Il periodo successivo alla fine della Guerra Fredda rappresentò per gli Stati Uniti un momento di profonda trasformazione e incertezza strategica. Con il crollo dell'Unione Sovietica nel 1991, l'America si trovò improvvisamente priva di quello che per oltre quattro decenni era stato il suo principale avversario ideologico e geopolitico. Questa nuova condizione di unica superpotenza mondiale, anziché portare solo vantaggi, generò un diffuso senso di smarrimento nell'establishment americano, che si trovò a dover ridefinire il proprio ruolo sulla scena internazionale. Il dibattito che ne seguì, documentato attraverso le principali riviste di politica estera dell'epoca e importanti monografie di studiosi come Kupchan, Kagan, Mearsheimer e Huntington, evidenziò la difficoltà di elaborare una nuova grande strategia che potesse sostituire la dottrina del containment. Gli Stati Uniti si trovarono così a dover affrontare un paradosso: proprio nel momento del loro massimo potere globale, faticavano a trovare una chiara direzione per la propria politica estera. Le incertezze strategiche non riguardarono solo l'ambito politico e intellettuale, ma pervasero anche gli ambienti militari, che dovettero ripensare completamente la propria struttura e i propri obiettivi. L'impatto di questo periodo di transizione si sarebbe rivelato fondamentale per comprendere le successive evoluzioni della politica estera americana, inclusa la risposta agli attentati dell'11 settembre 2001. L'analisi di questa fase storica offre importanti spunti di riflessione sul rapporto tra identità nazionale, presenza di un nemico definito e capacità di elaborare una visione strategica coerente.
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