Rassegna della stampa tedesca #140
Quello che segue è il Monitoraggio della stampa tedesca, curato dalla redazione di Stroncature, su commissione della Fondazione Hanns Seidel Italia/Vaticano. Il monitoraggio ha cadenza settimanale ed è incentrato sui principali temi del dibattito politico, economico e sociale in Germania. Gli articoli sono classificati per temi.
Stroncature produce diversi monitoraggi della stampa internazionale con taglio tematico o geografico personalizzabili sulla base delle esigenza del committente.
Analisi e commenti
Nulla di fatto per il sussidio di base: l’SPD cede ancora
Wieder Nullrunde beim Bürgergeld: Und die SPD knickt wieder ein
taz – 31.08.2025
Nel dibattito sul mancato aumento del Bürgergeld (il sussidio sociale di base), la taz critica aspramente l’atteggiamento rinunciatario dell’SPD nei confronti della CDU. Nonostante l’aumento del costo della vita, il governo ha annunciato per il 2026 un’altra “nulla di fatto” – il sussidio resterà fermo a 563 euro mensili per una persona sola. La coalizione giustifica lo stop con argomentazioni “senza senso” (definite appunto “Quatsch”): in primo luogo, che la formula attuale di calcolo non prevede aumenti – un fatto tecnico vero ma fuorviante, poiché la formula potrebbe essere cambiata come concordato nel contratto di coalizione, il che avrebbe portato almeno un modesto incremento di 12 euro. In secondo luogo, si sostiene che nel 2023-2024 il sussidio è già stato notevolmente aumentato per compensare l’inflazione; tuttavia, osserva l’articolo, dal 2021 il potere d’acquisto del Bürgergeld è comunque calato perché l’inflazione ha superato gli adeguamenti – malgrado i rialzi del 2023-24 restano perdite non recuperate. Terzo argomento contestato: l’affermazione del cancelliere Merz secondo cui “non possiamo permetterci di più” in ambito sociale. La ministra SPD Bärbel Bas ha replicato definendo tale posizione “una cavolata” (“Bullshit”), e la taz concorda: non è che la Germania non possa finanziariamente, è che la CDU/CSU non vuole farlo. L’articolo accusa l’SPD di non impegnarsi per un vero cambiamento del sistema socio-economico, limitandosi a subire la linea dei conservatori e mancando perfino di tutelare la dignità dei più poveri. Una riforma più equa del Bürgergeld – portandolo secondo le associazioni sociali ad almeno 813 euro mensili – viene indicata come necessaria, ma l’SPD al governo non mostra la volontà politica di realizzarla. La conclusione amara è che questo ulteriore dietrofront dell’SPD conferma la sua rinuncia a difendere con decisione i ceti più deboli, accettando misure che mantengono la povertà invece di combatterla.
Leva militare fino alla pensione? Una provocazione generazionale
Verlängert die Wehrpflicht doch bis zum Rentenalter
Süddeutsche Zeitung – 01.09.2025
Un commento ironico della SZ affronta la discussione sul ritorno della leva obbligatoria mettendo in luce una questione di equità generazionale. Il dibattito recente sulla “capacità di guerra” della Germania – riemerso con la proposta di reintrodurre il servizio militare – sembra infatti considerare solo i giovani come responsabili della difesa del Paese, mentre la generazione più anziana rimane ai margini delle richieste di sacrificio. Vari politici maturi (in genere uomini sopra i 60 anni) hanno sostenuto d’estate la necessità che i ragazzi servano la patria, senza però chiedersi quale contributo potrebbero dare loro stessi o i coetanei all’obiettivo della sicurezza nazionale. Il corsivo propone provocatoriamente di “estendere la coscrizione fino all’età pensionabile”, proprio per mettere in evidenza l’assurdità di un discorso unilaterale: perché mai dovrebbe essere solo compito dei diciottenni difendere il Paese, se la minaccia è esistenziale? Si sottolinea che in caso di grave crisi (“in Ernstfall”) la Bundeswehr non potrebbe comunque fare affidamento esclusivamente sulle leve giovani. Coinvolgere maggiormente anche i cittadini anziani – ad esempio in ruoli di supporto civile o nella riserva – potrebbe essere un modo per equilibrare i doveri e dare concretezza a quell’“unità nazionale” spesso invocata a parole. In controluce, il commento critica dunque un certo paternalismo ipocrita: esponenti attempati della classe dirigente sono pronti a parlare di patriottismo e dovere per i più giovani, ignorando che la “difesa del Paese” dovrebbe riguardare tutte le generazioni. La conclusione implicita è un invito a un approccio più onesto e corale alla sicurezza: se davvero la Germania deve prepararsi a possibili conflitti, il peso non può ricadere solo sui ragazzi, ma va ripartito sull’intera società, anche su chi oggi – comodamente – sta dietro alla retorica.
Coalizione nero-rossa: armonia di facciata dopo i litigi
Schwarz-rote Koalition: Das große Ommm
Die Zeit – 04.09.2025
Dopo mesi di tensioni interne, i leader della grande coalizione CDU/CSU-SPD hanno cercato di mostrarsi insolitamente sereni e compatti in occasione del primo vertice di governo post-pausa estiva. Il commento di Zeit analizza con scetticismo questa “grande Om” (allusione ironica a un mantra zen), evidenziando come il buonumore ostentato sia perlopiù di facciata. Fino a pochi giorni prima del vertice, infatti, il clima era pessimo: al congresso CDU del fine settimana il cancelliere Friedrich Merz aveva dichiarato che “la Germania non può più permettersi il suo attuale stato sociale”, facendo intendere la necessità di tagli, e la risposta della ministra SPD Bärbel Bas era stata durissima, definendo quelle affermazioni “semplicemente bullshit”. Insomma, la coalizione era rientrata dalle ferie estive ancora litigiosa e di malumore. Eppure, alla conferenza stampa seguita al Koalitionsausschuss del 3 settembre, i quattro leader di CDU, CSU e SPD (Merz, Söder, Bas e Klingbeil) sono apparsi sorridenti fianco a fianco. Hanno riconosciuto di aver commesso errori e parlato troppo gli uni contro gli altri, promettendo di guardare uniti al futuro e lavorare insieme per il Paese. Il commento osserva che questa riconciliazione pubblica – “offensivamente” ostentata dai sorrisi e dai toni distesi – serve a tamponare l’emorragia di fiducia verso il governo, ma rischia di non bastare. I nodi di merito restano infatti irrisolti: dalle divergenze sulla spesa sociale e le riforme economiche, fino alle differenze strategiche tra i partiti. La “pace” è arrivata solo rinviando i conflitti e accontentandosi di generiche promesse di rilancio della crescita e cooperazione. Zeit sottolinea come l’armonia da meditazione non potrà sostituire soluzioni concrete: la pressione sull’esecutivo rimane alta nonostante la foto di gruppo pacificata. In conclusione, il pezzo avverte che il “grande Ommm” da solo non garantirà il successo della coalizione: serviranno risultati tangibili e una vera ritrovata fiducia reciproca, altrimenti il ritratto idilliaco rischia di apparire solo come teatro politico – un intervallo di calma apparente prima di nuove tempeste.
Salari a Est e a Ovest: ecco perché l’Est si radicalizza
Löhne in Ost und West – Niemand braucht sich zu wundern, dass der Osten radikaler wird
Der Spiegel – 04.09.2025
Questa analisi di Spiegel punta il dito sulle persistenti disparità economiche tra Germania orientale e occidentale come fattore chiave dell’ascesa del radicalismo politico nell’Est. A trent’anni dalla riunificazione, gli stipendi e le prospettive nell’ex DDR restano sistematicamente inferiori, e la società orientale si sente ancora “cittadina di serie B”. L’articolo esordisce amaramente: “l’Est sembra interessante solo quando fa il cattivo” – un riferimento polemico al fatto che solo l’allarme per la crescita dell’AfD e di atteggiamenti estremisti fa parlare dell’Est, mentre si ignorano le cause socio-economiche profonde. Vengono citati dati sul divario dei redditi e sulle opportunità occupazionali: in molti Länder orientali i salari medi restano sensibilmente più bassi che a ovest a parità di mansioni, e interi territori soffrono lo spopolamento dei giovani qualificati emigrati verso occidente. Questa frustrazione accumulata alimenta un sentimento di abbandono e risentimento che partiti radicali sfruttano abilmente. L’analisi accusa la politica federale di aver “ignorato” i crescenti squilibri economici interni: il tema delle retribuzioni nell’Est, ad esempio, raramente è al centro del dibattito nazionale. Così, quando l’Elettore orientale vota in massa per l’AfD o scende in piazza, molti nell’élite occidentale fanno spallucce, quasi fosse un problema caratteriale dell’Est (“il solito cattivo Est”) invece di riconoscere le ragioni materiali del malcontento. L’autrice Sabine Rennefanz – originaria dell’Est e nota commentatrice – sottolinea che non ci si può “meravigliare” se l’Est si radicalizza: nessuno ha davvero affrontato le crescenti disuguaglianze economiche e di riconoscimento. In conclusione, l’articolo lancia un monito: per frenare la deriva radicale a Est servono azioni concrete per ridurre il divario di salari e sviluppo, altrimenti la protesta continuerà a incanalarsi verso opzioni estreme, alimentata dall’amarezza di una parte del Paese che si sente lasciata indietro.
Tassa di successione: come renderla equa per tutti
Ungleichheit und Vermögen – Wie eine faire Erbschaftsteuer aussehen könnte
Der Spiegel – 03.09.2025
In questo intervento sulle pagine economiche di Spiegel, l’editorialista Ursula Weidenfeld affronta il tema della riforma della tassa di successione in Germania alla luce del dibattito politico in corso. Lo spunto immediato è la proposta del primo ministro bavarese Markus Söder (CSU) di dimezzare l’imposta di successione, un’idea respinta dal cancelliere Merz e criticata dall’autrice come soluzione semplicistica. L’articolo esordisce ricordando come proprio ora – con un governo federale di grande coalizione – sia il momento opportuno per rendere “più giusta per tutti” la tassazione delle eredità, anziché tagliarla indiscriminatamente. Si evidenzia che l’attuale imposta colpisce in modo diseguale: da un lato molte piccole e medie fortune familiari si dissolvono di generazione in generazione anche a causa dell’imposta, dall’altro i grandissimi patrimoni trovano vie legali per ridurre al minimo l’onere fiscale (donazioni anticipate, fondazioni di famiglia, assicurazioni sulla vita). Una riforma equa dovrebbe quindi aumentare la progressività: ad esempio innalzando le franchigie e le aliquote solo per gli scaglioni più elevati di patrimonio ereditato, in modo da alleggerire le successioni di ceto medio (la “nonna che lascia la casa ai nipoti”) ma chiedere un contributo maggiore ai multimilionari. Viene citata la discussione tra Söder e Merz: il cancelliere si è detto contrario a riduzioni generalizzate dell’imposta, segnando una distanza dal populismo fiscale della CSU bavarese. Weidenfeld concorda con Merz su questo punto e propone anzi di cogliere l’occasione per una riforma strutturale: un’imposta di successione “per tutti” meglio calibrata, che impedisca il consolidamento di enormi ricchezze ereditarie (riducendo così le disuguaglianze intergenerazionali) ma al contempo tuteli le imprese familiari e i piccoli patrimoni dall’eccessiva erosione. La conclusione è che una riforma coraggiosa in tal senso sarebbe socialmente auspicabile e fiscalmente sensata. Il momento è propizio – suggerisce l’autrice – perché la grande coalizione ha la forza parlamentare per agire e perché il tema dell’equità fiscale gode di attenzione nell’opinione pubblica. Ciò richiede però visione e volontà politica, per non ridursi alla comoda non-decisione di mantenere lo status quo o, peggio, a tagli superficiali che avvantaggiano soprattutto i ricchi senza aiutare davvero il ceto medio.
