Linguaggio tecnico-scientifico e legittimità pubblica della ricerca
Nella comunicazione tra comunità scientifica e società civile, il linguaggio tecnico-scientifico svolge un ruolo centrale ma talora problematico. Da un lato, termini specialistici e formalismi matematici sono strumenti indispensabili per la precisione e il rigore all’interno della ricerca. Dall’altro lato, quando questi codici altamente tecnici filtrano nel dibattito pubblico, possono risultare opachi o alienanti per i non addetti ai lavori, incidendo sulla legittimità pubblica della ricerca stessa. In altre parole, se il pubblico non comprende il lessico della scienza, rischia di percepire gli scienziati come un’élite distante e autoreferenziale, indebolendo la fiducia nelle loro conclusioni. Il Pew Research Center osserva che, sebbene una larga maggioranza di americani (76%) esprima ancora fiducia negli scienziati nel fare l’interesse pubblico, questa fiducia è scesa rispetto agli anni precedenti e si accompagna alla diffusa sensazione che i ricercatori non siano bravi a comunicare. Solo il 45% degli intervistati negli Stati Uniti descrive infatti gli scienziati come “buoni comunicatori”. Ciò segnala un gap significativo: l’eccellenza nel produrre conoscenza non sempre si traduce in efficacia nel diffonderla presso il grande pubblico.
Questo divario linguistico ha conseguenze tangibili sulla legittimità percepita della ricerca. Durante la pandemia da COVID-19, ad esempio, il pubblico mondiale ha dovuto confrontarsi con concetti come “mRNA”, “indice Rt”, “immunità di gregge” – termini tecnici che hanno rapidamente invaso i media. Per molti, apprendere questi concetti in tempi brevi è stato difficile, e la complessità del linguaggio ha talvolta alimentato incertezza o diffidenza. Comunicatori e giornalisti scientifici si sono trovati nella posizione di mediatori linguistici, traducendo il gergo specialistico in parole comuni. Tuttavia, ogni traduzione comporta semplificazione: c’è il rischio di perdere sfumature o, viceversa, di creare falsi amici semantici (parole di uso comune usate però in un senso diverso in ambito scientifico). Un esempio classico è la parola “teoria”: nella scienza indica un modello supportato da evidenze, mentre nel linguaggio quotidiano può significare un’ipotesi qualsiasi. Incomprensioni di questo genere incidono sulla legittimità: quando il pubblico sente parlare di “teoria dell’evoluzione” potrebbe erroneamente interpretarla come un’idea incerta o opinabile, minando l’autorevolezza di decenni di ricerca.
La percezione della trasparenza è un altro elemento cruciale. Una ricerca complessa, presentata con un linguaggio altamente tecnico senza spiegazioni accessibili, può indurre il sospetto che si voglia “nascondere” qualcosa dietro parole incomprensibili. I movimenti anti-scientifici spesso sfruttano questa sensazione, dipingendo gli scienziati come una casta che usa un gergo ermetico per escludere il popolo dal dibattito. Paradossalmente, la necessaria complessità del linguaggio scientifico viene additata come prova di scarsa onestà o addirittura di cospirazione. Ce lo ricorda il fenomeno della cosiddetta Truth Decay descritto dalla RAND Corporation, ossia la decrescente influenza dei fatti oggettivi nel discorso pubblico. Una delle cause identificate di questo fenomeno è proprio l’aumento del disaccordo su cosa costituisca un fatto, alimentato in parte dalla difficoltà del pubblico nel comprendere e verificare informazioni tecniche. Quando termini come “incidenza statistica”, “significatività clinica” o “intervallo di confidenza” non vengono spiegati adeguatamente, il dibattito si sposta sul terreno scivoloso delle opinioni non informate, erodendo la base fattuale condivisa. In questo contesto, la legittimità pubblica della ricerca – intesa come fiducia collettiva nel metodo scientifico e nei suoi risultati – può risultare compromessa.
