di Nane Cantatore
Molti, delle più variegate affiliazioni politiche e provenienze culturali, continuano a ripetere l'assioma secondo il quale le vittime civili produrrebbero nuovo terrorismo. In altre parole, l'idea che dall'oppressione e dalla mancanza di alternative nasca, quasi direttamente, la lotta armata senza regole e senza quartiere, se non la vocazione al martirio.
A me pare che la faccenda sia un po' più complicata. Non bastano la disperazione e le ingiustizie a produrre la lotta armata, altrimenti tutta l'Africa e gran parte dell'Asia e dell'America Latina sarebbero in fiamme. Affinché dalla frustrazione nasca la lotta, ci vuole un'organizzazione capace non solo di fare proseliti - il che è relativamente semplice, come mostra ogni setta -, ma anche di gestire addestramento e logistica, individuare gli obiettivi, impostare una strategia, coordinare i diversi gruppi, reperire i fondi e sviluppare un braccio politico. Tutto questo, mentre dall'altra parte sono attive forze ben organizzate che ti danno la caccia.
Insomma, un movimento di lotta armata non è una formazione improvvisata, ma il risultato di una lunga azione organizzativa, rispetto alla quale l'esasperazione popolare è solo una precondizione soggettiva, certamente non sufficiente e forse nemmeno necessaria. Anzi, nella storia possiamo dire che spesso i movimenti terroristici non sono nati da una radicalizzazione di massa ma, semmai, sono sorti con la speranza di suscitarla, dai nichilisti russi alle formazioni europee occidentali degli anni Settanta, fino agli attentati dell'ISIS in giro per l'Europa, il cui obiettivo era chiaramente quello di mobilitare le masse islamiche europee. Speranza o, meglio (em)pia illusione: il terrorismo tende a essere faccenda di piccoli gruppi, sterile e scarsamente incisiva. Su questo, è difficile dare torto all'analisi di Lenin, del quale tutto si può dire ma non che non fosse un buon organizzatore politico, quando condannava il "terrorismo individuale" come forma di avventurismo. Si può, anzi, dire, che la differenza tra il gruppo terrorista e il movimento di lotta armata consti soprattutto nell'appoggio popolare: il FLN algerino, l'IRA nordirlandese, i Viet-Minh (poi Vietcong) vietnamiti si distinguevano dalle Brigate Rosse o dalla RAF essenzialmente per questo aspetto.
L'errore che va assolutamente evitato è quello di leggere il terrorismo come un blocco unico, un monolite con caratteristiche fisse, che nasce secondo il modello costante esasperazione popolare -> organizzazione militante -> azione terroristica. L'unica condizione a cui si possa accettare una interpretazione unitaria del fenomeno è quella di chi lo subisce, che ne dà l'elementare definizione di "violenza organizzata da parte di attori non statali", ma che dice poco su come si organizzi questa violenza.
Per questi motivi, ogni caso va esaminato nella sua specificità, in ciò che caratterizza ogni organizzazione, i suoi punti di forza e le sue debolezze, evitando generalizzazioni fuorvianti. Prendiamo il caso di Hamas: troviamo un'entità quasi-statale, costituita dall'autorità più o meno legittima, con un territorio ben definito e tutto l'apparato pubblico sotto il suo controllo: sanità, polizia, istruzione, pensioni e sussidi, attività economiche, informazione e propaganda. Questa entità, con un'agenda politica chiara e definita, ha agito nei confronti di Israele con atti di aggressione indiscriminati e continui, stipulando tregue solo per violarle in seguito (l'ultimo caso è proprio il 7 ottobre). Da questo punto di vista, quello di Hamas, più che un movimento terrorista o, ancor meno, di lotta armata, è un caso di stato canaglia, nel senso di un regime politico che esercita un controllo continuo e sostanzialmente incontrastato su un territorio definito e la sua popolazione, per comportarsi in modo aggressivo e criminale, usando ogni mezzo a sua disposizione per portare avanti questa sua politica, che peraltro è il solo modo in cui possa sopravvivere e rimanere al potere.
