CORPORATE DIPLOMACY

Il libro Corporate Diplomacy, una raccolta di indicazioni per cogliere il nuovo ruolo dei brand di fronte alle sfide dei cambiamenti, definiti catastrofici, che la globalizzazione, impone edito da Egea (128 pg, 16 euro), è stato scritto da Vittorio Cino e Andrea Fontana.

La tesi di base è che le imprese, di ogni ordine e dimensione, non possono evitare di confrontarsi con la diplomazia internazionale e che devono prendere posizione in campo sociale, ambientale, e anche in campo politico. La diplomazia aziendale insomma, viene esaltata come una sorta di panacea dei mali sociali del mondo, una sorta di ventata di aria fresca in grado di rivitalizzare l’arrancante e arretrata diplomazia degli stati nazionali.

L’impressione generale che si ricava dalla lettura è quella che si sia di fronte al solito rituale frusto e ripetitivo teso a riverniciare di tanto in tanto la facciata concettuale del management strategico di un colore diverso, magari un colore pastello adatto alla stagione, senza però porre mano o proporre interventi strutturali o men che meno suggerire nuove idee. Spesso, quando non si sa cosa proporre di nuovo si prendono e si accostano parole in inglesi intriganti, sottolineandone l’assoluta originalità, ma evidenziandone anche, così facendo, la loro incerta consistenza concettuale.

Eppure ce ne sarebbe bisogno di nuove idee, altroché, soprattutto di fronte alle imminenti e non meglio precisate “apocalissi culturali” che ci attendono, come il libro sottolinea.

Invece i ben noti casi evidenziati nel testo, e che riguardano aziende come Starbucks, Dolce & Gabbana, Airbnb etc, narrano situazioni di difficoltà aziendale dove con tutta probabilità sarebbe stato assai meglio far leva su categorie già esistenti, piuttosto che tentare di annebbiare ulteriormente la mente dei manager.

Cosa differenzierebbe infatti la corporate diplomacy dalla già esistente (e ancora poco sapientemente sfruttata da tante aziende) responsabilità sociale di impresa? In questo campo sì che ci vorrebbe una azione corale, volta a definire standard davvero pervasivi, unitari e in alcuni casi e settori anche cogenti, di “reportistica non finanziaria”, grazie ai quali i bilanci sociali delle aziende potrebbero risultare più chiari, comparabili e comunicabili all’esterno. Ma questa è una strada in salita che richiede un vero e talvolta impopolare impegno, si sa, dove il problema non è tanto quello, tutto sommato più comodo e a buon mercato, di imporre il “pensiero del brand” ma di discutere davvero di problemi etici e ambientali con un comune approccio globale tra aziende appartenenti a contesti geopolitici e sociali differenti, e con paradigmi valoriali e culturali non omogenei e talvolta in contrasto.

Stesso discorso è per l’evanescente differenza prospettata tra “diplomazia” aziendale e le esistenti tecniche e tematiche di lobbying e public affair, che vantano uno spessore e un inquadramento ben più solido, sotto tutti i punti di vista, sia pratici che teorici.

Il comportamento di una impresa in una situazione di crisi è, o dovrebbe essere, normato dalle tecniche di comunicazione, crisis management e gestione della continuità operativa: che poi le stesse siano attualmente conosciute e/o bene applicate dalle aziende è un altro discorso, ma non si sentiva particolarmente il bisogno di nuove categorie

Dall’altro lato, lascia piuttosto perplessi questo continuo retrogusto di relativismo etico che serpeggia nelle pagine del libro, e che, ad avviso di chi scrive, sintetizza benissimo i grandi mali del dibattito culturale (non solo in campo aziendale) dei nostri tempi: il tutto è sintetizzabile con due frasi-mantra, di cui una, la prima, appartiene alle “dieci tesi per la corporate diplomacy” che animano il libro.

  1. “I fatti non sono più rilevanti, il paradigma della realtà oggettiva è finito”: secondo questa visione i fatti contano meno che niente, conta la pronta e opportunista interpretazione che se dà, assecondando se necessario la pancia dei destinatari di tale comunicazione. Che ne è dello sforzo, questo sì che sarebbe oggigiorno controtendenza e di alto valore socio-culturale, che alcune grandi compagnie del passato facevano per fornire istruzione, preparazione culturale e capacità argomentative alle comunità con cui interagivano? Oggigiorno il problema è quello di fornire chiavi interpretative e fonti informative attendibili, affidabili e certificate, di favorire la capacità delle persone di costruire idee, senso e significato, visto che tante delle esaltate super-compagnie si limitano a propinare al pubblico piattaforme tecnologiche sempre più evolute e invasive, di cui quasi nessuna si preoccupa affatto della qualità/rischiosità dei dati e delle informazioni in esse contenute.
  2. “Dallo stakeholder engagement all’issue management” ovvero passare dall’attenzione ai portatori di interesse, di qualunque genere, di una organizzazione al “focus di attenzione esercitato sulla issue, cioè sulla tematica che esercita o è destinata ad esercitare la maggiore influenza sull’organizzazione”. Suona un po’ come fornire alle aziende la ricetta del perfetto boyscout: a) prenditi (temporaneamente) un problema (quello che vuoi tu, basta che faccia comodo al business e sia collegato alla tua missione, ma alla fine, tanto anche quella è relativa e plasmabile, perché viviamo sempre nel presente e quindi la storia aziendale cade inevitabilmente nel dimenticatoio) b) influenza sul tema quanta più gente puoi sul globo a prescindere dai fatti, ma solo sulla base del lavoro sulla loro emotività, esperienza e percezione: gli stakeholder, i portatori di interesse, non esistono, esiste solo un pubblico per la tua comunicazione c) quando hai finito abbandona il tema e passa ad altro.

Sperabilmente, ci sarebbe bisogno proprio dell’opposto, ovvero di studi ed idee volte a caratterizzare le aziende sulla base di un sistema valoriale di lungo periodo, sostenibile e argomentabile, anche in controtendenza alla cultura dominante se fondato su reali esigenze sociali e ambientali e su un solido dialogo.

Questo dialogo, come insegnano i principi di responsabilità sociale, dovrebbe partire sempre dalle persone, comunque aggregate, (cioè dai portatori di interesse e di valore) e non dai problemi, in quanto questi sono sempre definiti in rapporto ai soggetti che li vivono e li interpretano, quotidianamente, i quali auspicabilmente vorrebbero essere aiutati ad affrontarli con cuore e mente, invece che con la pancia.


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