di G. Perazzoli, E. Truzzolillo
Una recente intervista del fisico Carlo Rovelli rilasciata a “l’Antidiplomatico" ha suscitato la nostra sorpresa per le sue dichiarazioni a favore del modello politico del partito unico cinese. In un primo momento, abbiamo pensato a un vecchio testo riesumato dagli anni ’60. Poi abbiamo pensato a un tentativo dello scienziato di accreditarsi presso la galassia dei terrapiattisti, dei novax e dei rettiliani.
La Cina , secondo Rovelli, avrebbe “sollevato mezzo miliardo di persone dalla povertà estrema in 40 anni”, creando “benessere diffuso a una rapidità mai vista prima”, perché, per sua fortuna, è “guidata da un partito comunista che pone radicalmente l’interesse comune al di sopra dei privilegi singoli”.
La nostra incredulità ha una ragione: è il mainstream – immancabile dramatis persona di ogni complottismo – che vuole farci credere, rivela lo scienziato, che la Cina sia un paese incapace di creare ricchezza, che sia un paese aggressivo e non pacifico. Dietro questa propaganda mainstream, ci sono proprio gli strabilianti risultati economici e sociali conseguiti dalla Cina. Per questo, assicura Rovelli, “una parte del capitalismo occidentale la odia”. Solo una parte del capitalismo, però.
Nonostante questi invidiati e formidabili risultati, che vanno ben oltre quelli conseguiti dall’Occidente, Rovelli ci tiene a mettere le mani avanti: la Cina, concede, “non è perfetta, tutt’altro”.
Resta il fatto, conclude il fisico teorico, che la Cina sia “decisamente meglio di quanto abbiamo qui”, dove per “qui”, crediamo si debba intendere “in Occidente” (immaginando che non stesse rilasciando l’intervista dalla Corea del Nord, anche se avrebbe avuto più senso).
Imbeccato dal giornalista, Rovelli sottolinea, a scanso di equivoci, quanto sia disfunzionale, rispetto alla pacifica Cina, il modello occidentale, portatore di guerre e conflittualità: ci starebbe precipitando verso la terza guerra mondiale.
Come altri prima di noi, ma appunto negli anni ’50, ’60, prima del colossale tracollo dei sistemi comunisti, ci troviamo confusi a porci delle domande: Quale sistema comunista conosce Rovelli? Di quale Cina parla? Non siamo oramai tutti d’accordo sul fatto che la Terra è rotonda?
Non vorremmo però cercare di persuadere Carlo Rovelli, ricordando qualche fatto etico-politico minore, come si esprime la benevolenza dello stato totalitario cinese verso i suoi cittadini. La nostra impresa è ancora più disperata. Ci interessa andare nel merito economico delle affermazioni di Rovelli.
Del resto, per suscitare qualche dubbio sulla benevolenza cinese è troppo facile ricordare il massacro degli studenti a Piazza Tienanmen, con i carri armati che hanno falciato un migliaio di persone, con gli studenti imprigionati e condannati a morte con un colpo dietro la nuca. Già questo rende evidente che la Cina del partito comunista mette l’interesse comune sopra “i privilegi dei singoli”. Lasciamo stare anche la repressione violenta delle manifestazioni democratiche della “cacofonica” Hong Kong, i campi di rieducazione per gli Uiguri (la più grande detenzione di massa su base etnico-religiosa dopo quella dei campi di concentramento nazisti); lasciamo da parte la controversia con il Tibet, la questione delle pacifiche minacce a Taiwan; le denunce sull’ incarceramento arbitrario dei difensori dei diritti umani, e delle tecniche di sorveglianza di massa invasive. Non consideriamo neanche il sostegno alla Corea del Nord. Del resto, Rovelli lo aveva detto che la Cina “non è perfetta”.
Il punto è che, anche le persone con poca dimestichezza con la storia recente, dovrebbero sapere che la Cina è arrivata a una qualche forma di benessere economico solo nel momento in cui si è aperta, parzialmente, all’economia di mercato, proprio 40 anni fa.
Che cosa c’era prima? La fame e l’analfabetismo, unite a una buona dose di autoritarismo, che sono l’immancabile prodotto delle economie comuniste. Tutt’altra storia in Occidente. Alla fine, appunto 40 anni fa, la Cina iniziò a copiare parzialmente il sistema occidentale.
C’è una logica economia conosciuta. Senza la produzione di ricchezza, non è neanche possibile migliorare le condizioni di lavoro, avere una scuola pubblica efficiente, e lo stesso vale per la sanità, l’università, i teatri, i sistemi giudiziari e il welfare in generale. Il benessere economico di uno stato, in ultima istanza, non dipende dalla generosità dei governanti, ma dalla ricchezza che il sistema economico riesce a produrre. A fare la differenza è il sistema economico. I buoni sentimenti, anche quelli di un pacifico sistema totalitario, da soli non servono a nulla. Il totalitarismo può però, per un certo periodo, beneficiare della produzione di ricchezza. Il calcolo sbagliato è stato credere che la ricchezza avrebbe contribuito a rendere democratici alcuni paesi. Che non sono diventati democratici, ma in compenso sono diventi minacciosi.