Habeck lascia la politica: i Verdi davanti a un bivio
Habeck rennt vor dem Rollback davon
Der Spiegel – 01.09.2025
La scelta di Robert Habeck di ritirarsi dalla vita politica attiva segna la fine di un’era per i Verdi tedeschi e apre interrogativi sul futuro del partito. In questa colonna sullo Spiegel, Nikolaus Blome sostiene che l’uscita di scena di Habeck – ex vicecancelliere e volto moderato dei Verdi – equivalga a “scappare di fronte alla restaurazione conservatrice” attualmente in corso. Dopo la caduta della coalizione semaforo (SPD-Verdi-FDP) nel 2024 e la pesante sconfitta elettorale di febbraio 2025, Habeck aveva già annunciato di non voler più ricoprire ruoli di vertice nel partito. Il 1º settembre ha poi lasciato anche il seggio in Bundestag, sancendo il suo addio completo. Blome critica questa decisione definendola quasi un diserzione: secondo lui, proprio ora sarebbe servito all’elettorato ecologista un leader esperto per riorganizzare l’opposizione e difendere le conquiste ambientali dagli attacchi del nuovo governo conservatore. Invece Habeck – “il simbolo di una nuova maniera di fare politica” – getta la spugna e si defila, lasciando i Verdi in mano a figure meno carismatiche e a correnti interne in conflitto. L’autore paventa che senza un rinnovamento incisivo il partito Verde rischia l’irrilevanza: “se i Verdi restano come sono, spariranno – e quasi a nessuno mancheranno”, sentenzia duramente. In altri termini, l’articolo insinua che la leadership verde attuale (divisa tra Realos e Linke, pragmatici e sinistra interna) non abbia la capacità di reagire efficacemente all’onda conservatrice. Habeck, con il suo stile dialogante e la ricerca di soluzioni trasversali, rappresentava una speranza di rinnovamento politico – sebbene alla fine la sua stagione di governo sia stata segnata anche da errori e polemiche (la colonna parla di “processo di fallimento affascinante” riferendosi alla parabola di Habeck). Ora, il suo ritiro viene interpretato come l’ammissione di una sconfitta: “non vuole aggirarsi come un fantasma nei corridoi”, ha dichiarato Habeck stesso, riconoscendo implicitamente di non avere più lo slancio per guidare la controffensiva ecologista. Blome conclude che i Verdi dovranno reinventarsi senza il loro ex frontman: trovare nuovi leader capaci di evitare sia l’estremismo ideologico sia l’eccessiva subalternità ai partner maggiori. Un compito arduo, in assenza di figure dell’esperienza e del calibro di Habeck, il cui addio – definito “patetico” dal cancelliere Merz – rischia di lasciare il partito smarrito di fronte al rollback conservatore.
L’SPD penalizza proprio i lavoratori? Il paradosso delle pensioni
Wie die SPD-Rentenpolitik die Arbeiter benachteiligt
Der Spiegel – 02.09.2025
Questo commento di Michael Sauga sullo Spiegel esamina criticamente la posizione dell’SPD in tema di riforma pensionistica, evidenziando un paradosso: nel tentativo di proteggere i lavoratori più usurati, la linea SPD finisce per sfavorare proprio molti lavoratori. Il contesto è la discussione sull’innalzamento dell’età pensionabile per far fronte al buco finanziario del sistema. L’SPD – ora partner di coalizione con la CDU – si oppone strenuamente a qualsiasi aumento generalizzato dell’età di pensionamento, portando l’esempio emblematico dei mestieri gravosi (“muratori, piastrellisti, copritetto”) per cui sarebbe impensabile lavorare oltre i 67 anni. L’autore riconosce che su questo punto il partito ha ragione: non si può chiedere a chi svolge lavori fisicamente pesanti di estendere ulteriormente la propria carriera. Tuttavia, domanda Sauga, “perché invece escludere a priori” l’idea di far lavorare un po’ più a lungo chi svolge mansioni d’ufficio o comunque non logoranti?. Qui nasce il paradosso: l’SPD dice di difendere i lavoratori manuali opponendosi all’aumento dell’età pensionabile per tutti, ma così facendo condanna l’intero sistema pensionistico ad aggiustamenti alternativi potenzialmente peggiori proprio per i lavoratori. Infatti, se non si tocca l’età di uscita, per tenere in equilibrio i conti pubblici si profilano soluzioni come contributi più alti, tagli alle future pensioni o maggior ricorso alla fiscalità generale – misure che colpiscono indiscriminatamente anche i lavoratori dipendenti di oggi e di domani. Sauga suggerisce dunque un approccio più “differenziato”: invece di un tabù assoluto sull’età pensionabile, si potrebbe prevedere eccezioni in base alla gravosità del lavoro. Ad esempio, mantenere a 67 anni (o anche ridurre) l’età per le categorie usuranti, ma permettere – su base volontaria o incentivata – ai colletti bianchi e ai dipendenti senior in buona salute di proseguire fino a 69 o 70 anni in mansioni compatibili. Ciò allevierebbe la pressione finanziaria senza scaricarla tutta sulle nuove generazioni. Il pezzo sottolinea che persino i sindacati non escludono più simili flessibilità per i “lavori leggeri”, mentre l’SPD sembra bloccata in un riflesso conservatore di difesa dello status quo che, paradossalmente, tutela di più un principio ideologico che il benessere reale dei lavoratori. In conclusione, Sauga invita l’SPD a “pensare in modo nuovo” e a non lasciarsi intrappolare da slogan come “nessuno dovrà lavorare fino a 70 anni” senza se e senza ma. Una politica previdenziale davvero dalla parte dei lavoratori – argomenta – dovrebbe combinare equità e sostenibilità: proteggere chi non ce la fa fisicamente, ma consentire a chi può e vuole di continuare, così da rafforzare il sistema pensionistico nell’interesse di tutti i lavoratori, presenti e futuri.
Politica estera e sicurezza
Garanzie all’Ucraina: la “coalizione dei volenterosi” e i suoi limiti
Was kann die »Koalition der Willigen« wirklich leisten?
Der Spiegel – 05.09.2025
Al vertice di Parigi, 26 Paesi – tra cui la Germania – hanno promesso impegni di sicurezza a lungo termine per l’Ucraina, creando una “coalizione dei volenterosi” disposta a offrire garanzie bilaterali al di fuori dell’ombrello NATO. L’articolo dello Spiegel analizza però con scetticismo la sostanza di queste promesse, sottolineando che i dettagli concreti rimangono vaghi. Le forme che tali garanzie potrebbero assumere (fornitura continuativa di armi, addestramento, intelligence, magari un trattato di mutuo soccorso limitato) non sono state chiarite, e ciò in parte – nota l’articolo – “dipende dall’imprevedibilità del Presidente USA”. Infatti, l’adesione degli Stati Uniti è cruciale perché le assicurazioni abbiano peso deterrente; tuttavia l’atteggiamento ondivago di Donald Trump – tornato alla Casa Bianca dopo il 2024 – rende incerta la posizione americana. Il reportage riferisce che a Parigi gli europei (Francia e Germania in testa) e partner come il Canada hanno manifestato “ferma determinazione” accanto al presidente Zelenskyj, ma dietro le quinte aleggia il timore di un disimpegno USA. Trump, pur non ritirando formalmente le promesse di Biden all’Ucraina, insiste su un controllo rigoroso degli aiuti e non esclude di poter “riaprire i giochi” con Mosca in futuro. Tale inaffidabilità frena gli alleati: alcuni Paesi dell’Est Europa vorrebbero accordi di garanzia più vincolanti, ma senza la copertura americana esitano a offrirli unilateralmente. La “coalizione dei volenterosi” rischia così di ridursi a dichiarazioni di intenti. Spiegel cita fonti diplomatiche secondo cui la Germania e la Francia puntano su accordi bilaterali modulabili, impegnandosi a sostenere l’Ucraina “finché necessario” con armi e fondi, ma evitando obblighi automatici di intervento militare. È un equilibrio delicato: dare a Kiev sicurezza per il dopo-guerra, senza però formalizzare patti di difesa che potrebbero provocare il Cremlino o vincolare troppo i firmatari. L’articolo conclude che l’efficacia reale di questa coalizione dipenderà da quanto saprà tradurre le promesse in piani operativi credibili (addestramento permanente dell’esercito ucraino, forniture di armamenti moderni sostitutivi, sanzioni automatiche in caso di nuova aggressione russa). Per ora, oltre alle parole solenni, regna l’incertezza – specchio sia delle differenti visioni tra i 26 Paesi, sia soprattutto dell’ombra di Washington: con un presidente USA “inaffidabile e capriccioso”, le garanzie occidentali all’Ucraina restano inevitabilmente “fumose” e condizionate.
«Ce la facciamo» dieci anni dopo: bilancio e sfide dell’integrazione
"Wir schaffen das": Haben wir es geschafft?
Die Zeit – 04.09.2025
A dieci anni dal celebre “Wir schaffen das” di Angela Merkel, Die Zeit traccia un bilancio articolato sulle politiche di accoglienza e integrazione dei rifugiati in Germania. L’ampio reportage adotta una prospettiva polifonica – “una collage di voci, dati e speranze” – per rispondere alle tre domande implicite nello slogan del 2015: chi sono “noi”, cosa significa “riuscire” e a cosa ci si riferisce con “das” (“questo”). Sul piano umano, viene raccontata la storia esemplare di una famiglia yazida arrivata in Germania durante la crisi del 2015, sorpresa a vagare sull’autostrada vicino a Passau e poi accolta in Baviera. Dopo dieci anni, i genitori lavorano stabilmente e i figli frequentano con profitto la scuola, guardando al futuro con ambizione (uno sogna di diventare medico). Questo testimonia che l’integrazione può funzionare: con supporto iniziale e impegno personale, molti profughi sono riusciti a trovare il proprio posto nella società tedesca. Allo stesso tempo, però, la famiglia percepisce il clima sociale cambiato: nota una crescente ostilità verso i migranti nei media e sui social, e teme che l’opinione pubblica non li voglia più realmente. In effetti, politicamente il decennio ha visto un ripensamento delle politiche di accoglienza: dall’entusiasmo iniziale (“Culture of Welcome”) si è passati a toni più restrittivi, con l’ascesa dell’AfD e pressioni per limitare gli arrivi. Il servizio presenta dati ufficiali: dall’inizio del 2015 ad oggi la Germania ha accolto oltre 2 milioni di richiedenti asilo, prevalentemente da Siria, Iraq, Afghanistan e – più di recente – Ucraina. Molti hanno trovato lavoro (il tasso di occupazione dei rifugiati dopo 5 anni è superiore al 50%), altri dipendono ancora dai sussidi. Si evidenzia come la definizione di “successo” sia complessa: se “farcela” significava evitare il caos e integrare un numero storico di migranti, la Germania ci è riuscita senza dubbio – non ci sono stati collassi dei servizi né gravi problemi di sicurezza imputabili ai rifugiati. Tuttavia, rimangono sfide aperte: circa un terzo di coloro che arrivarono nel 2015 non ha ancora un impiego stabile; la conoscenza del tedesco tra le comunità rifugiate varia molto; si registrano casi di marginalità e delinquenza, su cui i detrattori della linea Merkel puntano per dire “non ce l’abbiamo fatta”. Zeit mette in luce soprattutto la dimensione sociale e identitaria: “che cosa significa noi?” – ovvero, la società tedesca si sente davvero inclusiva verso i nuovi arrivati? Molti tedeschi oggi nutrono dubbi: sondaggi mostrano una percezione diffusa che il Paese “abbia fatto troppo” e che la coesione interna sia a rischio. La famiglia yazida del servizio, ad esempio, vive con angoscia la possibilità – seppur remota – di un rimpatrio forzato e nota come alcuni vicini li guardino ancora con diffidenza. In conclusione, l’articolo suggerisce che “riuscire” non è un traguardo puntuale ma un processo continuo: la Germania del 2025 ha retto alla prova del 2015, ma la vera integrazione – fatta di accettazione reciproca, pari opportunità e partecipazione civica – è un cantiere ancora aperto. La domanda finale rimane: la Germania si sente davvero arricchita dai nuovi cittadini o li tollera solo a fatica? Su questo interrogativo, mezzo vuoto e mezzo pieno, si chiude la riflessione, invitando a non dare per scontato il “Wir” del famoso motto, ma a costruirlo giorno per giorno.
