La pandemia è stato come un reagente che una volta a contatto con il mondo dell’economia ha mostrato quali sono i lavori del futuro e quali sono quelli che finiranno nel museo delle curiosità, come i venditori di neve.
In Italia, come in tutti gli altri paesi sviluppati, la società è spaccata in due nazioni. Parafrasando Disraeli, una vive in un mondo di cui l’altra intuisce solo l’esistenza e l’una parla una lingua che l’altra non capisce. Una ha prospettive rosee, l’altra no.
La prima nazione è quella di coloro che sono riusciti in questi anni a fare il salto dall’economia fordista a quella digitale e ora possono prosperare nel mondo nuovo che sta arrivando. La cosa era evidente già da qualche anno e si stava accentuando con la progressiva digitalizzazione e automazione della produzione, che ha una implicazione importante. Se tutti possono automatizzare le proprie fabbriche, allora la competizione non si svolge più sul fronte della riduzione dei costi, ma sulla produzione di cose e servizi di qualità, innovative, creative, nuove. E su quel fronte non serve più il basso costo della manodopera, ma menti creative, innovative, che sanno produrre mondi nuovi. Il lavoratori non sono più tutti uguali perchè svolgono un lavoro parcellizzato che tutti possono svolgere, ma sono creature uniche. Di qui l’importanza di chi si occupa di Risorse Umane e di qui la necessità di ripensare una parte della normativa del lavoro dal punto di vista dell’imprenditore, che non sarà più assillato dal problema di come licenziare le persone, ma di come tenersi le menti che ha assunto e impedire che passino alla concorrenza.
Nel corso della pandemia gli abitanti di questa nazione hanno potuto continuare a lavorare, anzi hanno potuto lavorare meglio, visto che l’emergenza sanitaria ha spazzato via una serie di incrostazioni del mondo analogico che continuavano frenare il pieno dispiegamento delle potenzialità del digitale. Per dirla in breve, Zoom esisteva anche un anno fa, ma le buone maniera imponevano che delle cose importanti si parlasse faccia a faccia. La crisi ha spazzato via tutte queste inutili incrostazione.
Così ora, probabilmente chi vive nel mondo del digitale (inteso in senso lato) ha visto aumentare le proprie entrate e ha potuto sviluppare attività che prima venivano concepite solo in analogico. C’è di più, i cittadini del mondo nuovo con la pandemia hanno potuto lavorare anche in condizioni di maggiore sicurezza, stando a casa, e senza la necessità di spostamenti nel mondo fisico con il rischio di infettarsi.
Al contrario chi è rimasto imprigionato all’interno dell’economia analogica, gli abitanti dell’altra nazione, ha nella maggior parte dei casi dovuto assistere alla chiusura, fisica, delle proprie attività e chi ha continuato a lavorare, ha potuto farlo solo esponendosi al rischio del contagio. Al contrario degli abitanti della prima nazione, costoro hanno visto diminuire le proprie entrate e vivono una vita più rischiosa.
Ora, e della cosa ne abbiamo parlato la prima volta in occasione della presentazione del volume Generazioni Digitali, (Egea, 2020), il punto è che per poter vivere e prosperare nel mondo digitale serve una pacchetto molto consistente di saperi e di abilità intellettive che si acquisiscono in decenni di studio e che la stragrande maggioranza degli italiani non ha, nemmeno i nativi digitali. Conoscenze e una mentalità che difficilmente possono essere acquisite seguendo qualche corso di formazione.
Anzi in Italia, e sul perchè dovremo ritornarci, la situazione rischia di assumere contorni mostruosi, visto che il nostro paese “ha quasi 13 milioni di adulti con un livello di istruzione basso (categoria Isce 0-2, equivalente alla terza media), il 39% del totale dei 25-64enni (intorno ai 33 milioni di individui);più di un adulto su due (la stima oscilla tra il 53-59% dei 25-64enni) «potenzialmente bisognoso di riqualificazione» per via di competenze “obsolete”, o che a breve lo diventeranno, a causa dell’innovazione e del cambiamento tecnologico in atto nel mondo del lavoro, oppure perché, nonostante la laurea, possiedono scarse capacità digitali, di alfabetizzazione e di calcolo.” C’è di più: “i circa 13 milioni di adulti italiani con basso livello di istruzione rappresentano circa il 20% della popolazione adulta europea con un basso livello di istruzione (circa 66 milioni di individui totali)” (Sole 24 Ore).
Il punto è che la velocità impressa dalla pandemia alla transizione, rischia di gettare sul lastrico milioni di persone, perchè le possibilità che avevano, pur avendo un bassissimo livello di istruzione (che sia di ritorno o meno contato poco) di continuare a vivere aprendo attività anche redditizie (un bar, una discoteca, una sala giochi, un negozio di abbigliamento, il fotografo etc) sono state spazzate dall’avanzata fulminea del digitale, che in una sola notte si è imposto sull’orbe terraqueo (esagero per capirci). Per dirla in maniera brutale, chi aveva la terza media poteva anche prosperare aprendo un bar. Ora no.
In sintesi, il mondo digitale ha vinto, il mondo analogico è stato sconfitto e a perdere sono milioni di persone e la fine dell’emergenza sanitaria sono riporterà in vita lo status quo ante, perchè il digitale ha mostrato che alcune cose possono essere fatte in maniera più razionale rispetto al passato (dalla vita nelle città, alle riunioni su Zoom).
La domanda a questo punto è: che lavoro faranno questi milioni di persone che non hanno le conoscenze per poter lavorare nel mondo nuovo? Nessuno Stato ha le risorse finanziarie per poter mantenere con un reddito di cittadinanza questi milioni di disoccupati. E allora si pone una ulteriore domande? Come fare per trasferire nel più breve tempo possibile al più gran numero di persone possibili quelle conoscenze che servono per poter vivere e prosperare nel mondo nuovo? Io non ho una risposta, ma temo che se non ci sbrighiamo a trovarne una la situazione possa farsi esplosiva.