di Roberto Cajati
Il Mar Cinese Meridionale, denominato dai vietnamiti Mare Orientale per rimarcarne il suo carattere non cinese, di fatto comprende le Paracel Islands a Sud dell’isola cinese di Hainan, rivendicate da Cina, Vietnam e Taiwan (in quanto erede del Kuomingtang), e le isole Spratly, più a Sud, lungo le coste orientali del Vietnam, nord occidentali della Malesia ed occidentali delle Filippine, dove si sovrappongono analoghe rivendicazioni, oltre che cinesi e vietnamite. anche malesi, filippine, del Brunei e solo parzialmente dell’Indonesia (Natuna Islands).
Il mare è di importanza strategica in quanto costituisce la porta delle rotte verso lo stretto della Malacca da cui passa gran parte del commercio marittimo proveniente dall’Asia orientale. Esso costituisce altresì un bacino di risorse alimentari per i paesi costieri in termini di prodotti ittici e di potenziali, ma ancora di difficile valutazione quantitativa, risorse minerarie soprattutto idrocarburi.
I cinesi ne rivendicano la completa sovranità (Nine Dash Line), sulla base di alquanto vaghe motivazioni storiche, violando di fatto, le Zone Economiche Esclusive dei paesi costieri dell’ASEAN e le regole stabilite dall'UNCLOS, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, che tra l'altro oggi sono considerate diritto consuetudinario, nel senso che sono accettate anche da quegli Stati che non hanno ratificato la Convenzione, come gli Stati Uniti.
Nel corso degli ultimi 50 anni la Cina ha consolidato le rivendicazioni con azioni talvolta muscolari a partire dalla conquista dell’ultimo avamposto vietnamita nelle Paracel Islands, con la presa di controllo totale dell’arcipelago manu militari nel 1974 a danno delle Repubblica del Sud Vietnam, poco prima della riunificazione del paese. Successivamente sono proseguite azioni di occupazione di numerose scogliere e atolli soprattutto nelle Spratly Islands, trasformandole in piccole isole con la creazione di strutture artificiali che spesso ospitano avamposti militari, piste di atterraggio e stazioni radar (creando dal 2013, 3.200 acri di isole artificiali secondo il CSIS di Washington che monitora le attività in quell’area).
Nel 2012 l’occupazione cinese dell’atollo di Scarbourough Shoal, appartenente alle Filippine e distante circa 119 miglia marittime dalla costiera della più grande isola di questo paese, ha indotto Manila a ricorrere all’arbitrato della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. La sentenza del 2016, oltre a riconoscere i diritti dei pescatori filippini, ha dichiarato le rivendicazioni della Cina e la Nine-Dash Line nel Mar Cinese Meridionale, totalmente illegali e contrarie alla legge internazionale. La sentenza è stata rigettata dalla Cina che non riconosce la giurisdizione della Corte sulla questione, ma è diventata un punto fermo per i paesi costieri dell’ASEAN, che continuano a richiamarsi alla Convenzione del 1982 e alla sentenza del 2016. In questo contesto negativo, la Cina sembra aver adottato con tenacia una strategia di lungo periodo con elevati livelli di insidiosità e ed ambiguità, per raggiungere i suoi obiettivo.
L’idea è quella di sovvertire o modificare nella regione le regole del diritto internazionale marittimo così come stabilite dall’UNCLOS, attraverso le c.d. gray zone operations per raggiungere l'obiettivo, senza impegnarsi o rischiare un aperto conflitto militare, soprattutto finche’ la presenza navale americana attraverso le Freedom of Navigation Operations (FONOPs) restano in campo. Vale la pena notare che gli Stati Uniti non vogliono prendere posizione sulle singole rivendicazioni dei paesi costieri, ma soltanto assicurare il rispetto del principio della libera navigazione e del diritto del mare UNCLOS.
Le operazioni della zona grigia sono svolte principalmente dalla Guardia Costiera e e dalla milizia marittima (le cosiddette forze subconvenzionali). Al contrario, la Marina cinese opera solo come unità di supporto ed è impegnata principalmente per contrastare le operazioni FONOPs.