La Cina vuole un nuovo ordine mondiale – e l’Europa è senza piano
Chinas neue Weltordnung: Europa ist planlos
Süddeutsche Zeitung – 02.09.2025
La Süddeutsche Zeitung analizza con preoccupazione l’attivismo geopolitico della Cina, che sta radunando attorno a sé una rete di alleati potenti per plasmare un nuovo ordine mondiale alternativo a quello occidentale. Pechino – sottolinea l’articolo – lancia un messaggio chiaro: “l’Occidente ha fatto il suo tempo”. Nel mese di agosto, Xi Jinping ha ospitato in pompa magna a Pechino leader come Vladimir Putin e Kim Jong-un, schierandosi apertamente in un “fronte anti-occidentale” che unisce la superpotenza cinese alla Russia e alla Corea del Nord. Contemporaneamente, la Cina intensifica i rapporti con grandi economie emergenti: i BRICS si sono allargati (entreranno Paesi come l’Arabia Saudita e l’Iran), e anche l’India – tradizionale partner dell’Occidente – sta mostrando segnali di avvicinamento a Pechino, complice la diffidenza verso gli Stati Uniti di Donald Trump. Di fronte a queste manovre, l’Europa appare “senza un piano”. L’articolo evidenzia come le capitali europee siano divise su come reagire: alcune (come Berlino) hanno adottato una Strategia Nazionale Cina più prudente, riducendo la dipendenza economica da Pechino e denunciando le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang e a Hong Kong; altre (come Parigi) cercano di mantenere aperto il dialogo e le opportunità di business. Questa mancanza di una linea comune indebolisce l’influenza europea. Ad esempio, nota SZ, la Cina sta promuovendo istituzioni parallele (banche di sviluppo, forum diplomatici) in cui gli europei sono marginalizzati. Durante una recente conferenza sul “Nuovo Ordine Mondiale” organizzata a Shanghai, i rappresentanti UE sono stati poco più che spettatori, mentre Cina e alleati dettavano l’agenda su commercio e sicurezza in Asia e Africa. L’articolo critica l’“ingenuità” occidentale nel sottovalutare l’attrattiva del modello cinese per molti Paesi del Sud globale: investimenti infrastrutturali (Via della Seta), non ingerenza negli affari interni e un’alternativa al Washington Consensus fanno sì che numerose nazioni preferiscano guardare a Est. “L’Europa è senza bussola” conclude amaramente l’analisi: mentre Xi costruisce pazientemente una sfera di influenza che potrebbe riscrivere le regole internazionali (dalla governance di Internet alle rotte commerciali artiche), l’Unione Europea non ha una strategia assertiva. Viene evocata la necessità di una politica estera europea unitaria e più pragmatica: ad esempio, intensificare partnership con India, ASEAN e Africa su basi paritarie, per offrire un contrappeso credibile alla Cina. Finché però l’Europa rimane prigioniera delle proprie divisioni e illusioni, rischia di trovarsi “dalla parte sbagliata della storia”, spettatrice impotente di un nuovo ordine sinocentrico in formazione.
Parata militare a Pechino: Xi, Putin e Kim insieme – l’Occidente si defila
China feiert mit Kim und Putin Militärparade
Süddeutsche Zeitung – 03.09.2025
A Pechino si è tenuta la più imponente parata militare nella storia della Repubblica Popolare, organizzata per commemorare l’80º anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale in Asia. L’evento ha assunto un forte significato geopolitico per gli equilibri internazionali: tra gli ospiti d’onore sul palco accanto al presidente cinese Xi Jinping c’erano il leader russo Vladimir Putin e quello nordcoreano Kim Jong-un, in un simbolico “fronte comune” autocratico. Il quotidiano SZ evidenzia come, al contrario, gran parte dei diplomatici occidentali accreditati a Pechino abbiano boicottato la manifestazione, non presentandosi sul Viale Tiananmen il giorno della parata. La Cina ha alternato toni ufficiali di pace – Xi nel discorso ha solennemente invitato a “salvaguardare la pace mondiale” – a una dimostrazione concreta di potenza: hanno sfilato nuove unità corazzate, missili balistici intercontinentali e droni subacquei di ultima generazione, con l’evidente intento di impressionare e intimorire i paesi vicini e gli osservatori esteri. La presenza di Putin e Kim al fianco di Xi, con i tre leader sorridenti e allineati, è un messaggio di sfida verso l’Occidente: Pechino mostra che non è isolata, anzi guida un blocco di potenze nucleari antagoniste all’ordine liberale. L’assenza di rappresentanti occidentali – annota l’articolo – ha voluto anch’essa marcare una posizione: USA e alleati considerano questa parata “pura muscolatura militarista accompagnata da sorrisi gelidi dei despoti”, per citare un commento critico, e hanno scelto di non legittimarla con la loro presenza. In pratica, la commemorazione della fine della guerra si è trasformata in una “esibizione di forza” nel nuovo confronto Est-Ovest. Il reportage riferisce anche qualche retroscena: Putin – che raramente lascia la Russia da quando è ricercato dalla Corte dell’Aia – ha colto l’occasione per consolidare l’asse con Xi, discutendo di ulteriori forniture cinesi utili allo sforzo bellico russo in Ucraina. Kim, dal canto suo, ha potuto visionare da vicino l’arsenale cinese (si parla di trattative per ottenere tecnologie missilistiche avanzate da Pechino). L’articolo nota infine che questa ostentazione di unità potrebbe avere un effetto boomerang: ha chiarito agli occhi del mondo libero la saldatura tra i regimi di Cina, Russia e Nord Corea, rafforzando la determinazione di NATO e partner asiatici nel contenere questa triade. In definitiva, Pechino ha mandato “due messaggi”: uno di pace retorica, l’altro – ben più forte – di potenza militare e coesione autocratica. L’Occidente, disertando l’evento, ha risposto con un silenzio eloquente, segno di una contrapposizione ormai aperta.
L’India si avvicina alla Cina – e la colpa è (anche) di Trump
Indien nähert sich China an – und Donald Trump ist schuld daran
Süddeutsche Zeitung – 01.09.2025
Questa analisi della SZ esplora i motivi dell’attuale convergenza tra l’India di Narendra Modi e la Cina di Xi Jinping, individuandone una causa fondamentale in “gravi errori dell’Occidente nei confronti di Nuova Delhi”, in primis da parte dell’ex presidente USA Donald Trump. La scena simbolo è stato un mini-vertice a Tianjin: Modi si è incontrato con Xi e Putin a margine di un forum regionale, scambiando calorose gestualità che in passato sarebbero state impensabili data la storica diffidenza indo-cinese. Il commentatore David Pfeifer argomenta che questa “nuova intesa” è frutto sia del pragmatismo di Modi sia dell’incertezza indotta dall’America trumpiana. L’India è la più popolosa democrazia del mondo e fino a pochi anni fa era considerata un baluardo naturale contro l’espansione cinese in Asia. Tuttavia, durante la presidenza Trump (2017-2021) e poi con il suo ritorno nel 2025, Nuova Delhi si è sentita più volte tradita o sottovalutata dall’Occidente: Trump impose dazi anche all’India, pretese un allineamento totale contro l’Iran (colpendo l’approvvigionamento energetico indiano) e non diede mai pieno appoggio su questioni cruciali per la sicurezza indiana, come il confronto con il Pakistan. Inoltre, la gestione altalenante di Washington ha minato la fiducia nella stabilità dell’alleanza quad (USA-Giappone-India-Australia). Modi, abile stratega, ha quindi “esplorato opzioni oltre Washington”: ha intensificato i rapporti economici con la Cina – nonostante i conflitti di confine – e ha mantenuto stretti legami militari con la Russia (dalla quale l’India acquista la maggior parte degli armamenti). L’articolo sottolinea che l’Occidente ha commesso un “errore pesante” isolando diplomáticamente Modi per questioni di diritti umani e nazionalismo interno, senza offrire al contempo partnership vantaggiose. Così, mentre Biden prima e poi Trump non hanno dato priorità all’India, Xi ne ha approfittato stendendo tappeti rossi: investimenti cinesi in infrastrutture indiane, apertura sul BRICS e lusinghe su una “nuova governance globale” dove Nuova Delhi avrebbe più voce. Il risultato è un’India che oggi flirta con il blocco cinese-russo, non per amore ideologico ma per calcolo: Modi vuole massimizzare benefici da entrambi i lati. La conclusione di SZ è un monito all’Occidente: se l’India sta “abbracciando” (metaforicamente) Putin e Xi, gran parte della responsabilità è delle politiche occidentali miopi. Per recuperare l’India alla sfera democratica serve un cambio di rotta: trattarla da partner paritario, rispettarne le esigenze di sicurezza ed economia, ed evitare l’arroganza di dare per scontato il suo appoggio. Pena, lasciare che la più grande democrazia del mondo scivoli ulteriormente nell’orbita delle autocrazie – uno scenario che trasformerebbe in fiasco la strategia occidentale nell’Indo-Pacifico.
Crisi climatica oscurata dai conflitti: non esiste un “Pianeta B”
Klimakrise – Es gibt noch immer keinen »Planet B«
Der Spiegel – 30.08.2025
In questa colonna, l’editorialista Ullrich Fichtner richiama l’attenzione sul cambiamento climatico, lamentando come guerre e crisi geopolitiche lo abbiano ricacciato in secondo piano nel dibattito pubblico. Il titolo stesso – “Non c’è un pianeta B” – riprende uno slogan ambientalista per ricordare che, nonostante tutto, l’emergenza climatica resta irrisolta. Fichtner osserva che il 2025 è stato finora dominato da questioni come il conflitto in Ucraina, la guerra a Gaza e le tensioni con la Cina, lasciando “poco spazio alle discussioni sull’impronta di carbonio o sulle ananas volate in aereo” (metafora di consumi superflui). È “amaro”, scrive, vedere come i temi ecologici siano quasi spariti dall’agenda: i media e la politica parlano di riarmo, inflazione, migranti, mentre il riscaldamento globale – benché inarrestabile – fatica a trovare attenzione. Eppure, ricorda Spiegel, gli effetti della crisi climatica continuano a manifestarsi: l’estate 2025 è stata tra le più calde mai registrate in Europa, con siccità e incendi; eventi meteo estremi colpiscono con frequenza crescente diverse parti del mondo. Semplicemente, se ne parla meno. Fichtner identifica una “stanchezza” dell’opinione pubblica, accentuata dall’emergere di problemi più immediati percepiti come minacce esistenziali (la guerra nucleare, il terrorismo). Tuttavia, avverte che questo “raffreddamento dell’attenzione” è pericoloso: quando le guerre e le crisi attuali si placheranno – “una volta che guerre e crisi si saranno raffreddate”, scrive – la realtà della crisi climatica tornerà implacabile in primo piano. Nessuna vittoria militare o svolta politica potrà infatti eliminare la concentrazione di CO₂ dall’atmosfera o fermare l’innalzamento dei mari. L’autore cita l’assenza di un Piano B, un’alternativa tecnologica miracolosa o un secondo pianeta dove migrare: l’umanità è vincolata a questo pianeta e deve urgentemente correggere la rotta. Malgrado ciò, nota amaramente come anche in Germania il sostegno alle politiche green sia calato: il governo Scholz precedente è caduto anche per divisioni su misure climatiche impopolari (es. lo stop alle caldaie a gas). In conclusione, Fichtner invita a non aspettare che “le guerre finiscano per occuparci di clima”. La lotta al cambiamento climatico deve proseguire parallelamente, anche mentre affrontiamo altre emergenze. Ogni rinvio renderà il conto più salato: il “Pianeta A” è l’unico che abbiamo, e ignorarne i segnali oggi significa condannarci a crisi ben peggiori domani. Il monito è chiaro: la finestra per agire sul clima si sta chiudendo, e le distrazioni geopolitiche – per quanto pressanti – non devono distogliere l’attenzione dall’incombente catastrofe ecologica.
