Nel mondo contemporaneo, in cui le ricadute della scienza permeano ogni aspetto della società, la comunicazione scientifica verso il pubblico ha assunto un’importanza cruciale. Non basta più “fare scienza” nei laboratori e pubblicarne i risultati su riviste specialistiche: agli scienziati è richiesto un impegno crescente nel tradurre e trasmettere le conoscenze acquisite a un pubblico più ampio, non esperto ma influente in quanto elettore, decisore politico, consumatore e cittadino. Temi come i cambiamenti climatici, le pandemie, la bioetica o l’intelligenza artificiale generano dibattiti pubblici intensi, in cui è fondamentale che la voce della comunità scientifica sia presente, chiara e comprensibile, per evitare che quei temi vengano presi in ostaggio da dilettanti improvvisati o prezzolati. Per questo, la divulgazione non è più vista come un’attività ancillare, bensì come parte integrante della missione scientifica: produrre conoscenza e assicurarsi che essa sia accessibile e utilizzabile dalla società. Questo cambiamento di paradigma ha posto gli scienziati di fronte a nuove responsabilità e sfide, ridefinendo in parte il loro ruolo professionale.
Tradizionalmente, la comunicazione della scienza al grande pubblico è stata affidata a divulgatori specializzati, giornalisti scientifici o a figure di scienziati con particolare talento narrativo. Oggi, tuttavia, si assiste a un coinvolgimento diretto più ampio degli stessi ricercatori nel dialogo con la società. Organizzazioni come l’AAAS parlano esplicitamente di public engagement with science, definendolo come un’interazione intenzionale e bidirezionale tra scienziati e diversi segmenti di pubblico, finalizzata a uno scambio mutuamente arricchente. Ciò implica che gli scienziati non si limitino a informare il pubblico (modello unidirezionale della divulgazione tradizionale), ma si impegnino anche ad ascoltarlo: comprenderne le curiosità, le preoccupazioni, le percezioni errate, per poi adattare la comunicazione di conseguenza. Questo approccio partecipativo riconosce che la costruzione della fiducia è un dialogo: il pubblico non deve percepire lo scienziato come un’élite distante che “impartisce lezioni dall’alto”, ma come una risorsa competente che però rimane parte della comunità, ne condivide i valori e ne rispetta i dubbi. L’abbattimento di questo muro relazionale è essenziale per evitare il rifiuto aprioristico di messaggi scientifici scomodi (si veda il caso dei movimenti no-vax, spesso alimentati anche da una crisi di fiducia verso le istituzioni scientifiche percepite come autoritarie o colluse).
Gli scienziati, dal canto loro, devono sviluppare capacità comunicative che non sempre fanno parte del curriculum di formazione classico. Saper presentare il proprio lavoro in modo accurato ma accessibile richiede di padroneggiare tecniche di semplificazione, analogia e storytelling, senza incorrere in eccessive banalizzazioni o, all’opposto, in gergo incomprensibile. Un errore comune è sovraccaricare il pubblico di dettagli e margini d’errore, nel lodevole tentativo di non semplificare troppo: ciò rischia però di confondere l’audience, che può perdere di vista il quadro generale. D’altro canto, comunicare solo i risultati finali senza trasmettere il metodo può far sembrare la scienza come un corpo di verità statiche calate dall’alto, anziché come un processo dinamico.
Il bilanciamento è delicato: divulgare efficacemente significa anche educare a come funziona la scienza. Un sondaggio condotto negli Stati Uniti ha mostrato che, sebbene la maggioranza del pubblico nutra fiducia negli scienziati (76% degli americani esprime almeno una discreta fiducia che agiscano nell’interesse pubblico), molti li giudicano carenti proprio sul fronte comunicativo (solo il 45% li ritiene buoni comunicatori). Questo suggerisce che gli scienziati godono ancora di uno status di autorevolezza, ma devono fare uno sforzo per colmare il gap di linguaggio e di empatia con il pubblico.
Un tema dibattuto è quanto gli scienziati debbano spingersi nel commentare implicazioni sociali e politiche delle loro ricerche. C’è chi sostiene che debbano “tenersi fuori” dal dibattito politico, limitandosi a fornire dati oggettivi, e chi invece ritiene sia doveroso che prendano posizioni attive su questioni di policy informate dalla scienza (dalle misure anti cambiamento climatico alla regolamentazione di tecnologie come l’editing genetico). Un’indagine del Pew Research Center rileva che l’opinione pubblica è quasi equamente divisa: il 51% pensa che gli scienziati debbano avere un ruolo attivo nei dibattiti di policy su temi scientifici, mentre il 48% preferirebbe che restassero concentrati sui fatti e non entrassero nell’arena politica. Questo equilibrio è difficile: uno scienziato che esprima pareri su politiche pubbliche (ad es. sostenere fortemente la riduzione delle emissioni di CO₂) rischia di essere percepito come “di parte” da alcuni, erodendo la sua aura di neutralità; d’altra parte, tacere del tutto potrebbe significare lasciare il campo a voci meno competenti. Probabilmente la soluzione è nel mezzo: presentare chiaramente l’evidenza scientifica e, se si entra in raccomandazioni politiche, esplicitare quando si sta passando dal “ciò che è” (descrizione scientifica) al “ciò che si dovrebbe fare” (valutazione che include valori e priorità). Un esempio positivo è quello del Premio Nobel Mario Molina, che dopo aver scoperto il buco nell’ozono spese molti anni in un’intensa attività di advocacy scientifica, spiegando a politici e pubblico la necessità di eliminare i CFC; mantenne però il discorso sempre sui dati e sulle possibili soluzioni tecniche, guadagnandosi ascolto bipartisan e contribuendo all’adozione del Protocollo di Montréal.
