punto da far scrivere al Presidente del Consiglio Andreotti, a conclusione del Consiglio europeo di Maastricht, che “il Trattato sarà la linea guida per le politiche interne; deve essere per noi quello che non è stato l’art. 81 della Costituzione le cui violazioni oggi pesano”.[52] Dall’altra un referendum di indirizzo, indetto previa approvazione della l.cost.n. 2 del 1989, segnala il favore popolare per una trasformazione della Comunità in una unione federale.[53] E a conferma della scarsa consapevolezza della posta in gioco, fra le Costituzioni dei maggiori Stati membri quella italiana è la sola a non venire adeguata a quanto disposto dal Trattato di Maastricht, autorizzando il dubbio che l’art. 11 “funzioni ancora da contenitore per ogni novità e sviluppo del processo di integrazione”.[54]

Una serie di misure investono in questa fase la giurisdizione, dal referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), che impone una nuova disciplina della materia (l.n. 117 del 1988), all’istituzione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (l.n. 186 del 1982) e del Consiglio di presidenza della Corte dei conti (l.n. 117 del 1988), che tendono a replicare il modello del Consiglio Superiore della Magistratura. Viene altresì varato il nuovo codice di procedura penale (adottato con d.P.R. n. 477 del 1988 attuativo della legge di delegazione n. 108 del 1984), frutto di un lungo dibattito e a sua volta oggetto di una giurisprudenza costituzionale sovente demolitoria. Ciò non toglie che la Corte scorga subito il nucleo centrale del nuovo codice nella scelta per il metodo del contraddittorio dibattimentale tra le parti, che ritiene volto alla “ricerca della verità” quale “fine primario e ineludibile” del processo penale (sent.n. 255 del 1992), salvo a valorizzarne più tardi la dimensione garantistica, in corrispondenza con un crescente impatto della giurisprudenza di Strasburgo e del riconoscimento nell’art. 111 Cost., che in parte vi consegue, dei princìpi del “giusto processo” (l.cost. n. 2 del 1999).

I princìpi costituzionali di imparzialità e buon andamento delle pubbliche amministrazioni vengono a loro volta rivisitati e vivificati dalla legge sul procedimento amministrativo (l.n. 241 del 1990), nonché dall’affermazione della distinzione fra politica e amministrazione, ricavata dalla Corte (sent.n. 355 del 1990) e poi posta a base di una importante riforma del pubblico impiego (d.lgs.n. 29 del 1993). Né processi di reinterpretazione della Costituzione, nonostante il silenzio del testo su di esse, sono estranei allo stesso “erompere” delle autorità indipendenti.[55] Si pensi alla giurisprudenza che sostiene le buone ragioni del contemperamento fra diritto di sciopero e tutela dei diritti degli utenti (sentt.nn. 222 del 1976 e 125 del 1980), così preparando la legge istitutiva della Commissione per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (l.n. 146 del 1990) ritenuta attuativa dell’art. 40 Cost. (sent.n. 32 del 1991). O all’auspicio, formulato alla vigilia dell’approvazione della legge istitutiva dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato (l. n.  287 del 1990), di una disciplina della concorrenza fondato sul richiamo all’“utilità sociale” (art. 41, secondo comma) e sul “programma di eliminazione delle diseguaglianze di fatto additato dall’art. 3, secondo comma, Cost., che va attuato anche nei confronti dei poteri privati e richiede tra l’altro controlli sull’economia privata finalizzati ad evitare discriminazioni arbitrarie” (sent.n. 241 del 1990).   

I processi di attuazione costituzionale ora riportati furono portati a compimento nella X Legislatura (1987-1992), quando la Repubblica dei partiti mostrava chiari segni di agonia. Al solo anno 1989, prima di Tangentopoli e della minaccia di un prossimo collasso finanziario,  risalgono lo scioglimento del PCI dopo la caduta del muro di Berlino, la costituzione della Lega nord, l’annuncio di Mario Segni di una raccolta di firme per il referendum elettorale, la trasformazione di un Capo dello Stato fino ad allora  prudentissimo in un protagonista che sfiderà sempre più apertamente i partiti all’atto della formazione dei governi e il Parlamento con l’invio del messaggio del 1991, nel quale l’apertura di una fase costituente appare la sola alternativa al crollo del sistema.[56]