“Partito dei soldati”: la tentazione dell’AfD e l’allarme democratico
Rechte junge Männer: Die AfD versucht, sich als Partei der Soldaten zu profilieren
Der Tagesspiegel – 04.09.2025
In questo commento politico sul Tagesspiegel, Malte Lehming analizza un preoccupante fenomeno sociopolitico: l’AfD, partito della destra radicale, sta cercando attivamente di accreditarsi come “il partito dei soldati” e più in generale come riferimento per i giovani uomini di destra. La Bundeswehr si trova in una fase di espansione – il governo vuole aumentare la forza attiva da 180.000 a 260.000 unità entro il 2035 – e sta investendo in campagne di reclutamento rivolte specialmente ai ragazzi neodiplomati. Parallelamente, statistiche elettorali mostrano un marcato “gender gap” politico tra i giovani: nella fascia 18-24 anni, il 27% dei maschi ha votato AfD alle ultime elezioni, rendendola il primo partito tra i giovani uomini, mentre tra le coetanee il 35% ha scelto la sinistra (Linke). In altre parole, “i giovani uomini si spostano a destra, le giovani donne a sinistra”, creando terreno fertile per l’estremismo di genere. L’AfD sta capitalizzando su questa tendenza: molti suoi esponenti sono ex militari, e da tempo il partito chiede sia la reintroduzione della leva obbligatoria sia un forte aumento delle spese militari. Lehming ricorda che già negli anni della coscrizione (fino al 2011) si era notato un “effetto selezione”: i giovani con orientamenti di destra erano più propensi ad arruolarsi volontari, attratti da valori come disciplina, gerarchia e patria – valori che l’AfD esalta e che “si sposano con un’ideologia di estrema destra”. L’attuale necessità di ampliare rapidamente le fila della Bundeswehr potrebbe dunque, se non gestita con attenzione, aprire la porta a un reclutamento di elementi simpatizzanti dell’AfD o di idee estremiste, specie se – avverte l’articolo – “nel desiderio di irrobustire l’esercito si finisse col fare meno scrutinî sui candidati”. Si richiama il caso scandaloso delle forze speciali KSK nel 2020, sciolte e riformate dopo infiltrazioni neonaziste, come monito di ciò che può accadere se si abbassa la guardia. L’autore elogia il fatto che la Bundeswehr già oggi sottoponga le reclute a controlli di lealtà costituzionale e a formazione sui valori democratici. Tuttavia, sottolinea che la migliore difesa è “non chiudere gli occhi”: la politica deve essere “vigile” (citando “chi ora non sta attento, rischia di ritrovarsi eventi come nel 2020”). In conclusione, il commento sostiene che rafforzare l’esercito è necessario date le minacce attuali, ma dev’essere fatto senza “riempirlo di persone sbagliate”. Per questo, l’AfD va tenuta lontana dalle caserme: l’idea che il partito di estrema destra diventi rifugio privilegiato di aspiranti soldati è uno scenario pericoloso sia per la coesione interna delle forze armate sia per la democrazia tedesca. Il “partito dei soldati”, conclude Lehming con tono inquieto, non dovrebbe esistere – e tocca alla classe dirigente garantirlo, mantenendo saldi i principi costituzionali anche nell’urgenza di arruolare nuove leve.
3. Industria della difesa e questioni militari
Bilancio di difesa record: “assegno in bianco” per l’industria bellica?
Hohe Verteidigungsausgaben – Bartsch kritisiert Haushalt als »Freifahrtschein für Rüstungsindustrie«
Der Spiegel – 06.09.2025
La legge di bilancio 2025 e i piani finanziari del governo Merz dedicano risorse senza precedenti alla difesa, grazie anche alla sospensione del freno all’indebitamento per la spesa militare. Secondo l’opposizione di sinistra, però, questo è un “assegno in bianco per l’industria degli armamenti” a scapito del sociale. Il capogruppo della Linke Dietmar Bartsch ha criticato duramente la manovra definendo “koste es, was es wolle” (il principio del “whatever it takes”) applicato solo alla difesa ma non ad altri ambiti. In effetti, osserva Spiegel, mentre per il 2025 il bilancio prevede un forte aumento delle spese militari, contemporaneamente vengono “drasticamente tagliati” i fondi per aiuti umanitari e prevenzione delle crisi. Bartsch giudica tutto ciò “contrario a qualsiasi politica sociale”, accusando il governo CDU-SPD di abbandonare la vocazione socialdemocratica per abbracciare solo le esigenze di riarmo. L’articolo riporta poi l’analisi di Enzo Weber, economista del mercato del lavoro, che vede un boom duraturo nell’industria della difesa tedesca come conseguenza diretta di queste scelte. Grazie al massiccio programma di riarmo, i cui finanziamenti sono garantiti aggirando il freno al debito, il settore bellico nazionale sta vivendo un trend di crescita destinato a protrarsi per “molti anni”. Uno studio citato indica che, se la Germania aumentasse la spesa militare dal 2% al 3% del PIL finanziandola a debito, si creerebbero fino a 200.000 nuovi posti di lavoro nel comparto. Già negli ultimi due anni, nota Spiegel, l’occupazione nell’industria degli armamenti è salita nettamente, in controtendenza rispetto al calo di posti nell’industria civile. Un esempio emblematico: Rheinmetall, principale gruppo bellico tedesco, ha visto le candidature annue triplicare tra il 2021 e il 2024 (da 59 mila a 175 mila domande). Il governo giustifica questa svolta come necessaria per colmare i ritardi di equipaggiamento della Bundeswehr di fronte alle nuove minacce (Russia in primis), ma Bartsch solleva dubbi anche di trasparenza: definisce la gestione finanziaria del ministro SPD Lars Klingbeil “un labirinto finanziario”, tra nuovo debito e fondi speciali poco chiari. Inoltre, accusa i parlamentari di maggioranza di essersi limitati a ratificare la volontà dell’esecutivo senza esercitare un vero controllo. La Linke annuncia un “autunno caldo” di proteste contro quello che vede come un approccio sbilanciato: miliardi per armi e esercito, mentre si stringe la cinghia sul welfare. In sintesi, l’articolo dipinge un quadro contrastante: da un lato la difesa tedesca vive una svolta epocale, con fondi enormi che promettono crescita industriale e occupazionale nel settore bellico; dall’altro questa scelta politica suscita critiche per l’iniquità percepita (altri settori pubblici soffrono tagli) e per il rischio di consegnare carta bianca ai colossi delle armi. Il dibattito tra chi parla di necessario “Zeitwende” (svolta storica) e chi denuncia un “freifahrtschein” (lasciapassare) per i fabbricanti d’armi è destinato a proseguire acceso.
Leva militare anche per le donne? La Germania guarda al modello svedese
Schweden als Vorbild für Wehrpflicht: Frauen an die Waffe!
Frankfurter Allgemeine Zeitung – 31.08.2025
Nel contesto di dibattiti sulla possibile reintroduzione della leva obbligatoria in Germania, un commento della FAZ argomenta provocatoriamente che questa, se ripristinata, dovrebbe valere anche per le donne – seguendo l’esempio della Svezia. L’articolo parte da una constatazione: nelle scorse settimane, figure di spicco come il cancelliere Friedrich Merz hanno aperto alla discussione sul servizio di leva, ammettendo che il modello puramente volontario potrebbe non bastare più a colmare le file della Bundeswehr. Tuttavia, la proposta al momento rimane limitata ai giovani uomini, a causa del vincolo costituzionale (Art. 12a GG) che oggi esenta le donne dal servizio armato. L’editorialista Thomas Jansen definisce tale distinzione un retaggio di “immagini di genere superate” e invita esplicitamente a superarla. La Svezia viene citata come modello: Stoccolma ha reintrodotto nel 2018 una forma di leva universale, in cui ragazzi e ragazze diciottenni sono ugualmente soggetti a leva selettiva. Ciò, secondo l’articolo, ha rafforzato le forze armate svedesi senza discriminazioni. In Germania, il Ministero della Difesa inizialmente ha liquidato la questione ricordando l’ostacolo costituzionale – “la Legge Fondamentale lo vieta” – ma per Jansen questo non è un argomento definitivo, bensì un problema tecnico da affrontare. Se si prende sul serio la parità di genere, sostiene, “non si può essere contrari a una leva che coinvolga uomini e donne”. In pratica, l’autore suggerisce due strade: nel breve termine, almeno introdurre la chiamata di leva per le ragazze (la Musterung, visita di leva) come per i ragazzi, in modo da prepararsi logisticamente; in prospettiva, avviare la riforma costituzionale necessaria con la prossima legislatura. Riconosce che modificare l’Art. 12a richiederebbe una maggioranza dei due terzi, attualmente impossibile senza coinvolgere partiti come Linke o AfD – condizione politicamente impraticabile. Ma insiste che ciò non deve essere un alibi per non pensarci neppure: la pianificazione militare dovrebbe fin d’ora “includere lo scenario di una leva femminile”, così da non farsi trovare impreparati se la situazione strategica peggiorasse. L’articolo sottolinea in conclusione che l’uguaglianza oggi significa anche uguaglianza nei doveri civici: se davvero “siamo tutti uguali”, allora in caso di grave emergenza difensiva il peso non può ricadere solo sui maschi. Preparare la Bundeswehr ad accogliere le donne coscritte – conclude Jansen – sarebbe un segnale di modernità e di serietà: “non deve risuccedere che la difesa del paese ci colga impreparati”. Il commento, consapevolmente provocatorio, ha alimentato la discussione pubblica: in Parlamento le opinioni restano divise, ma cresce la sensazione che la tradizionale esclusione delle donne dal servizio militare obbligatorio possa diventare sempre meno giustificabile in futuro.
