Questione sociale e piattaforme digitali

La storia economica moderna è spesso narrata come una sequenza di rivoluzioni industriali e tecnologiche, ciascuna portatrice di nuove opportunità e promesse di prosperità. Tuttavia, questo racconto ottimistico tende a oscurare un aspetto meno lusinghiero ma fondamentale del progresso: il divario crescente tra quanti sono in grado di usare a proprio vantaggio le nuove tecnologie e coloro che rimangono ai margini, intrappolati in un ciclo di precarietà. Questa precarietà è diventata un campo fertile per la crescita di aziende come Airbnb, Uber e i vari social network, che hanno sapientemente sfruttato l’instabilità economica per creare modelli di business altamente redditizi, prosperando sulla insicurezza lavorativa e del benessere economico di milioni di persone.

Da una parte, la narrazione predominante su queste piattaforme è che esse rappresentino la democratizzazione dell’economia, fornendo opportunità per tutti di diventare “imprenditori” nel contesto della cosiddetta economia della condivisione o gig economy. Ma cosa significa realmente questa democratizzazione quando è calata in un contesto di crisi generalizzata del ceto medio, alimentata da decenni di deregolamentazione del mercato del lavoro, erosione del welfare state e delocalizzazione offshore dei posti di lavoro?

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