Per affrontare il problema, emergono approcci di semplificazione responsabile del linguaggio. Grandi istituzioni e centri di ricerca di prestigio internazionale, come il Reuters Institute o l’Oxford Internet Institute, lavorano attivamente per rendere i risultati scientifici più accessibili senza tradirne il contenuto. Ciò si traduce, ad esempio, nell’accompagnare ogni pubblicazione importante con riassunti divulgativi, infografiche o sessioni di Q&A con i cittadini. Negli ultimi anni, molti scienziati hanno assunto il ruolo di comunicatori pubblici, partecipando a talk show, aprendo account social o scrivendo libri per il grande pubblico, cercando di bilinguismo: parlare due lingue, quella accademica con i pari e quella corrente con i non specialisti. Questa tendenza è incoraggiata anche in ambito accademico – talvolta la comunicazione verso l’esterno è considerata nei criteri di valutazione della ricerca. L’obiettivo è costruire ponti linguistici: spiegare che “correlazione non implica causalità” magari ricorrendo a esempi intuitivi, chiarire cosa significhi “modello predittivo” con metafore vicine all’esperienza quotidiana, e così via. Tali sforzi, documenta il Pew Research Center, incontrano il favore del pubblico: la maggioranza riconosce agli scienziati intelligenza e buone intenzioni, e molti apprezzano quando gli esperti “scendono dal piedistallo” per dialogare in modo comprensibile.
Resta aperta la questione di come conciliare la complessità irriducibile di alcuni temi con l’esigenza di comunicazione chiara. Alcuni concetti scientifici sono intrinsecamente difficili e ogni eccessiva semplificazione rischia di essere fuorviante. Ad esempio, le sfumature probabilistiche dell’interpretazione dei dati clinici non possono essere ridotte a un messaggio binario “funziona/non funziona” senza perdere verità. Qui intervengono i modelli di spiegazione graduale: offrire diversi livelli di approfondimento a seconda del pubblico. Un documento dell’MIT Media Lab suggerisce l’uso di piattaforme interattive dove il lettore può scegliere se fermarsi a un primo strato divulgativo oppure cliccare per ottenere più dettagli tecnici. Iniziative come queste riconoscono che la legittimità della ricerca dipende anche dal senso di inclusione cognitiva: il cittadino deve poter accedere all’informazione scientifica al livello di complessità che è in grado di gestire, senza sentirsi escluso. Anche la stampa gioca un ruolo: testate come quelle analizzate dal Reuters Institute stanno investendo in fact-checker e giornalisti con formazione scientifica, capaci di tradurre e verificare i contenuti provenienti dal mondo della ricerca.
In sintesi, il linguaggio tecnico-scientifico è un’arma a doppio taglio per la legittimità pubblica della scienza. Serve agli esperti per comunicare con precisione tra loro, ma può erigere barriere con il pubblico. La sfida attuale consiste nel rendere la scienza inclusiva senza banalizzarla: un equilibrio in cui terminologie complesse vengono spiegate con metafore azzeccate, dove opportuni glossari o note aiutano a capire i termini chiave dei dibattiti, e dove gli scienziati coltivano l’empatia verso chi non ha il loro stesso background. In un’era segnata dalla disinformazione e dallo scetticismo verso molte istituzioni, riconquistare la fiducia passa anche attraverso le parole. Come ha messo in luce un recente sondaggio, circa la metà degli americani è divisa su quanto attivamente gli scienziati debbano partecipare al dibattito pubblico: alcuni vorrebbero che si limitassero ai fatti, altri chiedono un ruolo più attivo nelle policy. Ciò che è certo è che qualunque sia il grado di coinvolgimento, dovrà essere sostenuto da una comunicazione chiara e onesta. Solo così la conoscenza potrà davvero rimanere un bene pubblico condiviso, e la ricerca mantenere quella legittimità sociale che le consente di prosperare ed essere d’impatto.
Fonti
Public Trust in Scientists and Views on Their Role in Policymaking