Come il metodo scientifico affronta il problema delle fake news e delle teorie del complotto
La diffusione di fake news e teorie del complotto rappresenta una sfida crescente nell’era dell’informazione digitale: notizie infondate, miti pseudoscientifici e spiegazioni cospirazioniste circolano rapidamente sui social media, spesso radicandosi nell’opinione pubblica nonostante siano prive di basi reali. Il metodo scientifico, con il suo approccio rigoroso e critico alla realtà, offre però strumenti preziosi per contrastare questi fenomeni di disinformazione. Da un lato, la scienza fornisce un antidoto culturale: abitua a richiedere prove concrete e a diffidare delle affermazioni straordinarie prive di verifica. Dall’altro, la comunità scientifica ha sviluppato strategie attive per smentire le falsità e arginare le narrazioni infondate, attraverso il fact-checking, la divulgazione correttiva e l’educazione al pensiero critico. La lotta alle fake news e ai complottismi non è solo un compito sociale o politico, ma coinvolge in prima linea scienziati e divulgatori ed è uno dei motivi per cui Stroncature (il nome non è un caso) è nata: in ultima analisi, è in gioco la corretta comprensione di questioni fondamentali (dalla salute pubblica ai cambiamenti climatici) e la fiducia del pubblico nel sapere empirico.
Le teorie del complotto si caratterizzano spesso per una struttura intrinsecamente antitetica a quella scientifica. Mentre la scienza formula ipotesi falsificabili e accetta il rischio di essere smentita dai fatti, le narrazioni complottiste tendono a essere non confutabili: qualsiasi evidenza contraria viene reinterpretata come parte stessa del complotto. Ad esempio, se schiaccianti dati scientifici provano che i vaccini sono sicuri ed efficaci, i complottisti anti-vax li presentano come “fabbricati” o manipolati dalle stesse forze che orchestrerebbero la cospirazione, in un circolo vizioso che immunizza la teoria dal confronto con la realtà. Questo atteggiamento è l’opposto del metodo scientifico, che invece richiede di cambiare idea quando le prove confutano una tesi. Inoltre, le fake news spesso sfruttano bias cognitivi noti: fanno leva sulle emozioni (paura, indignazione), semplificano eccessivamente questioni complesse o presentano correlazioni casuali come se implicassero un nesso causale. La formazione scientifica, con la sua enfasi sull’analisi razionale e sul principio che correlation is not causation, aiuta a riconoscere queste fallacie logiche. In sostanza, il primo modo in cui la scienza affronta fake news e complotti è promuovendo un habitus mentale scettico ma aperto: chiedere “come lo sappiamo?”, esigere fonti attendibili e verificare le affermazioni rispetto alla realtà osservabile.
Quando notizie false o teorie complottiste riguardano argomenti scientifici specifici (dalle cure miracolose infondate ai negazionismi climatici), gli scienziati intervengono spesso direttamente per confutarle. Il procedimento ricalca il metodo sperimentale: si raccolgono evidenze verificabili e si confrontano con le affermazioni fallaci, mostrando le discrepanze. Ad esempio, contro la fake news secondo cui “il cambiamento climatico è una farsa inventata”, la comunità scientifica ha risposto producendo e divulgando un’enorme mole di dati – dall’aumento delle temperature medie globali alla frequenza degli eventi estremi – che documentano in modo inconfutabile il riscaldamento del pianeta e il ruolo delle emissioni di gas serra. Questo tipo di confutazione basata su fatti tangibili è efficace con il pubblico disposto ad ascoltare argomenti razionali: articoli di debunking, rapporti tecnici semplificati per i non addetti e visualizzazioni chiare (grafici, infografiche) sono tutti frutti dell’applicazione del metodo scientifico alla comunicazione. Un esempio emblematico è la reazione alle teorie della “Terra piatta”: gli scienziati hanno pazientemente spiegato le prove geodetiche, astronomiche e fisiche che dimostrano la sfericità della Terra, invitando anche i dubbiosi a replicare semplici esperimenti (come l’osservazione della curvatura all’orizzonte o il pendolo di Foucault) per convincersi autonomamente. Questo approccio segue il principio galileiano di provare e mostrare: si confida che di fronte a evidenze riproducibili le persone razionali abbandonino le credenze errate.
Oltre alla confutazione diretta post hoc, la ricerca recente suggerisce tecniche preventive per inoculare il pubblico contro la disinformazione, ispirate proprio al metodo scientifico di analisi critica. Un filone innovativo di studi psicologici applica la metafora del vaccino: esporre le persone in anticipo a una versione indebolita di una fake news, rivelandone i trucchi retorici, per costruire una resistenza cognitiva quando incontreranno la versione “forte” nel mondo reale. Ad esempio, vengono mostrati esempi di titoli sensazionalistici e manipolativi, oppure spiegati schemi tipici di argomentazione fallace (come le false dicotomie, lo spostamento di colpa su un capro espiatorio, l’uso di linguaggio emotivamente manipolatorio), così che il pubblico impari a riconoscerli istintivamente. Questo approccio si basa su evidenze sperimentali promettenti: brevi video educativi di prebunking si sono rivelati efficaci nel migliorare la capacità delle persone di discernere contenuti affidabili da contenuti ingannevoli e nel ridurre l’intenzione di condividerli.
