È sempre più evidente che Putin ragiona in termini ideologici. Il che non è una buona notizia. Se così stanno le cose, allora sarà difficile poter arrivare a un compromesso tra le parti. Se è vero che la sua è una visione manichea, da una parte il male, vale a dire il mondo occidentale, dall’altro il bene, vale a dire la Russia con la sua missione di salvare i popoli europei dalla corruzione dei costumi portati dalla modernità, è evidente che margini per il dialogo non ce ne sono.
Ora, il punto è che in questa visione manichea del mondo Putin si è dato la parte del salvatore, il cui compito è quello di restaurare l’unità del mondo russo, rotta dall’importazione di idee occidentali, una delle quali era proprio il comunismo, a cui Putin non solo attribuisce la colpa della scristianizzazione, ma anche quella (vedi le critiche a Lenin) di aver frammentato territorialmente il paese in unità amministrative che poi, con il collasso dell’Unione Sovietica, sono diventati Stati indipendenti. Ecco perché Putin non riconosce i confini come limiti entro cui si esercita la sovranità di uno Stato indipendente. Nella sua visione quelle non sono altro che divisioni amministrative che avevano senso solo all’interno dell’unità indivisibile della grande madre Russia.
Ma fin dove arrivano le terre dei russi, o meglio, fino dove Putin vuole arrivare? Come si accennava qualche giorno fa, rispondere a questa domanda non è semplice, perché la Russia che Putin ha in testa non è una unità territoriale, non ci sono terre irredente da conquistare, ma è una espressione culturale, una civiltà e le civiltà per definizione non hanno confini precisi. Hanno al massimo un limes, il margine esterno di un’area di influenza, come la Cina la cui civiltà ha influenzato mezza Asia.
Eppure, un indizio in questo senso viene da un passaggio, forse banale, della lunga intervista che Putin concesse a Oliver Stone tra luglio del 2015 e il febbraio del 2017. A un certo punto Stone, dopo che Putin racconta di essere diventato capo dell’FSB, osserva che quello deve essere stato un punto di osservazione da cui era facile vedere il caos che regnava nel paese. E lui risponde: "Sì certamente. Spesso vengo criticato perché mi rammarico per il crollo dell'Unione Sovietica. Per cominciare, la cosa più importante è che dopo la disintegrazione dell'Unione Sovietica, 25 milioni di russi, in un batter d'occhio, si sono ritrovati all'estero. In un altro paese. Questa è una delle più grandi catastrofi del 20° secolo. La gente viveva in un paese; avevano parenti, lavoro, appartamenti e avevano uguali diritti. Eppure in un attimo si ritrovarono all'estero.”
In realtà i numeri potrebbero essere addirittura superiori rispetto a quelli indicati da Putin. Sergio Romano riporta i seguenti numeri: i russi sarebbero il 5,5% dell’Uzbekistan (su una popolazione di circa 29 milioni), il 4% del Turkmenistan (5 milioni), l’1,1% del Tagikistan (8 milioni), l’1,4% dell’Azerbaigian (quasi 10 milioni), e un numero pressoché insignificante in Armenia. Ma sono il 23% del Kazakistan (18 milioni), il 17% dell’Ucraina (44 milioni), l’8,3% della Bielorussia (più di 8 milioni), il 5,8% della Moldavia (3 milioni e 600.000). Ancora più interessante è la presenza russa nelle tre Repubbliche del Baltico, ormai entrate nella Nato e nell’Unione Europea. I russi rappresentano il 5,8% della Lituania (su una popolazione di 3 milioni e mezzo), il 24,6% dell’Estonia (un milione e 257.000), il 26,2% della Lettonia (2 milioni e 165.000).
Questo che vuol dire? Vuol dire che la più grande catastrofe del ventesimo secolo per Putin non è stata, come spesso si ritiene, il collasso dell’Unione sovietica in sè, ma la rottura, la frammentazione del popolo russo, di quella unità di legami, affetti, diritti che nel giro di una notte si sono trovati divisi da confini artificiali e sotto governi stranieri. Di qui la missione di Putin, ricomporre quella unità. Il che vuol dire che la dove c’è una comunità russofona, là per Putin deve arrivare un carro armato russo.