In politica internazionale, come in tutte le scienze sociali, la differenza tra un’ipotesi analitica e una profezia ideologica non è una sfumatura retorica: è il fondamento della distinzione tra pensiero scientifico e narrazione fideistica. Eppure, il dibattito contemporaneo è ancora saturo di formule vaghe, affermazioni non falsificabili e previsioni prive di ogni criterio empirico. Frasi come “il futuro appartiene all’Asia”, “l’America è destinata al declino” o “l’Europa non esiste” non dicono nulla di analitico: sono enunciati apodittici, retoricamente potenti ma concettualmente vuoti. Non costituiscono proposizioni teoriche, ma enunciati dogmatici, resi seducenti dalla vaghezza e inattaccabili proprio perché non misurabili. Sono affermazioni che non ammettono smentita, dunque non producono conoscenza.
Se vogliamo che la riflessione sulla politica internazionale (ma il discorso potrebbe valere per tutte le scienze sociali) si emancipi dal racconto suggestivo per avvicinarsi a un’effettiva forma di conoscenza, è necessario costruire teorie che siano sottoponibili a verifica. Questo vuol dire una cosa semplice e insieme complicata: formulare ipotesi che generino previsioni osservabili entro un arco temporale ragionevole. Una teoria che non prevede nulla, o che prevede qualsiasi cosa, non è una teoria: è una narrazione.
Costruire teorie scientificamente solide significa formulare ipotesi che producano previsioni verificabili entro un orizzonte temporale definito, utilizzando indicatori concreti e criteri di valutazione chiari. Ad esempio, si può ipotizzare che la liberalizzazione del settore dei servizi in un paese in via di sviluppo – come Kenya o Bangladesh – conduca, nel medio periodo, a una riduzione dei costi per le imprese e a un aumento dell’efficienza complessiva del sistema economico. Questa ipotesi è testabile: si possono osservare l’andamento dei prezzi nei settori della logistici o finanziari, il tempo medio di accesso a servizi bancari o digitali, la produttività delle imprese che operano in quei settori e la quota di export di servizi. Se i dati mostrano un miglioramento coerente con le previsioni, l’ipotesi acquista forza; se non lo fanno, va corretta o scartata. In ogni caso, è la verificabilità empirica – non la coerenza interna o la forza retorica – che distingue una teoria da un’opinione. Il risultato complessivo è un avanzamento sociale ed economico che si fa per tentativi ed errori, testando delle ipotesi, mantenendo quelle che funzionano e scartando quelle che non funzionano. Così si possono produrre effetti positivi.
Al contrario, frasi come “il XXI secolo sarà il secolo cinese” o “l’Africa è il futuro del mondo” non hanno alcun valore analitico. Non sono verificabili, non indicano su quali presupposti si fondano, non chiariscono in che ambito si esprimono – economico, militare, tecnologico, demografico, culturale – e soprattutto non forniscono alcun orizzonte temporale né alcun criterio concreto per stabilire se siano vere o false. Sono affermazioni che, sotto l’apparenza di profondità, non spiegano nulla e non aiutano a comprendere alcun fenomeno reale. Servono a una cosa soltanto: marchiare chi le pronuncia come poco serio.
Chi fa uso di questo tipo di retorica non è interessato all’analisi, ma alla suggestione. Non propone strumenti per capire, ma formule vuote per colpire l’immaginazione. È il linguaggio dello sciamano, dell’imbonitore, dell’arruffapopolo. Chi parla così non cerca la verità, cerca applausi. Non lavora per costruire conoscenza, ma per raccogliere consenso. Sono frasi che rassicurano, perché fanno pensare all’esistenza di un destino già scritto, oppure spaventano, perché evocano declini irreversibili, ma in entrambi i casi si pongono fuori da ogni forma di razionalità analitica.
Fare analisi, invece, significa formulare ipotesi circostanziate, definire chiaramente i meccanismi causali che si intende descrivere, indicare quali variabili osservare e in quale orizzonte temporale, esplicitare le condizioni di validità e quelle che porterebbero a rigettare l’ipotesi. Come si diceva pri,na, un’affermazione come “se un paese in via di sviluppo liberalizza il settore energetico, i costi per le imprese dovrebbero diminuire entro tre anni” è analisi: si possono raccogliere dati, osservare gli effetti, valutare la tenuta dell’ipotesi. Al contrario, dire che il mercato ha sempre ragione o che i vizi privati si trasformano sempre in pubbliche virtù è un atto di fede.
La differenza, in fondo, è semplice: o si parla per capire il mondo, oppure si parla per conquistare le menti di chi ascolta. Nel primo caso si ricerca la conoscenza e di agire con umiltà e concretezza per il benessere collettivo, nel secondo caso si cercano proseliti, che si abbandonano ciecamente a chi afferma di sapere in che direzione va il futuro.