Nell’atteggiamento degli europei sulla guerra e sull’aggressione russa è come se ci fosse (malcelato) un senso di superiorità rispetto alla più netta posizione di anglosassoni e americani. É come se gli europei giustificassero la loro linea, che è una continua tentazione di appeasement, per una particolare consapevolezza delle cose del mondo, come di chi parla con nelle proprie vene il senso delle tragedie del passato, di chi ha la consapevolezza della geografia come identità e della storia come destino.
È come sei gli europei, in altre parole, volessero dire agli americani che loro, nazione troppo giovane, non sanno vedere le cose con il respiro dei secoli, che con la Russia bisogna conviverci, che Mosca non può essere scacciata via dall’Europa, frapponendo tra i confini russi e quelli polacchi il mare. Noi europei, che viviamo immersi nel senso della storia e che abbiamo la consapevolezza del tragico, noi non possiamo permetterci il lusso di immaginare vittorie definitive o accarezzare prospettive isolazionistiche perché noi non abbiamo due oceani in mezzo ai quali dormire sonni tranquilli. Noi europei sappiano che il male esiste e bisogna conviverci, anzi che è necessario trovarci un compromesso. E ogni compromesso è sempre al ribasso.
Sembra una posizione saggia e invece non lo è. La scelta di non scendere a patti con il nazifascismo (che è quella che ci ha salvato) fu una scelta americana, mentre Francia e Inghilterra cercarono un compromesso che non fece altro che rafforzare in Hitler la convinzione che l’assalto al potere mondiale avrebbe potuto avere successo. La decisione di umiliare la Germania a Versailles nel 1919 fu una scelta francese, mentre americana fu la decisione di reintegrare Berlino nel sistema internazionale già nel 1955 (5 maggio). I più grossi errori sono venuti dagli europei, settant’anni di pace sono stati il risultato delle scelte di Washington, che pure ha commesso errore macroscopici (Iraq).
È come se noi europei tutta questa storia dalla quale siamo attraversati non fossimo riusciti a metabolizzarla. È come se non avessimo appreso la lezioni del lungo Novecento e viviamo sospesi tra Versailles e Monaco, costantemente indecisi su come comportarsi: se usare la forza per punire chi infrange le regole o blandirlo perché in futuro non lo faccia più. Ma in questa continua indecisione intanto la storia accade, e se non ci fosse stata la mobilitazione immediata di americani e inglesi oggi a Kiev marcerebbero le truppe con la Z al posto della svastica, tra gli applausi degli autocrati di oggi e di quelli che verranno.
Questo vuol dire due cose. La prima, che è la nettezza della posizione americana che può permettere agli europei di interrogarsi moralmente su come non offendere l’orgoglio russo, sul senso del tragico, sulla geografia come identità e via macroneggiando. La seconda, che questo continuo vagare tra Versailles e Monaco sta a significare che noi europei non sappiamo più pensare in termini politici e strategici e che la nostra realpolitik è solo un nome che diamo a uno scambio indegno: lasciare che qualcuno calpesti i principi che noi proclamiamo ad alta voce in cambio dell’illusione di un quieto vivere momentaneo.
Se c’è un insegnamento da trarre per evitare gli errori del passato è che le democrazie liberali nel combattere i regimi autocratici devono essere ferme nei principi e magnanime nell’imporre le condizioni di pace ai popoli vinti, così da evitare e Monaco e Versailles. Gli europei di oggi nei confronti della Russia stanno facendo l’esatto contrario: magnanimi in guerra e malleabili sui principi. Il che crea le condizioni perfette per il disastro.