Nel corso del suo primo mandato e con rinnovata insistenza all’inizio del secondo, l’amministrazione Trump ha più volte affermato che la grande forza degli Stati Uniti risiederebbe nei consumatori americani, e che questa centralità della domanda interna costituirebbe una leva strategica fondamentale nelle trattative commerciali internazionali. Anche il Segretario al Commercio ha ribadito, in diverse occasioni pubbliche, che il mondo è disposto a fare concessioni agli Stati Uniti pur di mantenere l’accesso al loro mercato interno. Tale visione, però, tende a rappresentare i consumi americani come una variabile indipendente, capace di sostenersi da sola. Al contrario, come mostra l’analisi dei dati economici e delle dinamiche finanziarie, i consumi privati statunitensi sono in larga misura finanziati a debito e, in quanto tali, dipendono da un sistema complesso e interconnesso di flussi di capitale internazionale. È proprio l’afflusso costante di risparmio estero verso i mercati finanziari americani a consentire l’indebitamento delle famiglie a tassi relativamente contenuti, rendendo sostenibile il modello di consumo interno. Venendo meno tale sostegno, la leva strategica americana perderebbe efficacia, e l’intero assetto macroeconomico ne risulterebbe indebolito.
L'economia statunitense è strutturalmente fondata sulla centralità dei consumi privati, che rappresentano circa il 68% del prodotto interno lordo. Tuttavia, tale propensione al consumo si accompagna a una ridotta propensione al risparmio da parte delle famiglie, il che ha determinato nel tempo la necessità di ricorrere in modo sistematico all’indebitamento. Secondo i dati della Federal Reserve Bank of New York, alla fine del 2024 il debito complessivo delle famiglie statunitensi ha raggiunto i 18,04 trilioni di dollari, segnando un massimo storico. La composizione di tale indebitamento evidenzia la preponderanza dei mutui residenziali, pari a circa 12,6 trilioni di dollari, seguiti da prestiti auto, debiti studenteschi e carte di credito. L’accesso al credito, e quindi la possibilità per le famiglie di mantenere elevati livelli di spesa, è stato facilitato dalla disponibilità di capitali e dalla relativa economicità del debito, a sua volta sostenuta da tassi d’interesse contenuti nel lungo periodo.
La sostenibilità di questo modello economico è condizionata dall’afflusso di capitali dall’estero, che consente agli Stati Uniti di finanziare il proprio disavanzo delle partite correnti e mantenere bassi i tassi d’interesse a lungo termine, senza far esplodere l’inflazione. Il deficit delle partite correnti statunitensi, che nel 2022 ha raggiunto i 943,8 miliardi di dollari pari al 3,7% del PIL, è coperto da un corrispettivo afflusso netto di capitali, in particolare attraverso l’acquisto da parte di investitori esteri di titoli del Tesoro, obbligazioni corporate, mortgage-backed securities e azioni. I dati del Treasury International Capital System mostrano che nel 2022 gli investitori stranieri hanno finanziato il disavanzo con afflussi netti per oltre 1,3 trilioni di dollari. L’abbondanza di risparmio globale, in particolare da parte di economie in surplus come Cina, Germania, Giappone e paesi produttori di petrolio, ha esercitato una pressione al ribasso sui tassi di interesse statunitensi, facilitando l’indebitamento delle famiglie e sostenendo la domanda interna.
Il legame tra flussi internazionali di capitale e consumi privati negli Stati Uniti è stato analizzato da economisti come Ben Bernanke, che ha teorizzato l’esistenza di un “global saving glut”, ovvero un eccesso di risparmio globale che cerca impieghi sicuri e remunerativi, trovandoli nei titoli denominati in dollari. Il concetto di “global saving glut” si riferisce a un eccesso di risparmio nei paesi emergenti, in particolare in Asia e tra i produttori di materie prime, che ha cercato sbocco nei mercati finanziari sviluppati, in primis negli Stati Uniti. Questo afflusso di capitali ha contribuito ad abbassare i tassi d’interesse a lungo termine, facilitando l’accesso al credito per famiglie e imprese americane. Gli investitori globali hanno ritenuto i titoli del Tesoro e i prodotti finanziari statunitensi strumenti sicuri e liquidi, preferendoli ad alternative meno trasparenti o con rendimenti meno stabili. Il risultato è stato un ambiente creditizio favorevole che ha incentivato l’indebitamento privato e, con esso, la crescita dei consumi interni. Questa dinamica ha rafforzato l’interdipendenza tra domanda interna statunitense e offerta globale di risparmio: le famiglie americane hanno potuto finanziare i propri consumi ricorrendo al credito, alimentato in ultima analisi da capitali stranieri che acquistavano titoli cartolarizzati, obbligazioni societarie o asset immobiliari.