Difesa europea: un affare colossale da 335 miliardi l’anno – e la Germania accelera
Bis zu 335 Milliarden Euro pro Jahr: Europas Rüstung wird zum Riesengeschäft
Der Tagesspiegel – 03.09.2025
Secondo uno studio di McKinsey citato dal Tagesspiegel, la decisa svolta verso il riarmo dei paesi NATO farà quasi raddoppiare le spese militari europee entro il 2030, trasformando l’industria della difesa in un volano economico di dimensioni senza precedenti. Si stima che gli investimenti annuali europei in nuovi armamenti, droni e software bellico passeranno dagli attuali 140 miliardi di euro a 335 miliardi nel 2030. Questa cifra – 335 miliardi l’anno – rappresenta il fulcro del “Riesengeschäft” (affare gigantesco) menzionato nel titolo. La spinta principale deriva dall’impegno dei paesi NATO ad aumentare progressivamente il budget difesa fino al 3,5% del PIL entro il 2035. La Germania, evidenzia l’articolo, sta fungendo da motore di questa crescita: secondo la pianificazione finanziaria presentata dal ministro delle Finanze Lars Klingbeil (SPD), Berlino raggiungerà il target del 3,5% già nel 2029, arrivando a stanziare ben 153 miliardi di euro annui per la difesa (ai quali si aggiungono circa 9 miliardi l’anno di aiuti militari all’Ucraina). Per fare un paragone, nel 2021 la Germania spendeva circa 50 miliardi (1,5% del PIL); l’incremento previsto è dunque enorme. Questo balzo di investimenti bellici – nota il Tagesspiegel – sta innescando un vero e proprio “cambiamento strutturale” nelle economie europee: l’industria della difesa torna ad essere un settore trainante, una “colonna portante della produzione industriale”, dopo oltre trent’anni di declino post-Guerra Fredda. Molte aziende, anche insospettabili, si stanno riconvertendo o espandendo verso la produzione militare per sfruttare l’onda di commesse pubbliche. Un esempio: il colosso Siemens Energy ha appena ottenuto un contratto miliardario per un hub elettrico nel Baltico legato a infrastrutture NATO (Bornholm, vedi sezione economica). Il pezzo del Tagesspiegel sottolinea anche gli effetti macroeconomici: i 27 paesi UE aumenteranno la spesa militare totale nel 2025 a 381 miliardi (dai 343 del 2024), di cui un terzo destinato ad investimenti in armamenti – la percentuale più alta di sempre, segno di quanti nuovi sistemi d’arma si stanno ordinando. Questo sostegno pubblico massiccio sta alimentando un boom di ordini per le aziende: i dirigenti di gruppi come Rheinmetall, Airbus Defence, MBDA riferiscono di portafogli ordini in crescita ben più veloce della capacità produttiva, tanto che la produzione fatica a tenere il passo. La Germania ha appena inaugurato nuovi impianti (ad esempio uno stabilimento Rheinmetall in Bassa Sassonia per munizioni avanzate, aperto con la presenza di Pistorius e Klingbeil). Il ministro Pistorius ha dichiarato che, nonostante le difficoltà di bilancio futuro, “farà in modo che i soldi per la sicurezza ci siano”, rimarcando la priorità politica data al riarmo. Insomma, la “Zeitenwende” (svolta epocale) annunciata da Scholz nel 2022 sta diventando realtà economica nel 2025: in Europa si assiste ad un riarmo accelerato che ridisegna non solo le strategie militari ma anche l’apparato produttivo. L’articolo conclude mettendo in guardia su una criticità: la spesa cresce più rapidamente della produzione – “gli ordini aumentano quasi il doppio più veloce della capacità produttiva” – ciò significa che l’industria dovrà adeguarsi in fretta per evitare colli di bottiglia. Ma in generale il tono è chiaro: l’Europa della difesa vive un boom senza precedenti, trascinato dalla Germania, e questa prospettiva di lungo termine (fino al 2035 almeno) sta attirando capitali e investimenti come mai prima. La “fabbrica delle armi” europea è destinata a diventare nei prossimi anni un pilastro dell’economia continentale.
Industria bellica tedesca in ascesa: boom di investimenti e manodopera
Hohe Verteidigungsausgaben: Bartsch kritisiert Haushalt als »Freifahrtschein für Rüstungsindustrie« Der Spiegel, 6 settembre 2025.
Il deputato della Linke Dietmar Bartsch ha definito il bilancio federale tedesco un “lasciapassare per l’industria della difesa”, accusando la coalizione di governo di concentrare le risorse sulla spesa militare a scapito del sociale, della cooperazione internazionale e della prevenzione delle crisi. Secondo Bartsch, l’approccio del governo si traduce in un’applicazione selettiva del principio “whatever it takes”, valido soltanto per il riarmo. A rafforzare il dibattito è intervenuto l’economista del lavoro Enzo Weber (IAB), secondo cui la spesa straordinaria per la difesa garantirà un’espansione prolungata del comparto, con la prospettiva di fino a 200.000 nuovi posti di lavoro in caso di aumento delle spese dal 2 al 3% del PIL. La tendenza è già visibile: mentre la maggior parte dell’industria tedesca registra cali occupazionali, il settore militare cresce con nuove assunzioni e un forte incremento delle candidature, come dimostra l’esempio Rheinmetall. Bartsch ha inoltre criticato la gestione finanziaria della coalizione, definendola un “labirinto” fatto di nuovo debito e fondi speciali scarsamente trasparenti. Ha infine annunciato che la Linke contrasterà il cosiddetto “autunno delle riforme” della maggioranza con un “autunno caldo” di opposizione politica.
Procure segrete della Bundeswehr: caccia a nuovi jet, blindati hi-tech e sorveglianza AI
Rüstung: Das steht auf der geheimen Einkaufsliste der Bundeswehr
Handelsblatt – 05.09.2025
Il quotidiano economico Handelsblatt ha avuto accesso a un documento interno del Ministero della Difesa che elenca le principali acquisizioni militari programmate dalla Bundeswehr non appena il bilancio statale 2025 verrà approvato in via definitiva a settembre. Questa “lista della spesa segreta” rivela le priorità di ammodernamento delle forze armate tedesche, delineando investimenti di altissimo profilo: innanzitutto, spicca una nuova tranche di caccia Eurofighter da ordinare, che andrebbe ad aggiungersi ai 38 Typhoon già acquistati nel 2020 (Project Quadriga) e ai 35 F-35 americani decisi nel 2022. L’obiettivo è rimpiazzare completamente entro fine decennio la flotta di Tornado e portare il numero totale di Eurofighter ben oltre i 140 esemplari. In secondo luogo, la Bundeswehr punta a incrementare le forze terrestri con nuovi blindati ruotati Boxer e veicoli da combattimento Puma in versione aggiornata: il documento parla di un terzo lotto di circa 100 Puma aggiuntivi, versione AIFV migliorata, dopo la risoluzione dei problemi tecnici che ne avevano afflitto l’entrata in servizio. I Boxer 8x8, fondamentali per le brigate medie, verrebbero acquistati in diverse varianti (trasporto truppe, ambulanza, centro comando) per rafforzare la presenza NATO sul fianco est. Un’altra voce intrigante è l’investimento in un sistema di sorveglianza basato sull’intelligenza artificiale per il monitoraggio di ampi spazi: si tratterebbe, secondo indiscrezioni, di una rete integrata di droni a lungo raggio e sensori fissi/ satellitari governati da algoritmi di AI per controllare confini e aree critiche (come il Baltico o il cielo sopra gli Stati baltici). Questo sistema, concepito in collaborazione con startup hi-tech tedesche, consentirebbe di rilevare intrusioni o movimenti sospetti in tempo reale su vaste zone, colmando le attuali lacune di sorveglianza continua. Infine, nella lista compaiono risorse per potenziare la difesa aerea: è citata implicitamente una componente “FlaRak” (fliegerabwehrraketen) di nuova generazione – potrebbe riferirsi all’acquisto del sistema israeliano Arrow-3 (già concordato nel 2023 ma in consegna proprio nel 2025 per 3,6 miliardi) e all’implementazione di radar AESA avanzati. La fuga di notizie ha suscitato dibattito: da un lato conferma che la Zeitenwende non è solo slogan ma concreta strategia di riarmo su larga scala, dall’altro pone interrogativi sulla trasparenza. La Linke ha protestato: “ora sappiamo perché il governo rifiutava tagli altrove – ha le mani bucate per i giocattoli da guerra”. Il ministero non ha commentato ufficialmente, ma fonti beninformate affermano che la “lista segreta” non è altro che una pianificazione prudenziale: molte voci dovranno passare al vaglio del Parlamento nelle commissioni competenti. Di certo, l’articolo rimarca come a beneficiare di questi programmi saranno i giganti industriali: Airbus (per gli Eurofighter), Rheinmetall-KMW (per Puma e Boxer), start-up come Hensoldt Analytics o ISL (per la sorveglianza AI). Il totale degli acquisti elencati ammonta a svariati miliardi e rappresenta, di fatto, il completamento di quel salto di qualità che la Bundeswehr insegue da anni. Handelsblatt osserva con un velo di ironia che chiamarla “lista segreta” è ormai improprio: grazie alle rivelazioni, ora “non è più segreta”. Resta da vedere come reagiranno i partner NATO: l’ordine di ulteriori Eurofighter e la ritrovata centralità industriale della Germania in ambito difesa potrebbero infatti riaccendere sensibilità in Francia (dove si teme una concorrenza interna sul progetto FCAS) o negli USA (attenti a non perdere quote di mercato a favore dell’industria europea). Per ora, comunque, la Bundeswehr sembra decisa a fare shopping per colmare le sue lacune – e la “geheime Einkaufsliste” offre uno sguardo raro dietro le quinte di queste decisioni.
Acquisto senza gara: la Bundeswehr ordina 23 carri “Büffel” da Rheinmetall
Bundeswehr bestellt neue Bergepanzer „Büffel“ bei Rheinmetall – ohne förmliches Vergabeverfahren
Handelsblatt – 05.09.2025
Per accelerare il potenziamento dei mezzi corazzati di supporto, la Bundeswehr ha deciso un acquisto diretto di 23 carri recupero Büffel (Bergepanzer 3) presso Rheinmetall, rinunciando a una gara d’appalto formale. La notizia, riportata dall’Handelsblatt, ha suscitato sorpresa e qualche polemica nell’industria: la concorrente FFG (Flensburger Fahrzeugbau Gesellschaft), produttrice del carro recupero Wisent 2, ha protestato per la mancanza di un confronto concorrenziale, parlando di “favoritismo verso Rheinmetall”. Il ministero della Difesa si difende citando “ragioni di urgenza e interoperabilità”: i Büffel scelti sono basati su scafo Leopard 2, già in dotazione, e serviranno a rimpiazzare/integrare i vecchi carri recupero attualmente insuffici enti per le brigate corazzate. Avviare una gara avrebbe richiesto molti mesi, mentre c’è necessità immediata in vista delle esercitazioni NATO del 2026 e del dispiegamento permanente in Lituania. Handelsblatt rivela che il valore della commessa è stimato attorno ai 300 milioni di euro. Con questa fornitura (prevista entro il 2027) la Bundeswehr avrà circa 80 Büffel in totale, avvicinandosi al fabbisogno standard per supportare la flotta Leopard 2 in espansione. La scelta di procedura negoziata senza bando è stata possibile appellandosi alle clausole di eccezione per la sicurezza nazionale – non è la prima volta: già negli scorsi mesi, di fronte all’aggressione russa, il governo ha accelerato acquisizioni di missili e munizioni senza gara. FFG, esclusa, lamenta tuttavia che aveva presentato informalmente un’offerta competitiva per i suoi Wisent 2 (carri recupero moderni su scafo Leopard 2, simili ai Büffel) ma di non aver ricevuto risposta. La vicenda riflette uno scontro “David vs Golia”: FFG, piccola società privata, contro il colosso Rheinmetall, tradizionale partner del ministero. In Parlamento i liberali dell’FDP e la sinistra hanno chiesto chiarimenti: temono che bypassare le gare possa penalizzare l’innovazione e far lievitare i costi. Il ministero risponde che Rheinmetall è l’unica in grado di garantire in tempi brevi la produzione e che il Büffel, già collaudato, minimizza i rischi tecnici. Sullo sfondo – nota Handelsblatt – c’è la pressione del Parlamento stesso: dopo i ritardi e scandali su vari progetti (come il Puma), i deputati hanno incalzato la Difesa a “non perdere tempo” nell’equipaggiamento. Il capo di Stato Maggiore Carsten Breuer avrebbe egli stesso sollecitato di “prendere i Büffel subito”, per evitare che in missioni reali i Leopard 2 rimangano immobilizzati per mancanza di mezzi di recupero adeguati. Dunque, il contratto con Rheinmetall è partito: i 23 “Büffel” aggiuntivi saranno costruiti nell’impianto di Unterlüß in Bassa Sassonia (lo stesso inaugurato da poco per la produzione di munizioni) e cominceranno ad essere consegnati entro 18 mesi. FFG, dal canto suo, ha annunciato che valuterà un ricorso legale e intanto cercherà mercati esteri per il suo prodotto. Il commento conclusivo nell’articolo è pragmatico: “nel contesto attuale, la velocità viene prima della concorrenza”. È una scelta controversa ma in linea con la nuova dottrina tedesca di riarmo accelerato: privilegiare soluzioni immediate anche a costo di sacrificare le procedure standard. Resta da vedere se questa diventerà la norma e se il settore difesa finirà dominato ancor più dai grandi gruppi storici, con i più piccoli relegati ai margini.
