
Si riporta qui di seguito la recensione apparsa su La Nuova Antologia (n. 156, ottobre-dicembre 2021) del volume “Per comprendere la complessità biologica” di Lilia Alberghina (Licosia, 2021) scritta da Italico Santoro.

Non capita di frequente, almeno in questo “nostro” tempo, che uomini o donne attente allo studio delle scienze – diciamo pure uno scienziato o una scienziata – siano altrettanto sensibili all’impatto che i risultati delle loro ricerche possono avere sull’insieme della società: effetti di natura economica, di natura politica, di equilibrio tra le istituzioni e tra i soggetti singoli che ne vengono investiti. Un’eccezione è sicuramente il bel libro che Lilia Alberghina ha pubblicato dopo molti approfondi- menti in una materia di cui può essere considerata sicura protagonista – le biotecnologie e più in generale le scienze della vita – ma anche a seguito di un confronto con la realtà circostante, con le forze che muovono la storia e le conseguenze che su quelle forze possono produrre argomenti che riguardano il fine ultimo della storia stessa: il problema della vita e della morte.
Né c’è da meravigliarsi che questo sia avvenuto. Lilia Alberghina non è solo una “specialista”, in grado come tale di padroneggiare una singola materia. Il suo orizzonte è più ampio, grazie ad una solida cultura classica, al suo peculiare interesse per il Rinascimento italiano (e fiorentino in particolare), alla sua assidua frequentazione – accanto ai simposi scientifici – di convegni e seminari di natura culturale e politica. C’è perfino, nella sua biografia, una breve parentesi di impegno istituzionale: naturalmente in rappresentanza del Partito Repubblicano di Giovanni Spadolini.
L’obiettivo di fondo del libro riassume tutto questo: argomentare le ragioni e proporre le prime soluzioni «affinché la “Complessità della vita” possa diventare la “idea-guida” del prossimo vigoroso sviluppo scientifico, tecnologico e culturale, che dovrebbe offrire una prospettiva di futuro in cui questa nuova conoscenza, insieme a riscoperti valori umani di collaborazione, empatia e creatività regalino all’umanità un nuovo Rinascimento, capace di farci uscire dalla dolorosa e straniante esperienza della pandemia».
Il percorso è semplice e insieme rivoluzionario. «I decenni di ricerche, che iniziano con la scoperta della doppia elica del DNA e giungono fino ai nostri giorni, hanno partenza di questo percorso. Durante questi anni sono stati fatti enormi passi in avanti, sono stati raccolti moltissimi dati e creata una «innovativa bioindustria». Si è affermato però un «paradigma riduzionistico, integrato da algoritmi del digitale», un sistema DNA-centrico, che fornisce «una descrizione, ma non interpretazioni causa- li, del processo in esame». Si è sviluppata insomma una conoscenza specialistica, che «per qualunque problema, dalla medicina alla diplomazia internazionale, non è la chiave giusta» per interpretare fenomeni complessi. Quella che si richiede, invece, è «una capacità di affrontare i problemi con una visione ampia e globale, flessibile, trasversale, tale da integrare i risultati parcellizzati delle analisi specialistiche».
A questa impostazione, che caratterizza la «ricerca mainstream», l’Alberghina contrappone una diversa metodologia, una strategia innovativa, la «systems biology», che si propone di studiare gli esseri viventi come “sistemi”, di cogliere le connessioni esistenti tra le diverse parti del problema, rivalutando il ruolo che in tale analisi è svolto dal processo metabolico, in base al principio che «ogni cellula è il metabolismo che ha». E ovviamente la parte più corposa del libro è dedicata ad illustrare – da “scienziata” che padroneggia con grande sicurezza la materia – la fondatezza della sua tesi.
Colpiscono però due osservazioni che esprimono a pieno l’orizzonte ampio in cui la scienziata colloca le sue riflessioni. In primo luogo, la peculiarità della tradizione propria dell’Occidente, dove si è affermata, «dal Settecento in avanti … l’idea che si possano criticare le teorie dominanti, seguendo la logica del metodo sperimentale, nel quadro di una società aperta, senza finire sul rogo», così marcando una differenza netta, anche nella ricerca, fra le democrazie liberali e i regimi autoritari. E l’altra, che in qualche modo ne deriva, secondo cui «spesso gli individui sono più bravi dei team per integrare, creativamente, esperienze lontane»; e che è solo quando si è «trovato il bandolo della matassa» che «la collaborazione di gruppi di specialisti diventa molto utile per acquisire tutti i dettagli del fenomeno complesso in esame».
Ma è la stessa lunga galoppata attraverso lo studio delle scienze della vita a non fermarsi ripiegando su se stessa. Come è nella formazione culturale dell’autrice, l’analisi si allarga ai problemi che rischiano di condizionare lo sviluppo stesso delle società occidentali. «Una visione biologica-molecolare “DNA centrica”, riduzionista e determinista – conclude l’Alberghina – è capace solo, con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale, di cogliere correlazioni tra serie di eventi ed è quindi incapace di appor- tare, in modo progettuale, miglioramenti strutturali alla organizzazione dei sistemi complessi». Mentre invece «un approccio sistemico» può contribuire non solo «a risolvere temi di cura della salute» ma anche ad affrontare con successo gli altri problemi con cui le società occidentali sono chiamate a misurarsi, dalla crescita sostenibile alla riduzione delle diseguaglianze economiche, da una migliore qualità della vita alla ricerca di nuove forme di aggregazione sociale.
Un nuovo Rinascimento, insomma, come altre volte è capitato dopo periodi di crisi come quello che la pandemia ci sta costringendo ad attraversare. Una conclusione che pecca di ottimismo? Forse, ma ne abbiamo certamente bisogno per torna- re a guardare al futuro con spirito costruttivo, con la fiducia e la speranza che hanno sostenuto l’umanità in analoghi momenti in cui sembrava che tutto fosse compro- messo per sempre.
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