Le principali azioni condotte da queste forze cinesi sono tutte tese a limitare i legittimi diritti degli altri Stati costieri del Mar Cinese Meridionale come Vietnam, Filippine, Malesia, Brunei e parzialmente Indonesia. Queste azioni consistono principalmente nel vessare pescherecci, effettuare operazioni economiche nelle Zone Economiche Esclusive degli altri Stati costieri, come l'esplorazione per individuare nuove risorse o la costruzione di piattaforme petrolifere e allo stesso tempo impedire agli altri Stati costieri del Sud-Est asiatico di effettuare operazioni economiche nelle proprie Zone Economiche Esclusive .
Le aree in cui la Cina sta cercando di cambiare queste regole dell'UNCLOS, attraverso pratiche e azioni ripetute, sono essenzialmente le eseguenti.
1. Geografia - ad esempio - il modo di calcolare le Zone Economiche Esclusive prendendo come riferimento (base lines) anche le coste di piccole isole dove non vivono comunità autosufficienti, o tracciando linee immaginarie tra atolli e scogliere, incluse quelle che sono completamente sommerse nelle fasi di alta marea e NON, come prevede l'attuale diritto internazionale, dalla costa della terraferma.
2. Regole sulle risorse - rivendicare il controllo esclusivo o preferenziale sulle risorse situate nelle Zone Economiche Esclusive dei vicini. Oltre alle continue azioni di intercettazione di pescherecci dei paesi costieri vale la pena citare due casi in tema di incidenti relativi allo sfruttamento delle risorse per fornire un esempio concreto delle implicazioni sul terreno. Nel 2014 a 130 miglia dalla costa vietnamita e 190 dalla costa dell’isola di Hainan, nelle Parcel Islands, l’impresa petrolifera statale cinese, la China National Offshore Oil Corporation, installò una piattaforma petrolifera scatenando un confronto tra unità della guardia costiera vietnamita e cinese. Le attività di prospezioni cinesi furono tuttavia interrotte un mese prima del previsto, forse anche in ragione dei gravi e cruenti incidenti anti-cinesi in Vietnam. Esito diverso, a favore della Cina, ebbero le reiterate pressioni nel 2018 sulla Repsol, che operava all’interno della Zona Economica Esclusiva vietnamita insieme a Petrovietnam, con l’interruzione delle sue operazioni di prospezione con una grave perdita finanziaria da parte del governo di Hanoi per risarcire la società spagnola.
3. Regole di navigazione, come ad esempio contestare e limitare il passaggio inoffensivo di navi militari nelle Zone Economiche Esclusive. Su questo punto rientra l’obiettivo di convincere i paesi ASEAN a limitare l’accesso nel Mar Cinese Meridionale alle unità navali non appartenenti alla regione, vale a dire agli Stati Uniti.
4. Risoluzioni delle controversie: la Cina rifiuta decisioni giudiziarie di terzi, come il lodo della Corte internazionale di giustizia dell'Aia emesso nel 2016, e privilegia il dialogo e la consultazione preferibilmente su base bilaterale o anche multilaterale (ASEAN) purché tale dialogo escluda potenze estranee alla regione. L’elusività dei negoziati ASEAN Cina sul Codice di Condotta nel Mar Cinese Meridionale ormai decennali, è peraltro anche l’effetto della difficoltà dell’ ASEAN di prendere qualsivoglia decisione con le sue regole del Consensus, oltretutto in presenza di paesi membri su posizioni molto diverse come, Laos, Cambogia o Myanmar decisamente filo cinesi.