Ecco perché un'azione decisa e definitiva sul territorio può essere risolutiva, per lo meno nei confronti di Hamas. Non solo: se, in seguito a questa guerra, la gestione della Striscia di Gaza e degli aiuti che vi arrivano dovesse passare a un soggetto meno criminale, si eliminerebbe anche la possibilità di un Hamas 2.0, visto che eventuali nuove organizzazioni terroristiche dovrebbero costruirsi su altri presupposti e con altre risorse.
Meno rilevante, invece, mi sembra la questione, sempre evocata, della necessità di eliminare i vertici, che si trovano all’estero. Proprio per la sua natura territoriale ed essenzialmente “nazionale”, Hamas è in grado di produrre quadri, dirigenti e leadership, almeno fino a che dispone delle risorse materiali e organizzative e del bacino di reclutamento disponibile a Gaza. Ismail Haniyeh e Moussa Abu Marzuk non sono BIn Laden o Al Zarqawi: a differenza di Al Qaeda, che aveva una struttura fondamentalmente immateriale, dipendente solo dai flussi finanziari e dalla riconoscibilità della leadership, l’organizzazione islamica palestinese potrebbe sopravvivere alla propria decapitazione. In altre parole, siamo di fronte a uno strano ibrido mitologico, con la capacità dell’Idra di rigenerare le teste tagliate, ma la debolezza di Anteo, che perdeva ogni forza se staccato dal suolo. Non voglio dire che i vertici in Qatar possano dormire sonni tranquilli o che prima o poi non avranno uno spiacevole incontro con il Mossad, ma la priorità non è questa.
Ok, potrebbero dire i sostenitori del principio citato all'inizio; ma la quantità di morte e distruzione necessaria a ottenere questo risultato è tale che inevitabilmente produrrà una ulteriore radicalizzazione dei gazawi. Possibile, anche se non ne sarei così certo; nel senso che non è una strada a senso unico ed è ragionevole pensare che parecchi di loro siano comunque un po' stanchini. Soprattutto, secondo quello che ho detto prima, serve che si crei un'organizzazione in grado di combinare qualcosa e non è affatto semplice.
Insomma, la questione è questa: l'operazione militare, con i suoi costi umani necessariamente elevatissimi, è un passaggio forse necessario ma certamente insufficiente. Sicuro è che, a queste condizioni, qualsiasi risultato diverso dalla totale eradicazione di Hamas e della Jihad Islamica sarebbe una sconfitta per Israele: perché, se sopravvivesse, allora sì che Hamas potrebbe capitalizzare sul dolore che essa stessa ha causato ed evitare di essere messa sotto accusa per la sprezzatura con cui tratta le vite palestinesi. Se, invece, la sua presa su Gaza dovesse esaurirsi, probabilmente il rancore dei gazawi si dirigerebbe soprattutto verso chi li ha cacciati in questo casino e li ha adoperati come scudi umani.
Comunque, necessaria ma non sufficiente: la sconfitta di Hamas potrebbe creare una finestra di opportunità, nella quale migliorare le condizioni di vita dei gazawi, riavviare il processo di pace e stroncare ogni nuova insorgenza terroristica, o almeno provarci. Per fare tutto questo, ci vuole soprattutto la politica. E oggi, né quella israeliana, né quella dell'ANP sembrano all'altezza. Per risolvere il primo problema, potrebbero (potrebbero!) bastare nuove elezioni. Per il secondo, chissà cosa ci vorrebbe.
Come e avvenuto in Afganistan e in Iraq la vera sfida viene quando le armi tacciono e li gli USA hanno dimostrato di non capire le dinamiche di un paese islamico per il quale la “liberta” tanto cara a noi e il cui simbolo e la famosa statua di New York e qualcosa di poco digeribile.
Io credo, ormai, che Israele dovrà avviare una politica di assimilazione statuale, come è avvenuto per i 2 milioni arabi islamici che vivono in Israele. Per la striscia di Gaza, si dovrebbe pensare a territori con autonomia politica amministrativa autonoma, (esempio Trentino) nella sfera statuale Israeliana. Altre strade, per l'esistenza di Israele non sono percorribili e farebbero immaginare una rinascita del presunto popolo Palestinese che non è mai esistito.