Come si spiega che nel frattempo il Parlamento lavorasse all’attuazione costituzionale nei tanti settori cui abbiamo accennato? Per la verità il paradosso era tutt’altro che nuovo. Lo aveva già notato Paladin a proposito di altre fasi di malfunzionamento delle istituzioni e contestuale accelerazione dei processi di attuazione della Carta, quali il neocentrismo (1953-58) e la fase 1968-1979, e ne aveva individuato la ragione nel bisogno di trovare in quelle leggi un primo terreno d’incontro fra i partiti della maggioranza e il partito comunista.[57] Nella X Legislatura non si trattava più di preparare intese di governo, ma di uscire dalla tenaglia fra la percezione di un’imminente tracollo e lo stallo sulle riforme costituzionali ed elettorali, che a molti apparivano necessarie a salvare il sistema.[58] Erano ancora ragioni comuni ai figli dei Costituenti, che per l’ultima volta essi poterono far valere.   

7. La formazione di un nuovo sistema politico, con un contestuale forte ricambio di leader e di parlamentari, non interrompe l’opera di attuazione costituzionale. 

Nella XIII Legislatura (1996-2001) in particolare, vengono approvate alcune leggi di prima attuazione della Costituzione. Per quanto riguarda i diritti fondamentali, si ricordano la l.n. 482 del 1999 (“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”) in attuazione dell’art. 6 Cost., la l.n. 62 del 2000 (“Norme per la parità fra scuola pubblica e privata e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione”), in attuazione dell’art. 33, terzo e quarto comma, Cost., e  la  l.n. 328 del 2000 (“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”) in attuazione dell’art. 38, primo comma, Cost. Altre normative adeguano ai princìpi costituzionali singole disposizioni del codice penale, come la l.n. 40 del 2001 (“Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”) in riferimento all’art. 31 Cost., introducono princìpi a tutela del contribuente in un’aggiornata visione degli artt. 23 e 53 Cost., come la l.n. 212 del 2000 (“Disposizioni in materia di diritti del contribuente”), od attuano leggi rimaste a lungo sulla carta con rinnovata attenzione ai princìpi dell’art. 27 Cost., come il d.P.R. n. 230 del 2000 (“Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”). 

Sul versante organizzativo, la legge di delegazione n. 59 del 1996 prefigura una saldatura fra un disegno di “conferimenti” di funzioni amministrative a Regioni e ad enti locali e la riforma dell’amministrazione centrale. L’adozione dei relativi decreti legislativi è di per sé significativa se si pensa che analogo tentativo era fallito all’epoca della regionalizzazione, in sede di attuazione della legge delega n. 382 del 1975, e che l’ultima legge organica sui Ministeri risaliva a Cavour, malgrado le previsioni dell’art. 95, terzo comma, ult.per., Cost. 

I conferimenti alle autonomie così disposti fungono a loro volta da base dei lavori parlamentari per la riforma del Titolo V della Seconda parte, adottata con l.cost. n. 3 del 2001. La questione se una legge di revisione possa qualificarsi come legge di attuazione costituzionale non può essere risolta in astratto: la risposta sarà negativa o meno a seconda che il suo contenuto alteri senz’altro quello del testo previgente, oppure ne integri in tutto o in parte princìpi o istituti. Per cui escluderei che la l.cost. n. 1 del 1999, intitolata “Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni”, sia da ritenersi attuativa della Costituzione, mentre per certi aspetti fondamentali del suo impianto la riforma del 2001 ha rivisto il Titolo V in modo da fornire una più adeguata lettura dei princìpi della Prima parte. 

Al di là di ogni considerazione di merito, la riforma nasce infatti dalla necessità di superare il contrasto che si era creato fra la più rispettosa lettura dell’art. 5 offerta dalla l.n. 59 del 1997 (e relativi decreti attuativi) e gran parte del Titolo V, ormai inadeguato rispetto ad essa.[59] Lo dimostra il nuovo testo dell’art. 114, dove “le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana” avrebbero trovato “una positiva eco”, posto che “gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare” (Corte cost., n. 106 del 2002). Per altro verso, nell’attribuzione alla legge statale della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, secondo comma, lett. m)), non può non leggersi l’intento di raccordare  fra loro l’impianto autonomistico della Repubblica e l’affermazione del principio di eguaglianza nel godimento delle prestazioni, che nella prima fase dell’esperienza costituzionale avevano proceduto lungo binari via via più divergenti.  E ad analoga esigenza corrisponde l’assestamento dei rapporti fra livelli di normazione internazionale, dell’Unione europea, dello Stato e delle Regioni (art. 117, primo comma).  