La relazione tra afflussi di capitale e dinamiche inflazionistiche negli Stati Uniti si articola su più livelli e risente delle condizioni strutturali dei mercati globali. Nei periodi in cui i capitali esteri affluiscono in modo massiccio verso gli Stati Uniti, l’effetto principale è la compressione dei tassi d’interesse a lungo termine, che stimola l’espansione del credito domestico e sostiene i consumi delle famiglie. Tuttavia, l’aumento della domanda aggregata non si traduce necessariamente, nel breve termine, in un incremento generalizzato dei prezzi al consumo, in quanto l’integrazione dei mercati internazionali e la delocalizzazione produttiva agiscono come fattori disinflazionistici. La disponibilità di beni a basso costo provenienti dall’Asia, insieme alla forza del dollaro sostenuta dagli stessi flussi in entrata, ha contribuito, tra il 2001 e il 2006, a mantenere contenute le pressioni sui prezzi anche in un contesto di elevato consumo a debito. Ciò ha reso possibile, in quella fase, la combinazione di bassa inflazione e crescita sostenuta della domanda interna, una condizione che appariva stabile ma che in realtà mascherava l’accumulo di squilibri nei bilanci delle famiglie e nel mercato immobiliare.
Nel medio-lungo termine, la persistenza di tassi bassi alimentata dagli afflussi di capitale può generare effetti inflazionistici indiretti, in particolare tramite l’inflazione degli asset. L’eccesso di liquidità disponibile si dirige verso il settore immobiliare, azionario e dei titoli obbligazionari, gonfiando i prezzi di tali attività e generando bolle finanziarie, come dimostrato dalla crisi dei subprime del 2007-2008. Quando tali flussi si interrompono o si invertono, come avviene in fasi di incertezza globale o di tensioni sui conti pubblici statunitensi, il quadro cambia radicalmente. Il dollaro tende a indebolirsi per effetto della diminuzione della domanda estera di attività denominate in valuta statunitense, rendendo più onerose le importazioni e innescando un’inflazione da offerta. Tale fenomeno, osservato in forma contenuta tra il 2022 e il 2023, è aggravato dall’elevata elasticità dei consumi americani rispetto al credito: una stretta finanziaria legata alla carenza di capitali esteri riduce i consumi, ma l’inflazione può persistere per effetto dell’aumento dei costi di approvvigionamento estero. La coesistenza di bassa crescita e inflazione elevata – condizione tipica della stagflazione – diventa un rischio concreto in un contesto in cui il ciclo finanziario globale non sostiene più il modello di consumo americano fondato sul credito e sull’importazione netta di beni a basso costo.
L’attuale sostenibilità del debito delle famiglie statunitensi si fonda su un insieme di condizioni macroeconomiche e finanziarie che, pur mostrando segnali di stabilità nel breve termine, nascondono elementi strutturali di vulnerabilità. Il Debt Service Ratio, stabilizzatosi intorno al 9,8% alla fine del 2023, rispecchia una realtà in cui molte famiglie continuano a beneficiare di mutui a tasso fisso sottoscritti negli anni 2020-2021, quando i tassi d’interesse si attestavano su livelli eccezionalmente bassi. Questi contratti, spesso con scadenze pluridecennali, isolano temporaneamente una parte consistente dei debitori dalle dinamiche correnti dei tassi di mercato. Inoltre, la tenuta del mercato del lavoro, con tassi di disoccupazione storicamente contenuti e una crescita salariale diffusa nei settori a bassa e media qualifica, ha contribuito a mantenere stabile il reddito disponibile, attenuando l’impatto dell’aumento dei prezzi e dell’indebitamento complessivo. Tuttavia, questo scenario è fortemente condizionato dalla continuità dei flussi di capitale verso gli Stati Uniti, che, mantenendo elevata la domanda per i titoli denominati in dollari, esercitano una pressione al ribasso sui rendimenti obbligazionari, contribuendo indirettamente al contenimento del costo del credito per le famiglie.