Startup di Monaco entra nella difesa: camion militari a guida remota e 18 milioni di investimenti
Münchener Start-up Fernride steigt ins Verteidigungsgeschäft ein
Handelsblatt – 04.09.2025
La giovane azienda Fernride di Monaco, finora nota per lo sviluppo di camion autonomi per la logistica civile, ha deciso di entrare nel settore della difesa, testando i suoi veicoli a guida da remoto per le esigenze dell’esercito tedesco. Come riportato dal Handelsblatt, Fernride sta già collaborando con la Bundeswehr sperimentando camion senza conducente per il trasporto di materiali nelle basi, e ha appena raccolto ulteriori 18 milioni di euro da investitori per espandere questo nuovo ramo di attività. La particolarità dei camion Fernride è la tecnologia di “human-assisted autonomy”: i mezzi sono dotati di guida autonoma avanzata ma possono essere controllati a distanza da operatori umani (i teleoperatori) in caso di situazioni critiche. Questa architettura ibrida – spiega il CEO Hendrik Kramer in un’intervista – garantisce affidabilità in scenari complessi come quelli militari: i veicoli possono muoversi da soli in convogli, ma se ad esempio si trovano davanti a un ostacolo inatteso o sotto minaccia, un operatore remoto può prendere il controllo immediato. L’obiettivo strategico è “automatizzare i compiti pericolosi e ripetitivi affinché non debbano più essere svolti da soldati in carne e ossa”, afferma Kramer. L’idea ha suscitato grande interesse nel Ministero della Difesa tedesco: in prospettiva, poter disporre di camion senza equipaggio per il trasporto di munizioni, carburante o viveri nelle zone di guerra ridurrebbe l’esposizione del personale e aumenterebbe la resilienza logistica. Fernride ha già conseguito nel luglio 2025 una prima certificazione di sicurezza (TÜV) per i suoi trattori autonomi portuali, diventando la prima azienda europea con un mezzo pesante a guida autonoma certificato sicuro per operare senza pilota a bordo. Questo traguardo – rileva Handelsblatt – conferisce credibilità alla sua offerta anche in ambito militare. Il finanziamento di 18 milioni appena ottenuto estende il Series A di Fernride a complessivi 75 milioni di euro, segno della fiducia degli investitori nel potenziale dual-use (civile e militare) della tecnologia. La domanda di soluzioni logistiche autonome è sostenuta anche dalla carenza cronica di autisti di mezzi pesanti sia nelle aziende che nelle forze armate. Inoltre, Fernride sottolinea un aspetto tattico: “i camion sono bersagli primari per i droni nemici, diventa pericoloso guidarli in certe aree”, spiega Kramer. E aggiunge: “In caso di conflitto su vasta scala, l’Europa dovrebbe raddoppiare la capacità logistica ma non abbiamo abbastanza persone disposte o in grado di farlo”. Da qui la necessità di automatizzare. La Bundeswehr sta per la prima volta partecipando a esercitazioni con questi sistemi: ad esempio, nel quadro di Quadriga 2025 è previsto l’impiego dimostrativo di un convoglio di autocarri Fernride per rifornire un’unità avanzata simulata, con successo finora. Il finanziamento ricevuto servirà a Fernride per assumere specialisti e adattare ulteriormente i suoi veicoli alle specifiche militari (protezioni anti-jamming, integrazione in reti di comando, mimetizzazione). Il Handelsblatt fa notare come Fernride sia una delle poche startup tedesche che, sull’onda della Zeitenwende, stanno ricevendo sostegno anche dal governo: il Fondo Innovazione della Difesa (creato nel 2022) vede di buon occhio progetti come questo, e potrebbe contribuire a future tranche di investimento. In definitiva, l’ingresso di Fernride segna un esempio di “contaminazione virtuosa” tra industria tech civile e bisogni di difesa: un caso in cui una tecnologia nata per rendere più efficienti i terminal container trova un’applicazione nel rendere più sicure ed efficaci le linee di rifornimento militari. Se avrà successo, si aprirà un nuovo mercato in cui l’industria tedesca dell’auto, in crisi sul versante consumer, potrebbe reinventarsi come fornitore di veicoli autonomi per la sicurezza nazionale.
"Specchio della società": più casi sospetti di estremismo di destra nella Bundeswehr
„Spiegelbild der Gesellschaft“: Mehr Verdachtsfälle auf Rechtsextremismus bei der Bundeswehr – DIE ZEIT, 2 settembre 2025.
Il rapporto annuale del Ministero della Difesa tedesco registra nel 2024 un numero stabile di casi di sospetto estremismo all’interno della Bundeswehr, con 302 nuovi episodi, leggermente meno rispetto all’anno precedente. La gran parte di questi casi, pari a 216, riguarda l’estremismo di destra, che rappresenta i tre quarti del totale complessivo dei sospetti (875 su 1159). Il Militärischer Abschirmdienst (MAD), responsabile della sicurezza interna delle forze armate, ha inoltre segnalato 11 nuovi casi di estremismo di sinistra, 33 legati all’islamismo, 31 riconducibili a estremismo connesso a contesti esteri e un episodio collegato a Scientology. Sono stati inoltre registrati cinque casi riferiti al fenomeno dei Reichsbürger. Nel corso dell’anno 18 persone sono state ufficialmente classificate come estremisti, quattro in più rispetto al 2023. Le cause dell’aumento vengono attribuite a fattori politici, conflitti internazionali e crisi globali, che acuiscono le divisioni sociali. La Bundeswehr, definita dallo stesso rapporto “specchio della società”, rifletterebbe tali tensioni con una crescente esposizione a comportamenti radicali. Tra i casi analizzati dal MAD figurano episodi legati al conflitto in Medio Oriente, alla guerra in Ucraina e al cosiddetto “video di Sylt”, in cui erano emerse manifestazioni pubbliche di razzismo. Il rapporto segnala anche una maggiore sensibilità interna e un aumento delle segnalazioni provenienti dal personale militare.
Esercitazione militare: la Bundeswehr si prepara all’emergenza – “Siamo messi alla prova”
Militärübung: Bundeswehr übt für den Ernstfall – „Wir werden getestet“ – DIE ZEIT, 4 settembre 2025.
A Rostock-Warnemünde, sotto il sole estivo, la Bundeswehr ha dato dimostrazione di capacità operative nel quadro delle manovre “Quadriga 2025”, focalizzate sul trasporto navale, la protezione delle rotte marittime e la difesa delle infrastrutture critiche. L’esercitazione ha coinvolto più componenti delle forze armate e reparti di polizia, con la presenza di autorità politiche, militari e diplomatiche. Il generale Carsten Breuer ha ribadito che la missione è difendere “ogni centimetro quadrato del territorio dell’Alleanza”, con particolare attenzione al fianco orientale della NATO. La dimostrazione ha incluso l’impiego di Eurofighter per la sicurezza aerea e la simulazione di attacchi con droni. Cuore dell’attività è stato il trasporto di veicoli pesanti verso la Lituania sul cargo “Ark Germania”, scortato dalla polizia marittima e dalla fregata “Bayern” in un contesto di minaccia simulata. L’operazione rientra nella costruzione progressiva della Brigata 45 in Lituania, che entro il 2027 disporrà di circa 5.000 soldati. Complessivamente, due navi hanno garantito sei rotazioni, trasferendo oltre 1.100 mezzi. Il contrammiraglio Christian Kaack ha sottolineato l’aumento di episodi sospetti di sabotaggio e danni alle infrastrutture nel Baltico, interpretati come test della resistenza non solo della Marina, ma della società e dell’Alleanza stessa. Le esercitazioni, con 8.000 militari di 14 paesi NATO, si svolgono tra agosto e settembre e riflettono la crescente tensione nella regione. Rostock, divenuta centro nevralgico della Marina dal 2012, ospita oggi circa 1.800 militari e 300 civili, consolidando il proprio ruolo strategico con l’inclusione della storica Warnowwerft come base di manutenzione navale.
Armi tedesche da Israele: la cooperazione nascosta e la corsa al riarmo
Rüstungshandel mit Israel: Geben und noch mehr nehmen
die tageszeitung – 03.09.2025
Nel dibattito politico in Germania sulla linea da tenere verso Israele – in particolare riguardo alla guerra a Gaza del 2024/25 – si parla molto delle armi tedesche inviate a Israele, ma quasi per nulla delle numerose armi israeliane comprate dalla Germania. Un’inchiesta della taz porta alla luce questa dimensione spesso trascurata: la Bundeswehr è diventata uno dei principali acquirenti di tecnologia militare israeliana. Negli ultimi anni, la cooperazione bellica tra i due paesi si è notevolmente intensificata. Alcuni esempi: a maggio 2025 l’aeronautica tedesca ha ricevuto i primi componenti del sistema anti-missile Arrow-3 acquistato da Israel Aerospace Industries (IAI) per 3,6 miliardi di euro; nel 2024 è stato consegnato il primo drone armato Heron TP sviluppato in Israele su specifiche tedesche (un velivolo senza pilota per ricognizione e attacco, frutto di un programma congiunto con IAI). Inoltre, a fine 2024 ingegneri israeliani di Rafael hanno installato sensori e sistemi di protezione attiva di loro produzione su carri armati Leopard 2 dell’esercito tedesco – celebrazioni ufficiali hanno evidenziato come “la cooperazione tra due nazioni” abbia reso i Leopard più letali e protetti. A fine agosto 2025, mentre il cancelliere Merz sospendeva parte delle forniture tedesche di armi a Israele (quelle potenzialmente usabili a Gaza) per ragioni umanitarie, trapelava la notizia che l’azienda israeliana Elbit Systems aveva firmato tramite Airbus un contratto da 260 milioni di dollari per fornire razzi avanzati all’aeronautica tedesca. L’articolo evidenzia come le industrie dei due paesi siano ormai strettamente intrecciate: “non solo la Germania arma Israele, ma anche Israele arma la Germania”. E ciò avviene nonostante lo stesso governo tedesco abbia criticato duramente alcune scelte israeliane (il blocco di Gaza, l’uso eccessivo della forza). “Affari sono affari”: la necessità tedesca di colmare i gap militari rapidamente dopo il 2022 ha portato a rivolgersi a fornitori con prodotti collaudati e disponibili, e Israele – con la sua avanzata industria bellica – era partner ideale. La taz sottolinea però il rovescio della medaglia: questa cooperazione economica indirettamente finanzia la guerra israeliana. Ad esempio, Germania ed altri paesi europei nel 2024 sono diventati i maggiori importatori di armamenti israeliani (quasi il 50% dell’export bellico di Tel Aviv va ora in UE). Ciò ha permesso alle aziende israeliane di prosperare nonostante il conflitto in corso. Nel frattempo grandi aziende tedesche – come Renk di Augsburg, produttrice di trasmissioni per carri – pur di continuare a vendere a Israele i loro componenti sotto embargo, hanno trasferito parte della produzione negli USA, eludendo così la sospensione delle esportazioni tedesche decisa da Merz per Gaza. Il reportage cita anche un recente rapporto dell’ONU (a firma della relatrice Francesca Albanese) che denuncia come molti attori economici internazionali – tra cui imprese tedesche – traggano profitto dall’economia di guerra israeliana alimentando il conflitto, e come addirittura colossi finanziari tedeschi (Deutsche Bank, Allianz/Pimco) abbiano investito in bond di guerra israeliani da 19,4 miliardi di dollari nel 2023-25. Questo getta un’ombra morale sugli intrecci economici. La taz conclude evidenziando l’ipocrisia di fondo: mentre ufficialmente Berlino chiede la fine delle ostilità e in minima parte sospende invii di armi a Israele, dietro le quinte continua (e aumenta) ad acquistare armi e tecnologie israeliane – dai droni agli spyware (il testo ricorda che già nel 2020 la polizia tedesca aveva ammesso di usare il famigerato software spia Pegasus, di fabbricazione israeliana). In sostanza, Germania e Israele sono così interdipendenti nel settore difesa che le vicende di Gaza non arrestano il flusso di materiali bellici, solo lo modulano diversamente. Un quadro complesso dove “dare e prendere” (come recita il titolo originale) sono le due facce della medaglia: la Germania arma Israele e al contempo arma se stessa con tecnologie israeliane, in un circolo che – conclude amaramente l’articolo – rende ancor più difficile per Berlino assumere un ruolo di mediatore neutrale nel conflitto mediorientale.