8. Nemmeno l’ultima stagione di attuazione costituzionale può dunque ritenersi avara di risultati. Solo che si colloca in uno scenario del tutto diverso. Non perché, a partire dalla XII Legislatura, che inaugura un sistema elettorale prevalentemente maggioritario, l’assetto dei partiti si fosse disposto in senso bipolare: in quanto tale, il bipolarismo non avrebbe impedito aggregazioni parlamentari più ampie sulle leggi di attuazione e soprattutto su quelle di revisione della Costituzione. A renderle sempre meno plausibili fu l’affermarsi di una competizione spinta alla delegittimazione reciproca, con un corrispondente esaurimento delle ragioni della politica costituzionale che avevano sorretto fino alla fine la Repubblica dei partiti.   

Anche le leggi costituzionali più significative, che ancora agli inizi della legislatura erano state approvate a maggioranza di due terzi dei membri delle Camere (leggi costituzionali nn. 1 e 2 del 1999), cominciarono a venire approvate con l’altro procedimento previsto dall’art. 138 (l.cost. n. 3 del 2001). Di per sé la circostanza non provava l’intento della maggioranza di impadronirsi della Costituzione, ché anzi, lo abbiamo visto, quaranta anni prima Elia aveva visto nell’attuazione legislativa delle modalità di svolgimento del referendum costituzionale il simbolo del disgelo, di una compiuta accettazione reciproca. Dal 2001 si iniziò invece a deprecare la prassi di una Costituzione “cambiata a colpi di maggioranza”, presa di posizione che era anch’essa segno di sfiducia nella possibilità di un’ampia condivisione politica dei suoi princìpi.       

Corrispondentemente, vengono meno i processi di attuazione condivisi fra Parlamento e Corte, e aumentano i casi di conflitto o di incomunicabilità.[60] Norme di riforma del processo amministrativo dichiarate incostituzionali per eccesso di delega vengono riapprovate con legge ordinaria e nuovamente caducate dalla Corte, questa volta per contrasto con le regole costituzionali sul riparto di giurisdizione (sent.n. 204 del 2004). Più evidente è il caso della revisione dell’art. 111 Cost. adottata con l.cost. n. 2 del 1999, che oltre ai princìpi del giusto processo introduce in Costituzione regole sicuramente più confacenti a una legge ordinaria (art. 111, terzo e quarto comma) onde superare reiterate pronunce di accoglimento emesse sul punto dalla Corte, la quale stavolta si adegua. Analogamente, disposizioni della legislazione elettorale volte a riequilibrare lo svantaggio dei candidati di sesso femminile nella formazione delle liste vengono dichiarate illegittime dalla Corte alla stregua dell’art. 51 (sent.n. 422 del 1995), cui viene aggiunto allora un apposito comma per consentire la promozione delle pari opportunità (l.cost.n. 1 del 2003) del quale la Corte prende anche qui atto.    

Un’ipotesi di incomunicabilità si verifica invece allorché la Corte interpreta in modo creativo il testo di revisione del Titolo V al fine di rimediare ai suoi limiti maggiori, e il Parlamento approva la relativa legge di attuazione (l.n. 131 del 2003), e una riforma comprensiva di modifiche della stessa legge costituzionale, senza che i lavori preparatori rivelino consapevolezza dei massicci interventi operati dalla giurisprudenza. 

La law in the books, sempre più esposta a una politica convulsa eppure tentata da onnipotenza, si dissocia dalla law in action, dove le ragioni del diritto sopravvivono a costo di inseguire la politica, col risultato di mettere a repentaglio la certezza della legalità e dei rapporti giuridici. La dissociazione, comunque, non esprime uno scontro fra ideologie o percezioni della Costituzione, ma il vuoto di politica costituzionale che caratterizza le nuove elite politiche. La stessa ricerca di un “Paese normale” tradisce un’istanza di modernizzazione, di superamento del ritardo italiano rispetto ad altri Paesi europei, che riprende sul terreno istituzionale un antico topos storiografico, ma lo riprende inconsapevolmente, e senza contare sulle risorse della tradizione costituzionale per strutturare un mutato contesto politico. Per altro verso, si rinnega così quella promessa di un passo indietro dei partiti rispetto alle istituzioni che aveva tenuto a battesimo la seconda fase dell’esperienza repubblicana.      

