"Armageddon. Une histoire de la fin du monde” di Régis Burnet, Pierre-Édouard Detal, (Presses universitaires de France, 2024)
Ci sono parole che, pur nate in un contesto preciso, finiscono per vivere molte vite: cambiano di significato, attraversano epoche e lingue, e diventano una specie di sismografo delle paure collettive. “Armageddon” è una di queste. Nel libro Armageddon. Une histoire de la fin du monde, pubblicato da Presses universitaires de France (PUF) nel 2024, Régis Burnet e Pierre-Édouard Detal assumono questo nome come punto di ingresso per interrogare un problema più vasto: come l’Occidente abbia imparato a pensare la fine, a nominarla, a immaginarla, e soprattutto a collocarla nel tempo. Non è un’indagine “sulla fine del mondo” in senso sensazionalistico, né una ricostruzione puramente teologica: la prospettiva è storico-culturale, attenta ai dispositivi con cui una società traduce in linguaggio le proprie crisi. La domanda di fondo, infatti, non è solo “che cos’è Armageddon?”, ma “che cosa rivela di noi il fatto che continuiamo a ricorrere a questa parola?”. Seguendo la traiettoria del termine – da luogo biblico oscuro a etichetta universale della catastrofe – gli autori mostrano come l’immaginario della fine non sia un residuo arcaico, ma un modo ricorrente di organizzare la percezione del presente, di attribuire senso agli shock storici, e di costruire orizzonti di attesa. È un libro che merita attenzione perché, mentre promette di chiarire un nome, in realtà mette a fuoco un meccanismo mentale e sociale: quello per cui le civiltà, quando sentono vacillare le proprie certezze, rispolverano un vocabolario ultimo, capace di dare forma al timore che “qualcosa” stia per chiudersi – se non il mondo, almeno un mondo.