Nel momento in cui la fiducia degli investitori internazionali nei confronti della solidità finanziaria statunitense dovesse ridursi, con conseguente rialzo dei rendimenti richiesti per detenere titoli del Tesoro e altre obbligazioni denominate in dollari, l’intero meccanismo di finanziamento dell’indebitamento privato verrebbe compromesso. Le nuove emissioni di mutui e prestiti risentirebbero immediatamente dell’aumento dei tassi, escludendo progressivamente fasce crescenti della popolazione dall’accesso al credito. I primi segnali di questo fenomeno si osservano già nei comparti del credito non garantito, dove il costo medio delle carte di credito ha superato il 20% annuale e i prestiti auto mostrano tassi superiori al 9% per i prenditori con profili di rischio medio. Questi livelli incidono significativamente sulla capacità di spesa delle famiglie, soprattutto in un contesto in cui l’inflazione ha ridotto il potere d’acquisto reale. Inoltre, con l’aumento del costo del debito, il servizio mensile delle obbligazioni finanziarie assorbe una quota crescente del reddito disponibile, riducendo la propensione al consumo e alimentando un potenziale effetto recessivo. In assenza di flussi esterni in grado di sostenere il fabbisogno di finanziamento del sistema creditizio, la compressione della domanda interna diventa inevitabile, con effetti a catena sull’occupazione, sugli investimenti delle imprese e sulla stabilità macroeconomica complessiva.
In un sistema interconnesso, il credito disponibile per i consumatori statunitensi dipende non solo dalle politiche monetarie interne, ma anche dalla posizione finanziaria internazionale del paese. Gli Stati Uniti emettono debito in dollari e lo collocano sul mercato globale, contando sulla costante domanda di asset sicuri. La disponibilità di capitale estero non si traduce soltanto in finanziamento del debito pubblico, ma si propaga anche al mercato del credito al consumo attraverso la cartolarizzazione di prestiti e mutui, che vengono acquisiti da soggetti finanziari esteri. Qualora la fiducia nella stabilità finanziaria americana o nella sostenibilità del debito venisse meno, il rallentamento degli investimenti in dollari determinerebbe un’immediata contrazione della liquidità disponibile e un rialzo dei tassi di interesse. Questo scenario renderebbe il credito più costoso, frenando la spesa delle famiglie e innescando potenzialmente una dinamica recessiva fondata su un circolo vizioso tra debito, consumo e fiducia.
In conclusione, l’analisi storica mostra che il modello americano fondato sui consumi a debito è sostenibile solo finché gli investitori globali continuano a considerare gli Stati Uniti come un approdo sicuro e stabile. La crisi del 2008 ha rappresentato una frattura in questo equilibrio, mostrando come l’interdipendenza tra indebitamento privato e flussi di capitale internazionali possa amplificare gli shock finanziari. Il successivo periodo di ripresa ha replicato, seppur con maggiori cautele, la stessa architettura: consumi interni elevati, debito crescente e copertura esterna garantita dalla domanda di asset in dollari. Il ritorno dell’amministrazione Trump alla Casa Bianca nel 2025, con la sua enfasi sulla forza del mercato interno americano come leva strategica, ripropone una narrativa che trascura i vincoli sistemici di tale modello. Senza afflussi stabili di capitale estero, l’intero equilibrio si incrina: i costi salgono, il credito si contrae e la capacità di spesa delle famiglie si riduce, con impatti diretti sull’economia domestica e su quella globale.