L’uso della forza nelle relazioni internazionali: un dilemma del liberalismo
Analisi & Ricerche
di Andrea Millefiorini
La politica è la lotta tra gruppi finalizzata al perseguimento di interessi, all’affermazione di valori e alla attribuzione di significati per una determinata collettività, attraverso ordinamenti vincolanti che prevedano, in ultima istanza, il ricorso all’uso della forza fisica. Pervengo a questa definizione di politica (oggi contenuta nel volume di prossima uscita, Politica. Concetti per una definizione, Mondadori Università, 2024) dopo studi e ricerche che hanno più volte incontrato sulla propria strada, oltre l’approccio cosiddetto “realista” alla politica, che è quello al quale prevalentemente si ispira la definizione, anche quello liberale. Tuttavia realismo politico e liberalismo, è cosa nota, non sempre vanno d’accordo. Intendiamoci: sia l’uno che l’altro nascono a partire da una concezione scettica della politica. In questo senso, sono realisti entrambi. Lo sono in quanto ritengono che anche la cattiva politica sia, comunque, politica, e non un qualcosa da considerare al di fuori della realtà quotidiana e della vita della società nella quale essa dispiega il suo potere. Tuttavia, mentre su questa premessa sono entrambi d’accordo, sugli strumenti da adottare e sulle conseguenze evitabili e non evitabili di tale premessa, ecco che realismo e liberalismo prendono strade decisamente diverse.
Il liberalismo, per lo meno quello classico affermatosi da Kant fino a tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento, ha sempre ritenuto che, vuoi per il doux commerce, vuoi per il progressivo peso detenuto dai trattati internazionali e dalla pacificazione delle relazioni tra stati dovuta al maggiore interesse e convenienza degli scambi economici rispetto ai costi che comportano i conflitti politici e militari, l’uso della forza e della violenza si sarebbe progressivamente ridotto, sino ad una pace “kantiana-liberale” (ci si passi l’associazione tra due termini che filosoficamente sono comunque distinti tra loro) che avrebbe alla fine avuto la meglio sui rapporti e sugli equilibri di potenza basati in primo luogo sulla forza, quella militare innanzitutto. Sarebbe stata definitivamente demandata ai trattati e agli organismi sovra-nazionali la facoltà e il potere di regolare le controversie tra stati.
Il realismo politico non nega che la crescita e lo sviluppo economico contribuiscano ad attenuare i conflitti. Afferma tuttavia che, da soli, questi due elementi non siano sufficienti a fermare la sempre latente tendenza del potere politico a soverchiare tutti gli altri e, soprattutto, a fuoriuscire dai limiti che il diritto, interno e internazionale, gli impone di osservare. A livello di rapporti internazionali, il diritto non è in grado, da solo, di contenere il potere politico, per lo meno non nei termini con i quali, nelle democrazie liberali, riesce a farlo all’interno della comunità politica in cui esso vige. Sicché, il problema dell’equilibrio e della pace internazionale è demandato, in ultima, non al diritto internazionale ma ai rapporti e agli equilibri tra le potenze politiche regionali, internazionali e globali. È solo grazie a questi rapporti e a questi equilibri che poi, a livello di organismi internazionali, è possibile prendere delle decisioni. In altre parole, sono gli equilibri di potenza tra stati che orientano e determinano le decisioni degli organismi internazionali, e non viceversa. Né potrebbe essere diversamente, sempre secondo l’approccio realista.
Nessun possibile futuro, dunque, per relazioni internazionali fondate sul reciproco confronto, sul rispetto e, in ultima, sul diritto internazionale scaturente dal lungo processo di accordi politici tra la comunità degli stati? Il realismo politico, ad eccezione di alcuni pur autorevoli contributi – non ultimo quello di Carl Schmitt – non è mai arrivato ad una conclusione così drastica e, soprattutto, gli studi politici più recenti, attribuibili a questo approccio, ci offrono una visione e una spiegazione complessiva che non chiude affatto la porta a possibili, futuri scenari di stabile pacificazione tra gli stati.
Per arrivare ad uno scenario simile, tuttavia, è necessario effettuare un percorso che prima ancora che storico ed effettuale è di tipo logico. Si comprenderà così molto meglio se e come sarà possibile quello effettuale.