Né è a questo genere di critiche che si indirizzano i costituzionalisti. Presi dall’horror vacui, raramente ricercano ragioni e termini del vuoto di politica costituzionale, e preferiscono prendere subito posizione, ora a favore di una modernizzazione sganciata dall’identità costituzionale, ora con una denuncia di tradimento. E questa, più che di un mito della Costituzione quale atto fondativo, si alimenta del rimpianto per un’età dell’oro dell’attuazione costituzionale. Eccoci dunque tornati alle percezioni, ma solo per spiegarne l’origine; per il resto, anche quando si siano tradotte in una communis opinio, esse rischiano di ingannare chi si addentri nello studio della vicenda qui appena abbozzato.  


[1]Ipotesi sempre più accreditata fra gli storici: v. ad es. P.Craveri, L’arte del non governo. L’inesorabile declino della Repubblica italiana, Venezia, Marsilio, 2016, 347 ss. e G.Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Roma, Donzelli, 2009, 126. 

[2] L.Elia, Diritto costituzionale, in Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia. Messina-Taormina 3-8 novembre 1981, Milano, Giuffrè, 1982, 356. 

[3] L.Elia, Diritto costituzionale, cit., 358. 

[4] Come ha di recente precisato R.Bin, Una Costituzione applicata ma non attuata, in Dalla Costituzione “inattuata” alla Costituzione “inattuale”?. Potere costituente e riforme costituzionali nell’Italia repubblicana. Materiali dall’incontro di studio di Ferrara, 24-25 gennaio 2013, a cura di G.Brunelli e G.Cazzetta, Milano, Giuffrè, 2013, 327

[5] V.Crisafulli, La legislazione del cinquantennio, in Cinquanta anni, cit., 45. 

[6] S.Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna, il Mulino, 2004, è stato fra i pochi ad approfondire le interazioni fra profili tecnico-giuridici e contesti storico-politici.   

[7] L.Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2004, 239, S.Rodotà, Libertà e diritti in Italia dall’Unità ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1997, 112, e più di recente E.Cheli, Nata per unire. La Costituzione italiana tra storia e politica, Bologna, il Mulino, 2012, 30.  

[8] G.U.Rescigno, La distribuzione della ricchezza socialmente prodotta, in La Costituzione ha 60 anni. La qualità della vita sessant’anni dopo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2008, 308.

[9] M.Dogliani, La determinazione della politica nazionale, in La Costituzione ha 60 anni, cit., 337.  

[10] Così M.Fioravanti, La trasformazione costituzionale, in Dalla Costituzione “inattuata”, cit., 356. V. pure C.Pinelli, Dei diritti sociali e dell’eguaglianza sostanziale. Vicende, discorsi, apprendimenti (2011), in Nel lungo andare. Una Costituzione alla prova dell’esperienza. Scritti scelti 1985-2011, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, 381 ss.; Id., Generazioni, in Il costituzionalista riluttante. Scritti per Gustavo Zagrebelsky, Torino, Einaudi, 2016, 199 ss. 

[11] Senza contare che lo stesso dibattito sulle riforme della seconda parte meriterebbe a sua volta una periodizzazione, che ho cominciato a prospettare in C.Pinelli,  Dalle “grandi riforme” alle “manutenzioni costituzionali”. Ma di cosa parliamo?, in il Filangieri. Quaderno 2015-2016, 7 ss.

[12] Ambedue dovuti a Piero Calamandrei, rispettivamente in La Costituzione e le leggi per attuarla, in AA.VV., Dieci anni dopo. 1945-1955, Bari, Laterza, 1955, 222 ss., e nella seduta del 12 dicembre 1952 della Camera dei deputati.  

[13] P. Calamandrei, La Costituzione, cit., 99 ss.; L. Basso, Il Principe senza scettro (1958), Milano, Feltrinelli, 1998, 272 ss.; L.Piccardi, La Repubblica degli italiani. Momenti e problemi dell’Italia postfascista, Firenze, La Nuova Italia, 1971, 65 ss.; S. Rodotà, Libertà e diritti in Italia, Roma, Donzelli, 1997, 103 ss.

[14] S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992, 59. 

[15] P. Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino, 2006, 561-562.  

[16] A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, il Mulino, 2004, 119 ss. 

[17] S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., 56. Ma v. pure P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, il Mulino, 1977, 313, che attribuisce a De Gasperi e alla DC il merito di “aver portato alla democrazia il mondo cattolico nel suo insieme”.  

[18] Cfr. L. Paladin, Per una storia costituzionale, cit., 88 ss.

[19] P. Craveri, L’arte del non governo, cit., 84.

[20] V. già E. Cheli, Il problema storico della Costituente, in Pol.dir., 1973, 524.