La comunicazione della scienza oggi passa attraverso canali diversificati: non solo conferenze pubbliche e libri divulgativi, ma anche piattaforme online, social media, video didattici su YouTube, podcast. In questo senso, l’attività di Stroncature in ambito Terza Missione nelle produzione di contenuti (video e podcast) che traducono in formati più agile i contenuti scientifici. Questo offre l’opportunità di raggiungere audience nuove (giovani, comunità lontane dai centri accademici) ma richiede adattare lo stile e il formato del messaggio a ciascun mezzo. Ad esempio, su Twitter (ora X) alcuni ricercatori commentano in tempo reale notizie scientifiche o smontano bufale virali con thread sintetici e link a fonti, contribuendo a orientare la conversazione pubblica. Su YouTube e TikTok sono emersi “science influencer” (talora scienziati essi stessi, altre volte divulgatori) che spiegano concetti in maniera visiva e accattivante. Questo pluralismo è positivo, ma comporta anche rischi: la brevità dei messaggi social può facilitare semplificazioni eccessive o fraintendimenti; inoltre, la presenza online espone gli scienziati a possibili attacchi personali o campagne di discredito (si pensi agli insulti subiti da virologi in TV durante la pandemia). È quindi essenziale offrire supporto istituzionale e formazione a chi intraprende questi percorsi o una piattaforma specifica (come Stroncature) che offre comunque un ambiente dove i contenuti e la loro propagazione non sono controllati da algoritmi pensati per aumentare engagement, visualizzazioni pubblicitarie e quindi polarizzazione.
Molte università ora organizzano workshop di comunicazione scientifica per dottorandi e ricercatori, e alcune agenzie finanziatrici valutano nei progetti anche i piani di outreach verso la società. Sta lentamente cambiando la mentalità accademica: l’impegno divulgativo, un tempo visto quasi con sospetto (come tempo sottratto alla “vera” ricerca), inizia ad essere riconosciuto come un valore aggiunto. Ad esempio, istituti come il CERN o l’ESA investono molto in centri visitatori, siti web multilingue e programmi per le scuole, integrando la comunicazione nella loro missione.
In conclusione, il ruolo degli scienziati nella divulgazione pubblica è diventato centrale per il corretto funzionamento del circuito scienza-società. Una cittadinanza scientificamente informata è in grado di prendere decisioni collettive più consapevoli e di beneficiare appieno dei progressi tecno-scientifici, senza paure irrazionali né aspettative miracolistiche. D’altro canto, gli scienziati traggono vantaggio da un rapporto positivo col pubblico: oltre a ricevere finanziamenti e sostegno, ottengono nuovi spunti di riflessione dalle domande non convenzionali dei non esperti e sono stimolati a vedere il proprio lavoro in una prospettiva più ampia. Come ha affermato un celebre divulgatore, “la scienza non condivisa è scienza a metà”. Se l’obiettivo ultimo della ricerca è migliorare la condizione umana, comunicare efficacemente scoperte e conoscenze è parte di quello stesso obiettivo. Non tutti gli scienziati diventeranno abili comunicatori pubblici – ed è giusto che ci siano ruoli e vocazioni diversi – ma l’intera comunità scientifica ha interesse a valorizzare chi svolge questo ponte con il pubblico. In una società democratica, la scienza prospera solo se i cittadini la percepiscono come comprensibile, utile e non ostile: questo legame di fiducia si costruisce giorno per giorno anche grazie all’impegno di ricercatori che sanno parlare al cuore e alla ragione delle persone comuni.
Fonti
American Association for the Advancement of Science – Why Public Engagement Matters (Why Public Engagement Matters | American Association for ... - AAAS); Pew Research Center – Public Trust in Scientists (2024) (Americans’ trust in scientists in 2024 | Pew Research Center); T. R. Fasce & S. Castillo, Public Underst. Sci. 30(7), 768 (2021).
Atgomento complesso: la scienza si basa sulla ricerca e spesso i risultati della ricerca non sono certi; divulgare risultati come certi e sicuri crea spesso aspettative sbagliate nei non addetti ai lavori. Di conseguenza, difficoltà nell'accettare smentite provenienti da altre pubblicazioni sullo stesso argomento, smentite invece frequenti e vitali tra gli addetti ai lavori e ricercatori della veritò, per comprendere meglio il tutto.