Politica interna e questioni sociali
Giovani SPD vs giovani CDU: scintille sullo stato sociale
»Sozialstaat verteidigen« – »Sozialstaat kürzen«: Jusos und JU wollen mehr Kante gegenüber Koalitionspartner
Der Spiegel – 06.09.2025
Nella grande coalizione tra Unione (CDU/CSU) e SPD, i rispettivi movimenti giovanili stanno alzando i toni chiedendo ai loro partiti di marcare maggiormente le differenze politiche. Secondo lo Spiegel, i leader della Jusos (giovani socialdemocratici) e della Junge Union (giovani del blocco cristiano-democratico) hanno entrambi criticato i propri vertici per l’eccessiva condiscendenza verso il partner di governo. In particolare, sul tema caldo del welfare: i giovani SPD accusano la CDU di voler smantellare il modello sociale, mentre i giovani CDU rimproverano all’SPD di bloccare riforme necessarie con troppa spesa assistenziale. “Difendere lo stato sociale vs tagliare lo stato sociale”, titola emblematicamente il magazine. Nel dettaglio, il presidente dei Jusos, Philipp Türmer, ha dichiarato che l’SPD deve “mostrare più spina dorsale” in coalizione, impedendo ulteriori stretti sulle pensioni e sul Bürgergeld voluti dalla controparte conservatrice. Türmer sostiene che la base SPD è frustrata nel vedere il proprio partito cedere su aumenti di tasse per i ricchi o sul potenziamento dei servizi pubblici: “così regaliamo giovani elettori alla sinistra radicale”, avverte. Dall’altro lato, il leader della Junge Union, Johannes Winkel, chiede alla CDU/CSU di non “diluire la propria identità” e di spingere con più forza su riduzione delle spese e incentivi al mercato: “meno stato sociale, più responsabilità individuale” è il mantra dei giovani dell’Unione. Winkel critica apertamente il cancelliere Merz per essere troppo accomodante con gli alleati SPD: “dobbiamo distinguerci o l’AfD diventerà l’unica voce di destra”, afferma. Colpisce che su una cosa Jusos e JU sembrino d’accordo: entrambe le organizzazioni giovanili, pur da posizioni opposte, lamentano la staticità del compromesso di coalizione. Vogliono confronto aperto (“Kante zeigen” – mostrare gli spigoli) anche a costo di attriti. Per esempio, i Jusos sollecitano l’SPD a insistere con una patrimoniale e un salario minimo più alto, misure finora frenate dalla CDU; la Junge Union sprona Merz a riproporre l’aumento dell’età pensionabile e tagli alle aliquote fiscali, contro il veto SPD. Lo Spiegel osserva che queste tensioni generazionali riflettono l’insofferenza di molti giovani politici verso la Grosse Koalition, percepita come un amalgama che penalizza la chiarezza programmatica. Entrambi i partiti tradizionali rischiano di perdere consenso giovanile: l’SPD verso la Linke o i Verdi, l’Unione verso l’AfD o l’astensione. Non a caso, nello stesso numero, Spiegel cita un sondaggio tra under-30: la Linke è il primo partito (26%) tra i giovani, l’AfD seconda (21%), mentre SPD e CDU inseguono distanziate. I giovani attivisti chiedono quindi ai rispettivi leader di “alzare la voce” per riconquistare la loro generazione. La reazione dei vertici di partito è stata finora prudente: Klingbeil (SPD) e Frei (CDU, capo Cancelleria) hanno convenuto sulla necessità di “comunicare meglio le divergenze senza mettere a rischio la stabilità”. Intanto, però, le frizioni trapelano persino sul linguaggio: in un comitato di coalizione, Merz avrebbe scherzato sul termine “Bullshit” usato da Bas, dicendo “gioventù SPD scatenata, eh”, a cui un ministro SPD avrebbe replicato menzionando i “giovani leoni” della JU. Insomma, il malcontento giovanile è noto a tutti. La questione è se i partiti riusciranno a incanalarlo costruttivamente: alcuni prevedono che già nelle elezioni comunali del 14 settembre in NRW (Nordreno-Westfalia) – citate nell’articolo – si misurerà se la base punirà o meno la troppa armonia. In sintesi, la generazione emergente SPD vuole “difendere lo stato sociale” da tagli e austerità, quella CDU “difendere l’economia” da troppe spese e tasse: entrambe chiedono identità forte. Resta da vedere se la Große Koalition potrà accontentarle senza implodere.
Fiducia nello Stato ai minimi storici: solo il 17% degli orientali ci crede
Nur rund 17 Prozent der Ostdeutschen haben Vertrauen in den Staat
Der Spiegel – 04.09.2025
Un nuovo sondaggio condotto dall’Unione dei Dipendenti Pubblici tedeschi (dbb) dipinge un quadro allarmante: la fiducia dei cittadini nella capacità dello Stato di svolgere i propri compiti è scesa ai livelli più bassi dal 1990, con differenze marcate tra Est e Ovest. I risultati, riportati dal Spiegel, mostrano che a livello nazionale ben il 74% degli intervistati ritiene che “lo Stato sia sopraffatto e non più in grado di adempiere alle sue funzioni”. Particolarmente drastico è il dato nell’ex Germania Est: qui quasi 4 persone su 5 (circa il 79%) giudicano lo Stato inefficace, e solo un risicato 17% esprime fiducia piena nelle istituzioni. Nel Ovest la situazione è leggermente migliore ma comunque negativa: il 71% è critico e il 24% ha ancora fiducia. Questa forbice Est-Ovest conferma un trend già osservato in anni recenti, ma aggravatosi nell’ultimo anno. Secondo gli analisti, a pesare di più sulla percezione sono stati alcuni disservizi e ritardi emblematici: la difficoltà nel gestire i flussi di rifugiati ucraini, i rallentamenti burocratici nell’elargire i bonus energetici, l’impennata della criminalità predatoria (furti di rame, vandalismi) in alcune regioni orientali senza apparente efficace contrasto. In Sassonia e Turingia, in particolare, sono state molto mediatizzate storie di cittadini rimasti per mesi senza passaporto per lentezze amministrative o di attese di un anno per un’udienza in tribunale su cause semplici. Tutto ciò alimenta un senso di abbandono su cui l’AfD ha costruito parte del proprio successo locale. Il dbb commenta che “mai la fiducia era crollata così in basso in tempi di pace”. La cosa preoccupa anche per le conseguenze concrete: quando la maggioranza percepisce lo Stato come inefficiente, cala la disponibilità a rispettare regole e tasse (si parla di “erosione della lealtà fiscale”). Lo stesso sondaggio rileva che oltre la metà degli interpellati ammette di comprendere chi evade piccoli importi o chi cerca di “arrangiarsi da sé” bypassando le procedure, perché “lo Stato non aiuta”. Il governo federale ha reagito ai dati promettendo un “piano di rafforzamento amministrativo”: il capo della Cancelleria, Wolfgang Frei, ha annunciato in conferenza stampa che da ottobre verrà presentato un disegno di legge per semplificare i procedimenti autorizzativi e digitalizzare di più gli uffici pubblici. “Ogni cittadino dovrà poter fare online almeno l’80% delle pratiche entro il 2026”, ha detto Frei – un obiettivo simile era già stato fissato dal precedente governo senza successo pieno. Intanto, in Sassonia-Anhalt il ministro-presidente Reiner Haseloff (CDU) ha proposto di attribuire più competenze ai comuni e decentrare risorse nell’amministrazione: “troppa centralizzazione ha alienato i cittadini dell’Est, diamo più potere alle autorità locali dove la gente conosce i funzionari”, ha affermato. La SPD, dal canto suo, sottolinea la questione del personale: anni di risparmio hanno lasciato gli uffici sguarniti, è urgente assumere giovani in polizia, nei tribunali, negli sportelli. Non a caso proprio il sondaggio dbb è promosso dal sindacato del pubblico impiego, che chiede 200.000 assunzioni in 5 anni. Il Spiegel evidenzia poi un altro spetto: la “crisi di fiducia” orientale ha radici anche storiche e identitarie. Molti cittadini dell’Est si sentono tuttora cittadini di serie B, come se lo Stato “centrale” fosse un’entità calata dall’Ovest e incapace di capire le istanze locali. La scarsa presenza di funzionari federali originari dell’Est alimenta questa percezione. L’unica buona notizia dal sondaggio è che la sfiducia verso lo Stato non si traduce (finora) in rifiuto della democrazia: la fiducia nel sistema democratico rimane sopra il 50% (circa 60% Ovest, 45% Est). Ciò significa che molti distinguono tra principi democratici che approvano e performance dello Stato che invece delude. Ma il confine è labile: se lo Stato democratico continua a deludere, avverte il dbb, il rischio è l’ulteriore crescita di forze anti-sistema. Nel frattempo, nell’Est sono in arrivo importanti elezioni regionali (Sassonia, Turingia, Brandeburgo 2026) e l’AfD viaggia su consensi record. La fiducia perduta nello Stato potrebbe tradursi in voti per chi promette di “far piazza pulita” – con tutte le incognite che ciò comporta.
Habeck lascia il Parlamento: Merz lo attacca, i Verdi al bivio
Robert Habeck tritt ab: „Ich will nicht wie ein Gespenst über die Flure wandeln“ (intervista taz) – Merz nennt Habecks Abschied „peinlich“ (Zeit.de)
Die Zeit/taz – 02.09.2025
Il 1º settembre Robert Habeck – già ministro dell’Economia e vicecancelliere dal 2021 al 2025 – ha formalizzato le dimissioni dal Bundestag, sancendo il suo ritiro dalla politica attiva. La decisione, anticipata dopo la sconfitta elettorale dei Verdi a febbraio, ha suscitato reazioni contrapposte. In un’intervista alla taz, Habeck ha spiegato di “non voler restare come un fantasma nei corridoi” del Parlamento: dopo aver guidato i Verdi per anni e aver mancato l’elezione a cancelliere nel 2025 (il suo partito è arrivato solo quarto con l’8,7%), ha ritenuto coerente farsi da parte per favorire il rinnovamento interno. Ha aggiunto di voler tornare alla scrittura e all’impegno civile fuori dalle istituzioni, e di escludere futuri incarichi politici (“non farò il classico comeback”). La base verde ha accolto con dispiacere ma rispetto la sua scelta: molti militanti riconoscono che Habeck ha portato i Verdi al governo federale nel 2021 per la prima volta in 16 anni, ma anche che la sua immagine ha sofferto negli ultimi due anni (tra accuse di nepotismo nel suo ministero e compromessi impopolari come quello sul gasdotto in Sassonia). Dall’altro lato, il cancelliere Friedrich Merz non ha risparmiato parole dure nel commentare l’addio di Habeck. In un’intervista alla Zeit, Merz ha definito “patetica” (“peinlich”) la modalità con cui Habeck si è defilato. Secondo Merz, Habeck sta “scappando dalle sue responsabilità”: dopo aver incarnato la svolta ecologista, ora abbandona la nave quando diventa chiaro che la transizione verde è impopolare e difficile. “Ha mostrato tratti caratteriali che sospettavamo” – allude Merz, insinuando mancanza di perseveranza e opportunismo. I Verdi hanno replicato con irritazione: la co-leader Ricarda Lang ha definito le parole di Merz “arroganza inutilmente offensiva”, ricordando che “forse Merz preferirebbe che anche i suoi avversari restassero incollati alle poltrone”. Sullo sfondo, l’uscita di scena di Habeck apre una questione di equilibri interni nei Verdi. Il partito è diviso fra Realisti (cui apparteneva Habeck) e Movimentisti/ala sinistra. Dopo la disfatta elettorale di febbraio, i Realo come Habeck e Baerbock sono finiti sotto accusa dalla base, e ora il partito – all’opposizione – oscilla se radicalizzarsi su posizioni più movimentiste (per recuperare voti dalla Linke) o restare su una linea pragmatica (per non perdere credibilità governativa). Nell’immediato, il gruppo parlamentare verde ha eletto nuovi capigruppo che appartengono uno a ciascuna corrente, segno di compromesso precario. Intanto, Merz (CDU) e Scholz (SPD) cercano di attrarre gli orfani politici di Habeck: Merz strizza l’occhio all’elettorato verde moderato enfatizzando l’importanza della stabilità energetica e accusando i Verdi di aver “tradito i lavoratori con utopie”, Scholz – benché non più cancelliere – continua a sostenere l’agenda climatica graduale per cercare di assorbire parte dell’elettorato ambientalista deluso. Da parte sua, Habeck nella sua intervista appare disilluso ma sereno: sostiene che la svolta ecologica in Germania continuerà comunque, magari con altri protagonisti, e confessa che “forse il Paese non era pronto alla velocità che volevamo” per il cambiamento verde. Gli osservatori interpretano la sua uscita come segno dei tempi difficili per i Verdi: essere al governo in anni di crisi energetica li ha logorati, e ora – senza la loro figura più popolare – dovranno ripensarsi da zero. Molti notano un parallelo: come Joschka Fischer nei primi anni 2000 lasciò la politica attiva dopo la fase di governo rosso-verde, ora Habeck fa lo stesso dopo la breve stagione semaforo. Riusciranno i Verdi, privi del loro carismatico frontman, a risalire la china? La risposta verrà nei prossimi anni, ma intanto l’uscita di scena di Habeck rappresenta simbolicamente la fine di un ciclo per l’ambientalismo governativo in Germania.