[21] Si può vedere C. Pinelli, Giugno-luglio 1960. Cinquant’anni dopo. La rivolta democratica contro la destra (2010), in Nel lungo andare, cit., 29 ss. 

[22] Cfr. S Bartole, Interpretazioni e trasformazioni, cit., 166 ss. 

[23] Cfr. F. Perfetti (a cura di), L’ammissione dell’Italia all’O.N.U. 1945/1955: dieci anni difficili, italiadecide, Roma, 2014. 

[24] L. Paladin, Per una storia costituzionale, cit., 162. 

[25] P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, Bologna, il Mulino, 1997.

[26] Abrogazione della legislazione fascista sulle “migrazioni interne” per consentire la “mobilità territoriale dei lavoratori” (l.n. 5 del 1961); divieto di adibire al lavoro i minori di età inferiore a 15 anni, con eccezioni (l.n. 1325 del 1961); restrizione dei licenziamenti individuali alle ipotesi di giusta causa e giustificato motivo (l.n. 604 del 1966); riduzione delle eccezioni al divieto di adibire al lavoro i minori di età inferiore a 15 anni e regola generale per cui il loro lavoro non può in nessun caso pregiudicarne l’impegno  scolastico (l.n. 977 del 1967); statuto dei diritti dei lavoratori (l.n. 300 del 1970), processo del lavoro (l.n. 533 del 1973), protezione delle lavoratrici madri e disincentivazione del lavoro a domicilio (l.n. 877 del 1973).

[27] A parte la chiusura delle “case di tolleranza” e l’introduzione del reato di sfruttamento della prostituzione adottate in precedenza (l.n. 75 del 1958, c.d. legge Merlin), si ricordano il divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio (l.n. 7 del 1963), il riconoscimento del diritto delle donne di accedere a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici (l.n. 66 del 1963), e infine l’affermazione della parità in materia di lavoro (l.n. 903 del 1977).

[28] Adozione speciale come strumento per superare i limiti dell’adozione ordinaria (l.n. 431 del 1967), divorzio (l.n. 898 del 1970), nuovo diritto di famiglia (l.n. 151 del 1975).

[29] Concessione degli assegni di studio agli universitari (l.n. 80 del 1963), fornitura gratuita dei libri di testo agli alunni delle scuole elementari (l.n. 719 del 1964), liberalizzalizzazione dell’accesso all’università (l.n. 910 del 1969), asili nido comunali  (l.n. 1044 del 1971), riforma dello stato giuridico del personale scolastico, con contestuale istituzione di organi collegiali (l.n. 477 del 1973 e decreti presidenziali nn. 416, 417 e 419 del 1974).

[30] La legge ospedialiera (n. 132 del 1968) prevede fra l’altro l’obbligo di ricoverare quanti necessitino “di cure urgenti per qualsiasi malattia”, così ponendo alcune premesse dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale (l.n. 833 del 1978).

[31] Dall’abolizione della censura su film e lavori teatrali (l.n. 161 del 1962) alla conformazione del servizio pubblico radiotelevisivo a regole improntate al pluralismo (l.n. 103 del 1975).

[32] Dalla previsione di limiti massimi della custodia preventiva (l.n. 406 del 1970) all’ampliamento dei casi di concessione della libertà provvisoria (l.n. 773 del 1972, c.d. legge Valpreda).

[33] Una nuova disciplina dei passaporti limita fortemente la discrezionalità amministrativa in materia (l.n. 1185 del 1967), si introducono per la prima volta norme sull’obiezione di coscienza (l.n. 772 del 1972), vengono tutelate la segretezza e la libertà delle comunicazioni (l.n. 98 del 1974), la maggiore età viene fissata a 18 anni (l.n. 39 del 1975), è disposta la chiusura dei manicomi (l.n. 180 del 1978, c.d. legge Basaglia), viene disciplinato l’aborto (l.n. 194 del 1978).

[34] La l.n. 195 del 1974 introduce il sistema di finanziamento pubblico dei partiti, senza per ciò potersi considerare attuativa dell’art. 49 Cost. Più tardi sarà approvata la l.n. 17 del 1982, intitolata “Norme di attuazione dell’art. 18 della Costituzione in materia di associazione e scioglimento dell’associazione denominata Loggia P2”.   

[35] S.Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., 223 ss.

[36] L.Elia, Moro oggi, in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, in Quaderni della rivista “Il Politico”, n. 18, 1982, XIX.  

