“An Artificial History of Natural Intelligence: Thinking with Machines from Descartes to the Digital Age” di David W. Bates (The University of Chicago Press, 2024)
In un’epoca in cui “intelligenza” è diventata una parola-chiave che sembra spiegare tutto e autorizzare quasi tutto, il libro di David W. Bates invita a sospendere le evidenze e a chiedersi che cosa stiamo davvero nominando quando parliamo di mente, decisione, autonomia, automatismo. Il punto di partenza non è l’ennesima storia dell’AI come sequenza di innovazioni, né una difesa nostalgica del “fattore umano”, ma un problema concettuale: come si è costituita, nella lunga durata della modernità, l’idea che il pensare sia un processo in qualche modo costruibile, addestrabile, protesico, e quindi sempre già legato a dispositivi, modelli, tecniche? Bates suggerisce che le domande decisive non riguardano soltanto ciò che le macchine possono fare, ma ciò che noi abbiamo imparato a considerare “pensiero” proprio attraverso le macchine, gli automi, le metafore ingegneristiche e, più tardi, i linguaggi della fisiologia e dell’informazione. In questa prospettiva, la posta in gioco è insieme filosofica e storica: capire perché oggi l’autonomia appare minacciata dall’automaticità, e come questa tensione sia stata preparata da secoli di riflessioni sull’organizzazione del corpo, sulle regole della ragione, sulla plasticità e sui limiti della coscienza. Pubblicato nel 2024 da The University of Chicago Press, il volume si presenta così come un tentativo rigoroso di rimettere a fuoco il problema dell’intelligenza non come essenza naturale, ma come costrutto storico-tecnico che merita di essere ricostruito nelle sue stratificazioni.


