A pochi studiosi è capitato di passare con tale velocità dalle stelle dell’ammirazione internazionale alle stalle della derisione globale come a Francis Fukuyama e alla sua idea di fine della storia.
La tesi di fondo, apparsa prima su The National Interest nell’estate del 1989 (quindi prima della caduta del Muro) con il punto interrogativo (“The End of History?”) e poi in un saggio del 1992, questa volta senza punto interrogativo, è molto semplice.
La storia è lotta tra modelli alternativi di vita collettiva sul modo migliore di governare l’umana famiglia. L’ultima lotta tra modelli alternativi è stata quella tra liberalismo da una parte e comunismo dall’altro.
Ora, il comunismo è collassato perché aveva promesso una più grande libertà e un superiore benessere e invece ha prodotto fame e tirannide. E questo non perché era una buona idea che è stata realizzata male, ma semplicemente (come ha insistito Luciano Pellicani per mezzo secolo) perché era una pessima idea che è stata realizzata peggio.
Collassata, dunque, l’idea di vita collettiva del comunismo non resta che il liberalismo come il modello che ha sinora mantenuto con maggiore puntualità le sue promesse di libertà e benessere, per il numero più ampio di persone.
Dalla pubblicazione di “The End of History?” sono passati più di trent’anni e modelli alternativi all’orizzonte non se ne vedono, che abbiano cioè gli stessi caratteri di università e astrattezza del comunismo, che era un messaggio di liberazione per ogni essere umano. Infatti, il nazionalismo dei cinesi o dei russi non è una promessa di salvezza universale e lo Stato islamico non vuole convertire il mondo.
In cosa consiste il modello liberale? Semplice, è la libertà che produce il progresso e la ricchezza. Per dirla diversamente, la causa della ricchezza delle nazioni è da individuarsi in quella inspiegabile e inesauribile tensione degli esseri umani verso l’esplorazione dell’infinito “universo dei possibili”, nella loro creatività e fantasia e continua irrequietezza. È l’idea che la ricchezza e il progresso zampillano naturalmente quando gli esseri umani, tutti gli esseri umani, di ogni tempo e sotto ogni cielo, quando hanno la possibilità di essere liberi.
Il che avrebbe dovuto far quantomeno mettere in guardia i i cantori del secolo cinese. Infatti, nell’esperimento che Pechino stava tentando, vale a dire quello di produrre ricchezza attraverso l’autoritarismo e la soppressione delle libertà, qualcosa che non andava c’era. Eppure per anni si è pensato che Pechino stesse esplorando con successo territori nuovi, mettendo a punto un nuovo modello e dimostrando che il duopolio democrazia (liberale) e capitalismo (privato), poteva essere sostituito con un modello più efficace, dove si perdeva meno tempo a chiacchierare. C’è di più, si sosteneva anche che le libertà liberali care all’Occidente, in realtà non importavano niente all’Oriente. Per i cittadini asiatici bastavano i diritti asiatici di stampo collettivista: meglio la pancia piena che la libertà di parola.
Ieri i fatti di Piazza Tienanmen, dove i giovani eressero una Statua della Libertà in carta pesta e diffusero dagli altoparlanti la Marsigliese in cinese, oggi quelli di Hong Kong, dove si sventolano le bandiere americane ed inglesi, dimostrano quanto fossero false quelle idee, che al fondo aveva un disgustoso sapore di razzismo.
Quanto sta accadendo nell’ex colonia britannica dimostra che non vi è alcuna possibilità che le libertà, che quella scheggia di Occidente conficcata nel corpaccione della Cina difende, possano in qualche modo conciliarsi con la tradizione del dispotismo asiatico che Pechino vuole rafforzare. Il che vuol dire che non vi è alcuna possibilità di conciliare società aperte e società chiusa, o addirittura, come Pechino ha tentato di fare, di far convivere pezzi di società aperta all’interno di una società chiusa.
E dimostrano anche un’altra cosa, che quello cinese non è affatto un modello è anzi un accrocco instabile e precario che non può durare. Un ircocervo che non può esistere. O l’autoritarismo del potere politico prosciugherà qualsiasi margine di libertà o ne verrà travolto. E se la libertà è la causa della ricchezza delle nazioni, allora vuol dire che maggiore è la forza dell’autoritarismo del Partito e minore è la vitalità della società e dell’economia cinese.
In sintesi, il permanere al potere del Partito comunista cinese sarà la causa principale del collasso cinese; e nessuno dei problemi che oggi la Cina ha davanti è risolvibile stante il monopolio politico del Partito. Delle due l’una, dunque, o la Cina si libera del Partito o questo la asfissierà, facendo sfumare qualsiasi sogno di sviluppo economico e progresso sociale.
Nunziante Mastrolia