
Ne “La società aperta e i suoi nemici” credo che Popper abbia commesso un errore nel definire “chiusa” l’ideal-tipo antitetico alla società aperta. Non perchè qui non se ne condivida lo spirito e gli intenti, ma perchè in quel modo si rischia di dare una lettura sbagliata delle cose.
Mi spiego: con l’immagine della società chiusa si dà la sensazione di un lager, di un gulag all’interno del quale con la forza sono rinchiuse masse di individui che lottano in ogni istante per conquistare quella libertà, che insonni anelano.
Le cose, nella storia, non sono andate così. Per la stragrande maggioranza della sua storia gli esseri umani hanno vissuto con un certo conforto all’interno di società chiuse, o meglio tradizionali, nella quali, per l’appunto, una tradizione vissuta come sacra dettava il comportamento di ciascuno all’interno di quel gruppo umano, impostava le regole dell’interazione sociale, spiegava il mondo come era nato, imponeva una serie di valori sacri a cui credere quando si era in vita e raccontava come il mondo sarebbe poi finito. E in tutto ciò a ciascuno per nascita era attribuito un posto e un ruolo all’interno di questa società.
Possibilità di modificare queste norme? Nessuna. Le norme erano state poste da qualche divinità fondatrice e infrangerle avrebbe significato alterare la volontà divina, con le prevedibili conseguenze del caso.
Possibilità di cambiare la propria collocazione all’interno della società e il proprio ruolo? Nessuna. Si pensi al sistema delle caste in India. Qualche eccezione esisteva, in alcune società la casta sacerdotale (intesa in senso lato, vale a dire coloro che officiano i riti sacri) è aperta: un plebeo (lo uso come termine generico) può diventare un sacerdote, può cioè ascendere socialmente. Ma generalmente il sacerdote non può sposarsi, il che significa che non può trasmettere questo suo avanzamento sociale alla sua discendenza. È un riscatto individuale in senso stretto, non un riscatto sociale in senso lato.
Se, come si diceva, è vero che per la quasi totalità della sua storia, (le società aperte in senso moderno si contano sulle dita di una mano e sommate insieme non arrivano a dieci secoli) gli esseri umani sono vissuti all’interno di questo tipo di società tradizionali, allora è lecito ipotizzare che esse qualche beneficio lo diano e non debbano essere considerate sempre e solo dei lager da cui fuggire con ogni mezzo.
Un primo punto. La libertà dei moderni implica la responsabilità di dover scegliere chi essere e cosa essere: si chiama individualismo, l’azione elettiva e non è sinonimo di egoismo. Nelle società tradizionali il problema non si pone: è la tradizione che dice cosa devi essere. I margini per le crisi esistenziali non esistono.
Un secondo punto. Le società tradizionali sono a basso conflitto. In tutte esiste una serie complicatissima di riti e prescrizioni tese ad evitare il conflitto, che conduce alla disgregazione di un gruppo sociale e quindi alla sua morte. Si pensi al mangiare insieme in particolari occasioni, i sissizi degli spartani; tutto il sistema delle feste comandate e della loro organizzazione e celebrazione; il continuo scambio di doni tra vicini che servono a rinsaldare legami ed evitare liti: non puoi litigare con chi il giorno prima ti ha regalato un vassoio di pasta al forno e lo zucchine appena racolte nell’orto; infine si pensi alla fitta trama di relazioni parentali attraverso cui sono legati i suoi componenti. Relazioni che vengono ripercorse e ricordate in ogni occasione utile (“è figlio di…”, “nipote di…”; “a chi appartieni?” chiedevano una volta gli anziani nel mio paese).
È questa la società del dono e dei legami sentimentali cara a Marx (e a tutti i reazionari), sostituita dalla fredda logica del contratto e degli scambi per denaro. In questo senso si potrebbe dire che tutta l’opera di Marx è il tentativo di ricostruire nel futuro quella società tradizionale.
C’è un ultimo bene pubblico che la società tradizionale fornisce, una cosa che agli esseri umani piace tanto e cioè sentirsi parte attiva e stimata di un gruppo, all’interno del quale ci si conosce e ci riconosce; vale a dire sentirsi addosso l’approvazione sociale degli altri. In questo senso si potrebbe dire che come esiste una forma di salute fisica e di salute psichica, esiste anche un concetto di salute sociale, che consiste nel ricoprire un ruolo che gode di approvazione e considerazione all’interno di un dato gruppo sociale.
Questa fatta sinora è una descrizione statica, dove ogni elemento è slegato dagli altri. Per rendere tutto ciò più reale si deve introdurre un ulteriore elemento e cioè quello che tiene unito il tutto, che fa da collante del tutto, vale a dire la parola, il continuo dialogo tra gli individui e i gruppi. La chiacchiera, il pettegolezzo sono quello che lo spulciarsi è per le scimmie, stabilire e rafforzare legami sociali. È un caso che il nostro racconto della genesi del mondo inizi con “in principio fu la parola”
Ora questo tipo di ragionamento potrebbe essere la base su cui imbastirne tanti altri. Ma qui per ora se ne vogliono fare solo due.
Il primo, il successo dei social media. Nonostante gli alti lai dei censori dei tempi moderni, i social media creano gruppi e forniscono quella cosa che a noi esseri umani piace tanto: il senso di appartenenza a un gruppo e l’approvazione sociale. C’è di più, per centinaia di migliaia di anni siamo vissuti all’interno di gruppi ristretti in cui si condivideva tutto e il controllo sociale era ovunque. Il che serviva per garantire il rispetto delle norme sociali e la erogazione delle conseguenti sanzioni positive: la pacca sulla spalla; negative: la derisione o l’esclusione dal gruppo. Di qui una ulteriore considerazione, il concetto della privacy è, per gli esseri umani, innaturale; chi si mette in disparte, chi si sottrae al controllo sociale, fa qualcosa di pericoloso per il gruppo o fa delle cose non approvate dalla comunità. Il che spiega la naturale propensione di miliardi di persone a condividere quanto più possibile di sè in pubblico attraverso i social network, mentre coloro che non sono su nessun social network appaiono, agli occhi dei più, sempre più come individui strani.
Sia chiaro, questo è un discorso descrittivo e non prescrittivo. Nessuno dice che sia giusto così e nessuno vuole giustificare alcuna forma di intromissione di entità collettive nella propria sfera di individuale. Si sta solo dicendo che la forza con cui la condivisione di se stessi attraverso piattaforme digitali è dovuta al fatto che si innesta su bisogni e comportamenti ancestrali.
Se così stanno le cose, allora potrebbe non essere scorretto dire che il futuro è un ritorno al passato, vale a dire la ricostituzione di tante comunità (rigorosamente al plurale) tenute insieme attraverso le tecnologie digitali attraverso cui gli individui chiacchierano, chattano. L’aspetto positivo è che tali comunità potrebbero curare uno dei pericoli più grandi che lo stesso Popper paventava per le società aperte, vale a dire il loro trasformarsi in “società anomiche”, dove ogni individuo è un atono, senza alcun legame con gli altri. “Società atomizzate” per dirla con la Arendt “in cui gli individui vivono insieme, senza condividere una porzione visibile e tangibile del mondo”. Quando ciò accade si creano una delle più importanti condizioni per il sorgere del totalitarismo dato che “solo gli individui isolati possono essere dominati totalmente”.
Nunziante Mastrolia ([email protected])