Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi metallici indispensabili in molti ambiti tecnologici strategici: catalizzatori industriali, magneti per motori elettrici, componenti per smartphone, turbine eoliche, batterie, fibre ottiche e sistemi d’arma avanzati. Nonostante il nome, questi elementi (come neodimio, lantanio, europio) non sono di per sé rarissimi in natura, ma risultano difficili da estrarre e raffinare in forma pura a causa di processi produttivi costosi e inquinanti. Negli ultimi decenni la Cina ha conquistato una posizione dominante nella produzione mondiale di terre rare, grazie a manodopera a basso costo, normative ambientali meno stringenti e forti investimenti statali. Attualmente la Cina estrae circa il 70% delle terre rare globali e ne raffina una quota ancora maggiore, assicurandosi un quasi-monopolio sull’offerta di questi materiali critici. Questa supremazia significa che industrie high-tech di tutto il mondo – dall’elettronica di consumo all’auto elettrica, fino all’aerospazio e alla difesa – dipendono in larga misura da forniture cinesi di terre rare. Tale realtà ha evidenti implicazioni geopolitiche: il controllo sulle terre rare conferisce a Pechino un potere di leva diplomatica considerevole, dal momento che poche nazioni alternative possono soddisfare la domanda in tempi brevi qualora la Cina decidesse di ridurre o condizionare le proprie esportazioni.
La “diplomazia delle terre rare” descrive proprio l’uso di questa posizione dominante come strumento di pressione o influenza nelle relazioni internazionali. Un caso spesso citato risale al 2010, quando la Cina limitò drasticamente le esportazioni di terre rare verso il Giappone durante una disputa diplomatica. In settembre di quell’anno, a seguito di un incidente navale nelle acque contese attorno alle isole Senkaku/Diaoyu, le autorità cinesi bloccarono per circa due mesi le spedizioni di terre rare dirette in Giappone. Il Giappone, fortemente dipendente da tali import per la sua industria elettronica, subì qualche contraccolpo ma soprattutto colse il messaggio strategico: Pechino era disposta a usare il suo monopolio come arma di pressione. L’episodio spinse Tokyo a correre ai ripari investendo in progetti alternativi (ad esempio finanziando la società australiana Lynas per sviluppare una fonte extra-Cina di terre rare). Fu una prima dimostrazione concreta dell’impatto geopolitico delle terre rare. Negli anni successivi, la Cina mantenne una stretta sul mercato con quote esportative e licenze, giustificate ufficialmente da ragioni ambientali e di conservazione. In realtà questa gestione le consentiva di condizionare i prezzi globali e incentivare le industrie manifatturiere straniere a spostarsi in Cina, dove l’accesso alle terre rare era garantito localmente.
La leva delle terre rare è tornata alla ribalta con l’inasprirsi della competizione sino-americana. Nel 2019, in piena guerra commerciale con gli Stati Uniti, il presidente Xi Jinping visitò platealmente un impianto per l’estrazione di terre rare in Cina, un gesto interpretato come avvertimento implicito a Washington. Poco dopo, sui media di Stato cinesi comparvero minacce neanche troppo velate di bloccare l’export di questi minerali critici verso gli USA come “arma di controffensiva” nel conflitto tariffario. Sebbene all’epoca non si sia arrivati a un embargo totale, il segnale è stato recepito: gli Stati Uniti hanno compreso di avere un tallone d’Achille nella catena di fornitura di materiali strategici. Ogni moderno jet da combattimento, ad esempio, contiene diversi chilogrammi di terre rare in componenti vitali (leghe magnetiche nei motori, sensori, sistemi di guida). Per questo il Pentagono e il Congresso USA da anni sollecitano iniziative per ridurre la dipendenza da fornitori cinesi. Recentemente, con l’escalation delle restrizioni americane alla tecnologia cinese (come i limiti sui microchip avanzati), la Cina ha ampliato la sua risposta includendo altri minerali critici nella diplomazia economica. Nel 2024, in rappresaglia all’inasprimento dei controlli USA sul settore hi-tech cinese, Pechino ha annunciato il bando delle esportazioni di alcuni metalli essenziali verso gli Stati Uniti, tra cui gallio e germanio utilizzati nella produzione di semiconduttori e fibre ottiche. Pur non essendo terre rare in senso stretto, questi elementi rientrano nella più ampia categoria dei minerali critici e la loro aggiunta al braccio di ferro segna un ulteriore passo nella strumentalizzazione delle risorse minerarie a fini diplomatici. La mossa cinese, limitata per ora al mercato statunitense, ha comunque lanciato un monito globale: se spinta alle strette, la Cina potrebbe estendere le restrizioni anche alle terre rare stesse o ad altri input fondamentali, con effetti dirompenti su industrie di tutto il mondo.
La diplomazia delle terre rare non è a senso unico: ha provocato reazioni e contromisure da parte delle altre potenze industriali. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno riavviato l’operatività dell’unica miniera domestica di terre rare a Mountain Pass in California e stanno investendo in impianti per la separazione e raffinazione sul proprio territorio. In parallelo, Washington ha stretto accordi con alleati per sviluppare catene di approvvigionamento alternative: la collaborazione con l’Australia (grande produttore di materie prime) e progetti in Canada e altri paesi mirano ad aumentare l’offerta non cinese di terre rare. Anche l’Europa si è mossa: la Commissione UE ha inserito le terre rare nella lista dei materiali critici e sta finanziando iniziative per l’estrazione (ad esempio in Scandinavia) e il riciclo. Il Giappone dopo il 2010 ha diversificato con successo le proprie fonti: grazie all’investimento in Lynas in Australia, oggi circa un terzo del fabbisogno giapponese di terre rare viene coperto da quest’ultima, riducendo la dipendenza da Pechino. Tuttavia, creare una filiera alternativa richiede anni e costi elevati, mentre la domanda di questi materiali continua a crescere con la transizione digitale e verde (si pensi ai magneti per veicoli elettrici o generatori eolici). Nel frattempo, la Cina mantiene il vantaggio competitivo: la sua capacità di estrazione e raffinazione è difficilmente eguagliabile a breve termine, e la sua quota di mercato le consente in parte di controllare i prezzi globali, scoraggiando nuovi entranti. Ad esempio, in passato Pechino ha incrementato la produzione causando ribassi tali da rendere antieconomici i progetti minerari concorrenti altrove. Questo comportamento oligopolistico fa parte degli strumenti di diplomazia economica: mantenere la dipendenza altrui scoraggiando la diversificazione.