A questo si aggiunge una mancanza di fiducia soprattutto dei paesi costieri circa le reali intenzioni cinesi, aldilà delle dichiarazioni concilianti sul piano diplomatico che non corrispondono alle azioni reiterate sul mare. La mancanza di progressi sulla questione ha portato l’Indonesia lo scorso luglio al vertice ASEAN di Giacarta, a rilanciare l’iniziativa con il consenso della Cina, che vuole mantenere vivo il dialogo, anche per evitare che l’ASEAN perda centralità a favore di iniziative minilaterali come ad esempio un raggruppamento ristretto di alcuni Stati membri con interessi comuni, come appunto i paesi costieri del Mar cinese meridionale o ancor peggio che si possano creare degli assi di cooperazione tra paesi membri dell’ ASEAN con AUKUS o il Quad. La citata proposta del luglio 2023 per raggiungere ad un accordo su il Codice di Condotta entro tre anni con un patto di non aggressione nel Mar Cinese Meridionale, appare estremamente insidiosa. Benché la Cina abbia accettato di far rientrare i negoziati nell’ambito del quadro giuridico UNCLOS, che viola quotidianamente negli spazi marittimi pur non contestandolo formalmente le regole, voci accreditate sembrano indicate la volontà di Pechino di creare una serie di accordi per lo sfruttamento comune delle risorse che manifesterebbero di fatto una acquiescenza alle sue rivendicazioni o addirittura a costruire un consenso dei paesi ASEAN per limitare l’accesso nel Mar Cinese Meridionale a unità della US Navy.
Ma tornando alla obiettivi cinesi, Pechino è in grado di cambiare le regole attraverso reiterati comportamenti sul terreno basandosi sul principio di effettività? Osservando l'evoluzione del diritto internazionale nella storia, anche una superpotenza non può farlo, a meno che non ci sia acquiescenza o assenso tacito o consenso per silenzio senza obiezioni, da parte degli altri soggetti della comunità internazionale o della regione.
Nel caso delle rivendicazioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale, questo consenso, al momento, non sembra verificarsi. In forma diversa, Vietnam, Filippine, Malesia, Brunei e Indonesia stanno contestando le affermazioni della Cina sulla base dell’UNCLOS e della sentenza del 2016.
Le Filippine, con la nuova amministrazione Marcos, hanno poi assunto un approccio piuttosto deciso nel contrastare la Cina, rafforzando la cooperazione militare e politica con gli Stati Uniti. Il Vietnam da parte sua ribatte puntigliosamente a tutte le violazioni cinesi con comunicati ufficiali e con la presenza nell’area. Puntigliosità che in Vietnam si manifesta anche con la censura di serie televisive e film occidentali quando viene improvvidamente rappresentata una carta geografica con la Nine Dash Line cinese (vedi caso Barbie che ha avuto l’onore delle cronache) .
Due parole sulla presenza americana nell'area. Questa è generalmente percepita positivamente dalla maggior parte dei paesi del Sud-Est Asiatico, per controbilanciare la potenza cinese. C'è però anche il timore, in regione dei numerosi incidenti tra unità navali USA e cinesi, che qualche azione troppo muscolare possa scatenare qualche episodio armato anche non voluto. Nessun paese del Sud-Est Asiatico vuole trovarsi nella posizione di schierarsi tra Stati Uniti e Cina (ad eccezione delle Filippine). Al contrario, quasi tutti i governi sono desiderosi di mantenere, nonostante le dispute nel Mar Cinese Meridionale, buoni rapporti con Pechino per diversi motivi.
Per saggiare il mood nei paesi ASEAN, al di là delle posizioni ufficiali governative, è interessante esaminare alcuni risultati nel rapporto The State of Southeast Asia 2023 Survey, condotto dall’ASEAN Studies Centre all’ ISEAS (Yusof Ishak Institute di Singapore), sulla base di una rilevazione sugli attori previlegiati sia pubblici che privati. Emerge un quadro in cui la Cina è percepita come il più influente paese della regione (59,9% per l’economia e 41,5% come potenza politico strategica) . Nel malaugurato caso di doversi schierare, la società civile sembra esprimersi in favore degli Stati Uniti (61,1% contro il 38,9 % per la Cina). Interessante notare che i due partner preferiti sarebbero invece l’Unione Europea e il Giappone. Nel complesso una situazione molto mobile, con ampie opportunità per le democrazie, una partita che però va giocata con prudenza e abilità diplomatica.