[37] “Del sistema politico che ha preso nome e data dal centro-sinistra si può dire… che nulla funziona e tutto vive. Non funziona l’amministrazione, è in rovina l’economia, è sull’orlo del precipizio la lira, non funziona la scuola, non funzionano i trasporti. L’urbanistica è come sempre un campo aperto alla speculazione. La tangente è il superprezzo di ogni affare. Non ha limiti la pratica delle bustarelle, da quelle striminzite dei piccoli favori (una pratica amministrativa da accelerare, ad es.), a quelle mastodontiche dei petrolieri a quelle della Lockeed. Ma tutto vive. Tutto cioè è in movimento, nessuno è fuori tiro. Tutto è oggetto di critica e di denuncia. Il potere comporta sempre una caterva di abusi. Ma la libertà è un correttivo permanente degli arbitrii” (P.Nenni, Intervista sul socialismo italiano, a cura di G.Tamburrano, Roma-Bari, Laterza, 1977, 125-126). 

[38] G.Amato, Il primo centro sinistra  ovvero l’espansione della forma di governo, in Quaderni costituzionali, 1981, 301. 

[39] S.Cassese, La riforma del potere locale nello “Stato regionale”, in Politica del diritto, 1978, 24. 

[40] L.Elia, L’attuazione della Costituzione in materia di rapporto tra partiti e istituzioni (1965), in Costituzione, partiti, istituzioni, Bologna, il Mulino, 2009, 122. 

[41] Come teorizzato da C.Lavagna, Maggioranza al governo e maggioranze parlamentari, in Politica del diritto, 1974, 673 ss., e riscontrato empiricamente da A.Predieri, Parlamento 1975, in Id. (a cura di), Il Parlamento nel sistema politico italiano, Milano, Comunità, 1975. 

[42] A.Baldassarre, Il Parlamento come soggetto di indirizzo e di controllo politico, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Roma-Bari, Laterza, 1979, 16 ss.

[43] E. Cheli, La “centralità” parlamentare: sviluppo e decadenza di un modello (1981), in Taccuino di un costituzionalista, a cura di M. Manetti, Modena, Mucchi, 2015, 171. 

[44] E. Cheli, La “centralità” parlamentare, cit., 172, e L. Paladin, Per una storia costituzionale, cit., 277.

[45] S. Ristuccia, Amministrare e governare. Governo parlamento amministrazione nella crisi del sistema politico, Roma, Officina, 1980, 170 ss.

[46] V. già G. Di Palma, Sopravvivere senza governare. I partiti nel parlamento italiano, il Mulino, Bologna, 1978.

[47] S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni, cit., 377 ss.

[48] C. Cardia, Stato e confessioni religiose, Bologna, il Mulino, 1988, 107 ss.

[49] P. Biavati, Giurisdizione civile, territorio e ordinamento aperto, Milano, Giuffrè, 1997, 27. 

[50] M. Cuniberti, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e libertà del cittadino nella costituzione italiana, Padova, Cedam, 1997, 478 ss. 

[51] Già formulato da G.Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Bari-Roma, Laterza, 1977, 64. Sul punto P. Craveri, L’arte del non governo, cit., 414 ss. 

[52] Rip. in P. Craveri, L’arte del non governo, cit., 441.

[53] Legge costituzionale votata all’unanimità da entrambe le Camere. Il testo del quesito era il seguente: “Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?”. Il referendum, cui partecipò l’80% degli elettori, fu approvato dall’88% dei votanti.    

[54] A. La Pergola, L’Unione europea fra il mercato comune ed un moderno tipo di Confederazione. Osservazioni di un costituzionalista, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1993, 25. 

[55] A. Predieri, L’erompere delle autorità amministrative indipendenti, Passigli, Firenze, 1997.

[56] Si può vedere C. Pinelli, Il caso, la necessità, e una cabina di regia. Come la Repubblica superò la crisi dei primi anni Novanta (2011), in Nel lungo andare, cit., 53 ss.   

[57] L. Paladin, Per una storia costituzionale, cit., 239 ss. 

[58] Lo ha testimoniato fra gli altri L. Covatta, La legge di Tocqueville. Come nacque e come morì la riforma della prima Repubblica italiana, Reggio Emilia, Diabasis, 2007.

[59] L. Elia, Introduzione, in La Repubblica delle autonomieRegioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, a cura di T. Groppi e M. Olivetti, Torino, Giappichelli, 2002, 7-8.

[60] C. Pinelli, I rapporti fra Corte e Parlamento in mancanza di una politica costituzionale, in Giornale di storia costituzionale, 2006, n. 11, 321 ss. 

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