
Con Xi Jinping la Cina ha abbandonato il vecchio monito di Deng Xiaoping di perseguire i propri obiettivi di crescita economica, militare e politica mantenendo un basso profilo ed ha iniziato ad agire sia a livello regionale che a livello internazionale con una sempre maggiore arroganza. Il che non è certo un segnale di lungimiranza nè di accortezza da parte di una leadership cinese, che a torto le opinioni pubbliche occidentali sembrano considerare onnisciente.
Qualche anno fa Edward Luttwak aveva definito questo cambio di atteggiamento come una sorta di autismo da grande potenza: la Cina in altre termini agirebbe senza tenere in nessuna considerazione le ansie, le paure e le apprensioni che il proprio gigantismo suscita nei paesi che le sono accanto. In realtà, questo non è altro che il vecchio nazionalismo Han e l’idea che il millenario Regno di Mezzo (si veda a tale proposito il tono della lettera che l’imperatore Qialong fece recapitare a Giorgio III) sia la più alta espressione del genere umano in quanto a saggezza, lungimiranza, accortezza.
Di qui questo senso di quasi indifferenza verso quanti sono considerati (si vedano a tale proposito i lavori di Alain Peyrefitte) niente altro che dei barbari d’oltreoceano.
Questo atteggiamento si sta però ritorcendo contro la leadership cinese, che di fatto ignora che il sistema delle relazioni internazionali non è fatto di stati vassalli ansiosi di essere accolti sotto il mantello cinese. Al contrario, l’arroganza cinese sta generando una reazione di uguale intensità che si sta concretizzando in una serie di alleanze che di fatto si traducono in una politica di containment e in prospettiva di roll-back nei confronti di Pechino.
Il caso più interessante è quello dell’Australia, che negli ultimi anni aveva subito una sorta di “diversione di orientamento”, simboleggiata dal fluente mandarino dell’ex primo ministro Kevin Rudd. In sintesi, anche a causa degli enormi investimenti cinesi nel settore minerario, Camberra stava scivolando nell’orbita cinese. Ora invece potrebbe essere uno dei quattro cardini su cui si struttura un nuovo sistema di alleanze in funzione apertamente anti cinese insieme a Giappone, India e Stati Uniti.
Sia chiaro: niente di nuovo. Questa è la riproposizione di una grande azione strategica che era stata messa in atto sotto l’amministrazione di George W. Bush per realizzare la quale Washington era stata disposta ad aprire una grossa falla nel regime di non proliferazione nucleare, riconoscendo l’India come potenza nucleare di fatto.
Il passo successivo si ebbe con il via (molto sotto tono) alla Quadrilateral Defence Initiative, un sistema di cooperazioni rafforzate in ambito difesa (e non solo) tra Washington, Camberra, Tokyo e Nuova Delhi. Quell’iniziativa di fatto non decollo mai, e per una serie di ragioni.
La prima era l’idea diffusa a Washington che con la Cina si potesse ancora dialogare e la si potesse rendere compatibile con l’ordine liberale internazionale, di qui una serie di tentennamenti e la paura che quella iniziativa potesse essere percepita da Pechino come apertamente anti cinese. La seconda, il fatto che l’India è allergica a qualsiasi forma di riduzione dei propri spazi di manovra in politica estera, di qui il rifiuto di inserirsi in un sistema di alleanze più o meno vincolanti.
Oggi quella vecchia iniziativa ritorna alla ribalta. Il Giappone ora come allora è al fianco degli Stati Uniti, l’Australia non subisce più il fascino di Pechino e a Washington il vento sembra essere definitivamente cambiato nei confronti della Cina, tanto che di fatto sia l’amministrazione Obama che quella Trump hanno seguito una linea molto simile. Sull’India invece resta un punto interrogativo dato che la sua allergia per un ordine post westfaliano fatto di cooperazioni rafforzate non è scemata, a meno che l’arroganza cinese non cresca così tanto (per esempio con l’uso del pugno duro ad Hong Kong) da spingere Nuova Delhi a scegliere il campo delle democrazie liberali.