Si deve considerare che il “miracolo cinese” si spiega proprio con l’arretratezza nella quale il partito comunista aveva lascito la Cina. Ha origine da una situazione lontana dalla frontiera tecnologica degli altri paesi. È un fenomeno stranoto in economia, che la crescita impetuosa è data dal recupero di questo divario. Quando però si avvicina alla frontiera tecnologica, quando questo divario si colma, la crescita si sgonfia: e infatti stiamo già vedendo calare i tassi di crescita cinesi. Emergeranno, invece, sempre più problemi e contraddizioni socioeconomiche, che il partito comunista cinese finirà per affrontare senza meccanismi democratici.
La crescita economica è il migliore stabilizzatore sociale. I problemi nascono quando cessa la crescita: non è azzardato, date queste circostanze, prevedere un ritorno di metodi brutali. Succede quando l’interesse comune è deciso da un ristretto numero di funzionari.
Per quel che concerne il modello occidentale in generale (se volete “liberista, “neoliberista” o “capitalista”: tutti termini usati sempre a sproposito nel dibattito pubblico), Rovelli e il suo intervistatore fanno un’operazione intellettuale talmente raffazzonata che farebbe ridere se non fosse condivisa da moltissime persone.
In breve, essi trasferiscono i concetti di competitività e concorrenza tra i soggetti economici ai rapporti internazionali tra stati. Di conseguenza, l’Occidente sarebbe per sua natura imperialista mentre il socialismo (che internamente elimina l’iniziativa economica e la concorrenza o che, nella versione cinese, le subordina rigidamente ai desiderata del partito) sarebbe portato ad evitare qualsiasi tipo di conflitto internazionale, essendo un regime non competitivo. Signori, le guerre sono colpa di Adam Smith, non lo sapevate?
Sembrerebbe che si creda davvero che, al di fuori del cosiddetto “capitalismo occidentale”, non si diano guerre, guerre civili, pogrom, massacri, colpi di stato. Se le guerre esistono, in questo schema candido, vengono dal Grande Colpevole della favola: l’Occidente.
Il bello è, però, che l’evidenza mostra l’opposto. Il modello basato sulla competizione economica – quello che assicura la ricchezza e che, bel lungi dall’essere un “selvaggio” campo incontrastato degli animal spirit, è invece temperato da una miriade di vincoli e regole – ha prodotto un’integrazione progressiva, anche culturale, che ha reso implausibili le guerre tra democrazie. E questo dopo un’interminabile e millenaria vicenda di massacri sui campi di battaglia. Potrebbero bastare questa serie di evidenze empiriche per riconoscere il successo del modello liberaldemocratico?
Per quanto Rovelli non sembri esserne al corrente, è un modello adottato anche al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti. È adottato anche in Sud America, in India, in altri stati asiatici (utile una gita dalla Corea del Sud a quella del Nord). In alcuni stati africani sta finalmente producendo l’affrancamento dalla fame. Molto di più ha prodotto il capitalismo che non le prediche di cui ci hanno imbevuti durante l’infanzia, e che sono state, lo vediamo per molti amici, come l’imprinting per le oche di Lorenz.
Molti nostri amici “intellettuali impegnati” li vediamo sempre generosamente armati di un moralismo tautologico e controfattuale, accuratamente digiuno di ogni nozione elementare di economia. Abbiamo riscontrato che per loro resta difficile capire che la libertà individuale non significa anarchia e dispersione “cacofonica” (così, peraltro, Rovelli definisce la libertà d’espressione guidata dagli immancabili “poteri forti” in Occidente).
È difficile, nella tradizione culturale piccolo borghese e antiliberale che è l’”autobiografia della nazione”, capire che la libertà è un valore non solo per sé stessa, ma anche perché crea altri valori. Per certi intellettuali impegnati, quando non ci sono altre ragioni, la moralità ha bisogno di un Commissario Politico che operi per il bene comune. È un’idea, in realtà, molto primitiva e senza dubbio paralogistica, perché assume in ipotesi quello che desidera sia reale nella conseguenza.
In realtà sappiamo, oramai da secoli, che le libertà economiche sono sinergiche alle altre libertà. Il problema della Cina sarà che senza libertà non avrà innovazione, a meno di non copiare. La libertà disordinata crea ricchezza e innovazione. Il concetto “no taxation without representation” non è anarchico ed estraneo al “bene comune”: afferma il principio di accettare la tassazione dello stato a patto di concorrere al governo della cosa pubblica. Non si tratta, ovviamente, di essere “contro lo stato”, se lo stato è democratico. Nell’Occidente cosiddetto “neo-liberista” almeno il 50% della ricchezza è prodotto e/o controllato dallo stato.
Gli individui liberi hanno idee e creano valori. Si tratta di valori scientifici, artistici, culturali e anche economici. L’economia e l’ignoranza dei suoi meccanismi, però, ha sempre turbato certe persone, quasi come l’amore omosessuale, l’ateismo, il libertinismo.
L’economia vivace invece è sempre il segno delle società libere. Libertà civili, libertà economiche e democrazia vanno a braccetto e sono per loro natura un sistema che evolve, a differenza dei sistemi studiati a tavolino. A patto che si accetti un po’ di “cacofonia”.