Occorre partire dalla considerazione, e constatazione, che i regimi democratici, per conformazione interna, per cultura politica consolidata, per inclinazione degli stessi attori politici e sociali, per “ancoraggio” a certi valori e interessi (Morlino, 2003) sono da sempre abbastanza restii ad imbarcarsi in guerre con altri stati. A meno che ovviamente le proprie classi dirigenti non ritengano minacciati gli interessi essenziali della propria comunità politica. Insomma sembra di poter affermare, sulla base della sociologia storico-comparata sino ad oggi prodotta, che le democrazie entrano in guerra generalmente solo a scopi difensivi, mentre gli altri tipi di regime lo fanno sia a scopi difensivi che a scopi offensivi. Ciò accade inoltre in quanto nelle democrazie è più difficile, per quei governanti che anche lo volessero, giustificare all’opinione pubblica una entrata in guerra a scopi offensivi o di conquista/riconquista. Certo, non impossibile, come mostra il caso della nostra entrata nella Prima Guerra Mondiale (per la verità non solo contro l’opinione maggioritaria del Paese, ma anche contro quella del Parlamento), ma si tratta di casi ormai sempre meno realistici e attuabili.
Dunque ricapitoliamo: se considerate nei loro rapporti e nelle loro relazioni internazionali, le democrazie tendono a sviluppare un ordito di diritto e di organismi internazionali che, tra di loro, tendono a mantenere in piedi.
Questo ordito, tuttavia, non è creato dalle sole democrazie, ma da diversi fattori che concorrono a definirlo, tra i quali anche i regimi non democratici.
Ora, pensare che in campo internazionale esista una sfera di competenza esclusiva e non «ritirabile» della rule of law, specularmente a come avviene all’interno di una comunità politica nella quale esista uno Stato di diritto è, al momento, una semplice utopia. Come ci insegna Weber, la legalità all’interno degli Stati è basata sulla fede in tale legalità. È per questo che funziona. Per avere altrettanto anche a livello internazionale sarebbe necessario che quella legalità e razionalità tra Stati poggiasse su altrettanta fede, da parte, in questo caso, non dei cittadini, ma delle élites che governano le rispettive comunità politiche. Cosa che, come ognuno comprende, non è una condizione certa e garantita sempre e ovunque.
È per questo che l’appello all’order and law come alternativa all’anarchia internazionale del nostro tempo risulta sensato solo nell’ipotesi che lasfera internazionale contenga già gli elementi sociali che favoriscono l’ordine e la pace. […] L’inefficacia del diritto internazionale nel periodo liberale rivela l’impotenza di un sistema giuridico che, pur soddisfacendo il test della razionalità, opera a prescindere dalle condizioni sociali. [Sicché], in ambito internazionale non importa sapere qual è la legge ma quale deve essere, domanda alla quale non può rispondere il giurista, ma solo lo statista (Morgenthau, 2005: 158 e 161).
Si comprende dunque che se, e solo se, tutti gli Stati saranno sottoposti ad un ordinamento democratico, solo allora i principi dell’internazionalismo liberale potranno essere applicati, proprio in quanto creduti validi da tutti gli attori in gioco. Questa condizione di non universale presenza della rule of law e della democrazia in tutti gli Stati presenti nella scena internazionale, quindi, alimenta la continuità della politica di potenza anche tra gli Stati democratici, specialmente in quelli che sono internazionalmente classificati come potenze regionali, medie potenze o grandi potenze (Millefiorini, 2024: 145).
Al dato empirico che le democrazie non scendono tra loro in guerra va aggiunto anche un altro trend storico, anch’esso verificato6: il fatto cioè che i regimi politici democratici tendono ad aumentare, storicamente, rispetto a quelli non democratici. Sommando queste due regolarità empiriche (che restano comunque – ricordiamolo – sempre falsificabili e rovesciabili in qualunque momento) otteniamo in prospettiva futura l’aumento delle probabilità che i conflitti armati diminuiscano progressivamente, sino a considerarli anche culturalmente come un qualcosa di ormai superato e improponibile (Ivi: 169).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Morgenthau H., 2005, L’uomo scientifico versus la politica di potenza. Un’introduzione
al realismo politico (1946), introduzione di Alessandro Campi, Ide-Azione editrice, Roma
Millefiorini, A., 2024, Politica. Concetti per una definizione, Mondadori Universitò, Milano
Morlino, L., 2003, Democrazie e democratizzazioni, Il mulino, Bologna
Weber, M., 1999, Economia e società (1922) (5 Voll.), Edizioni di Comunità, Torino