Tali effetti positivi sono stati osservati su ampia scala e attraverso diverse fasce di popolazione, indicando che l’inoculazione cognitiva può funzionare come strumento di “sanità informativa”. Parallelamente, altri ricercatori propongono di puntare sulla comunicazione del “nocciolo” (gist) scientifico: invece di sommergere il pubblico di dettagli tecnici (che possono creare confusione e alimentare dubbi), si dovrebbe trasmettere con chiarezza la sostanza comprovata di una questione – ad esempio spiegare in modo semplice perché un vaccino attiva il sistema immunitario – cosicché le persone possano orientarsi meglio e non cadere preda di informazioni distorte. Queste strategie, derivate da studi scientifici sulla persuasione e la cognizione, mostrano come il metodo scientifico possa riflettersi anche nel contrasto alla disinformazione, attraverso sperimentazione e valutazione rigorosa di interventi comunicativi efficaci.
Un altro aspetto cruciale è il ruolo attivo degli scienziati nella sfera pubblica. Il metodo scientifico affronta le fake news non solo con argomenti e dati, ma anche mettendo in campo la credibilità e l’autorevolezza degli esperti come argine alla disinformazione. Negli ultimi anni, molti ricercatori sono diventati divulgatori sui media tradizionali e sui social, per spiegare direttamente al pubblico temi complessi e correggere eventuali idee sbagliate. Durante la pandemia di COVID-19, ad esempio, virologi ed epidemiologi hanno fornito spiegazioni continue sull’evoluzione del virus e sull’efficacia delle misure di prevenzione, combattendo contestualmente voci infondate (come cure miracolose o teorie del complotto sull’origine del virus). Questo impegno, però, richiede competenze comunicative che non fanno parte tradizionalmente del bagaglio dello scienziato: saper tradurre il linguaggio tecnico in messaggi chiari, senza perdere accuratezza, è una sfida, in questo senso anche l’idea di Stroncature come ponte tra il mondo della ricerca e la società civile. Oggi si riconosce che formare gli scienziati anche a comunicare è fondamentale. Purtroppo, indagini indicano che molti cittadini percepiscono gli scienziati come poco efficaci nel comunicare (solo il 45% degli americani li descrive come buoni comunicatori, secondo un sondaggio del Pew Research Center). Ciò indica la necessità di migliorare ulteriormente su questo fronte. Tuttavia, quando gli scienziati riescono a farsi capire e a entrare nel dibattito pubblico con umiltà e chiarezza, possono orientare efficacemente l’opinione pubblica verso posizioni basate su evidenze, sottraendo terreno alle narrazioni infondate.
In definitiva, il metodo scientifico – con la sua insistenza sulla verifica, sulla trasparenza e sul confronto aperto – rappresenta un antidoto formidabile contro fake news e complottismi, ma la sua efficacia dipende dalla volontà di applicarlo anche al di fuori dei laboratori. Ciò significa formare menti critiche nelle scuole, promuovere la cultura del dubbio motivato e dell’evidenza verificata nella società civile, e sostenere la presenza di voci scientifiche autorevoli nei media. La scienza affronta la disinformazione non con censura o imposizione autoritaria della “verità”, bensì offrendo metodi e strumenti perché ciascuno possa valutare in autonomia la plausibilità delle affermazioni: fornendo dati accessibili, spiegazioni comprensibili e indicando come chiunque possa replicare osservazioni chiave. Questa trasparenza e apertura sono l’essenza del metodo scientifico e l’opposto del pensiero complottista, che invece si nutre di segretezza e di argomenti non verificabili. Certo, non tutti i fautori di teorie antiscientifiche saranno persuasi – fattori psicologici e identitari giocano un ruolo forte – ma creare un contesto informativo in cui le bufale trovino terreno meno fertile è possibile. In ultima analisi, il metodo scientifico insegna che la strada verso la verità è faticosa ma liberatoria: smonta le false certezze con la luce dei fatti e invita a un viaggio intellettuale fatto di curiosità e controllo. È questo spirito che, se diffuso nella società, può immunizzarci collettivamente contro la proliferazione di fake news e complotti privi di fondamento.
Fonti: J. Roozenbeek et al., Science Advances 8(30): eabo6254 (2022) ( Psychological inoculation improves resilience against misinformation on social media - PMC ); Pew Research Center – Public Trust in Scientists (2024) (Americans’ trust in scientists in 2024 | Pew Research Center).