Scontro sullo stato sociale: Bas attacca Merz per le parole sul “vivere oltre i mezzi”
Differenzen mit Kanzler Merz – Arbeitsministerin Bas legt im Streit über Sozialstaat nach
Der Spiegel – 02.09.2025
Lo scontro interno al governo sulle politiche sociali si è infiammato dopo che il cancelliere Friedrich Merz ha dichiarato che “la Germania vive al di sopra delle proprie possibilità” e che “lo stato sociale nella sua forma attuale non è più sostenibile”. Tali affermazioni – fatte da Merz al congresso CDU del Nordreno-Westfalia – hanno provocato la reazione indignata della ministra SPD del Lavoro, Bärbel Bas, che in un comizio dei giovani SPD ha bollato la tesi come “bullshit”. Il Spiegel riferisce che Bas, in un’intervista allo Stern, ha poi spiegato di aver sentito il dovere di “rispondere per le rime” al cancelliere: “dovevo pur controbattere a certe affermazioni”, ha detto, sottolineando che “siamo un paese ricco” e non c’è ragione di smantellare le protezioni sociali. Bas accusa la CDU di dipingere il welfare come un peso che frena l’economia, mentre a suo avviso è possibile far crescere l’economia senza tagliare tutele: “dobbiamo lavorare insieme per più crescita, non dire che la colpa è del costo del sociale”. La ministra ha ribadito che non accetterà “di mettere in discussione le basi dello stato sociale”: nessun taglio draconiano a pensioni, sanità o sussidi di disoccupazione. Ha anzi rilanciato l’idea di coinvolgere maggiormente alcune categorie nel finanziamento (riferimento implicito a proposte SPD di contributi pensionistici anche per autonomi abbienti o di contributo di solidarietà per i redditi alti). Dal canto suo Merz, pur infastidito dai toni di Bas, sembra aver cercato una tregua: al vertice di coalizione del 3 settembre i due hanno condiviso un boccale di birra davanti ai fotografi, dichiarando di “essersi chiariti”. Fonti di stampa (Welt) riferiscono che Merz avrebbe detto: “ci siamo ben intesi che tutti vogliamo lo stesso obiettivo: un welfare sostenibile”. Di fatto, il compromesso trovato in coalizione è quello già noto: nessun taglio immediato alle prestazioni esistenti (come auspicava l’ala dura CDU), ma un tavolo di riforma per renderle “a prova di futuro” (in particolare, studiare come stabilizzare pensioni e sanità oltre il 2030 con l’invecchiamento della popolazione). Merz stesso ha poi smorzato i toni pubblicamente affermando di essersi “forse espresso male”: “non intendevo dire che taglieremo dall’oggi al domani il welfare, ma che dobbiamo riformarlo per mantenerlo”. Bas, dal canto suo, ha assicurato di non voler apparire solo “difensiva”: “non voglio stare sempre sulla difensiva” ha detto, “penso che questa coalizione abbia l’opportunità di mettere in sicurezza i nostri sistemi per le prossime generazioni pensando a soluzioni nuove”. Ha poi citato un esempio di idea innovativa: “valutare quali categorie professionali possano contribuire di più ai costi” – un accenno a contributi differenziati o all’ipotesi di aumentare l’età pensionabile per i lavori d’ufficio, come suggerito dal commento di Sauga su Spiegel (vedi sezione Analisi). Intanto, la querelle “Bullshit” è diventata un caso mediatico: i talk show ne hanno discusso, i social si sono scatenati in meme, molti plaudendo Bas per la schiettezza, altri criticandone il linguaggio poco istituzionale. La vicenda ha comunque portato allo scoperto il malcontento nella SPD verso la “narrazione del limite” portata avanti da Merz. I socialdemocratici temono che accettare l’idea di un welfare insostenibile equivalga a suicidio politico per loro. Ecco perché Bas – che è anche co-leader SPD – ha reagito con tanta veemenza. Ora si cercherà di sotterrare l’ascia di guerra: la coalizione ha bisogno di stabilità e un conflitto frontale tra cancelliere e vice (Merz e Bas) sarebbe letale. Entrambi paiono averlo capito. Resta agli atti però uno dei momenti di tensione più accesi del governo nero-rosso: segno che le differenze ideologiche sui temi sociali sono profonde e pronte a riemergere. Bas ha concluso la sua intervista con un auspicio: “trasformiamo questa discussione in un’occasione per rafforzare e non indebolire il nostro stato sociale, con riforme condivise eque”. La palla è ora nel campo di Merz e del ministro delle Finanze Klingbeil: trovare i soldi senza far esplodere la coalizione – un equilibrismo tutt’altro che facile.
Pensioni ex DDR: il governo aumenta la quota a carico del bilancio federale
DDR-Renten: Bund entlastet Länder um 340 Millionen Euro
Handelsblatt – 05.09.2025
In un’ottica di alleviare gli oneri finanziari dei Länder orientali, la coalizione di governo ha deciso di incrementare dal 50% al 60% la quota di partecipazione federale ai costi delle cosiddette “pensioni supplementari e speciali della DDR”. Questo provvedimento, di cui dà conto l’Handelsblatt, si tradurrà in un alleggerimento per i bilanci regionali dell’Est di circa 340 milioni di euro nel 2026. Si tratta di uno storica questione: dopo la riunificazione, la Germania ha ereditato dal sistema DDR alcune categorie di pensioni privilegiate (ad esempio quelle di ex dipendenti statali, combattenti di guerra, ingegneri, medici, artisti con regimi speciali, ecc.) il cui costo è stato a lungo sostenuto in gran parte dai cinque Länder orientali. Nel 1993 si stabilì infatti che i Länder avrebbero coperto la metà di queste spese e il Bund l’altra metà, nonostante la limitata capacità fiscale delle regioni ex DDR. Ciò ha pesato enormemente sui loro conti pubblici per decenni: ancora oggi i Länder dell’Est spendono oltre 2,6 miliardi annui per queste pensioni “d’annata”. Con la nuova intesa, il contributo federale sale al 60%, riducendo la spesa degli Stati orientali a circa 2,29 miliardi (da 2,63), con un risparmio quindi di 340 milioni complessivi all’anno. Questa misura è stata accolta positivamente dai ministri-presidenti dell’Est, anche se alcuni l’hanno definita “solo un passo simbolico”. Michael Kretschmer (Sassonia, CDU) ha commentato che “finalmente il governo federale riconosce la sua responsabilità su questo fardello storico”, ma ha anche aggiunto che la cifra è modesta rispetto al totale speso e andrebbe aumentata nei prossimi anni. Dal canto suo Dietmar Woidke (Brandeburgo, SPD) ha parlato di “atto di giustizia atteso da tempo”, ricordando che i Länder orientali hanno dovuto tagliare investimenti in infrastrutture e welfare locale negli ultimi 30 anni anche per far fronte a queste pensioni di vecchio regime. Ora potranno reindirizzare parte delle risorse liberate verso progetti di sviluppo regionale o riduzione del debito. Anche l’opposizione Linke, da sempre paladina di questa causa, ha lodato la mossa pur definendola “läppisch” (ridicola) nella quantificazione: secondo la Linke, lo Stato centrale dovrebbe assumersi almeno l’80% dei costi residui, essendo l’unità nazionale una questione federale. Il ministro delle Finanze Lars Klingbeil (SPD) ha replicato che l’aumento al 60% è quanto è stato possibile alla luce delle strettezze di bilancio, ma ha aperto alla possibilità di ulteriori incrementi graduali entro il 2030. La decisione, per diventare effettiva, sarà inserita nella legge finanziaria 2026 e dovrà essere approvata dal Bundestag, ma si prevede ampio consenso trasversale. L’Handelsblatt fa notare che l’intervento ha anche una valenza politica: a pochi mesi dalle importanti elezioni regionali dell’autunno 2026 in tre Länder dell’Est, i partiti di governo tentano di mostrare attenzione concreta verso le istanze orientali, nel tentativo di arginare l’AfD che su questi temi di equità post-riunificazione lucra consensi. Non a caso l’AfD ha liquidato la notizia definendola “una mancetta pre-elettorale”. Resta però il fatto che un annoso dossier viene (parzialmente) risolto: dal 2026 il contributo del Bund per queste pensioni speciali passerà da circa 2,6 a 2,94 miliardi l’anno, allentando un poco la morsa finanziaria sui bilanci regionali di Sassonia, Turingia, Sassonia-Anhalt, Brandeburgo e Meclemburgo-Pomerania. Un gesto significativo, sebbene tardivo: uno di quei dettagli contabili che però hanno grande importanza simbolica per l’equità della riunificazione.
Questioni economiche e finanziarie
Maxi commessa offshore: Siemens Energy costruirà l’hub elettrico del Baltico
Offshore-Windanlagen – Siemens Energy gewinnt Milliardenauftrag für Stromdrehkreuz in der Ostsee
Der Spiegel – 04.09.2025
Il gruppo tedesco Siemens Energy si è aggiudicato un contratto dal valore di diversi miliardi di euro per la realizzazione di un grande “hub energetico” nel Mar Baltico, denominato Bornholm Energy Island. La notizia, riportata dallo Spiegel, segna un’importante vittoria per l’industria energetica tedesca nel campo delle rinnovabili offshore. Nello specifico, Siemens Energy fornirà quattro potenti convertitori per collegare e integrare le turbine eoliche offshore di nuova generazione che sorgeranno attorno all’isola di Bornholm (Danimarca). Questo Stromdrehkreuz – letteralmente “snodo elettrico” – fungerà da gigantesca centrale elettrica virtuale in mare aperto: i convertitori raccoglieranno l’energia prodotta da decine di parchi eolici nel Baltico e la convoglieranno verso la rete elettrica della Germania e degli altri paesi circostanti. L’ordine è arrivato dal consorzio Energinet/50Hertz, cooperazione tra il gestore di rete danese e quello tedesco, con supporto di fondi UE. Era molto ambito: la concorrenza (tra cui ABB e GE) puntava a ottenerlo. La scelta di Siemens Energy è vista come un segnale di fiducia nelle competenze ingegneristiche tedesche in ambito HVDC (trasmissione in corrente continua ad alta tensione). Il progetto Bornholm Energy Island è uno dei più innovativi: sarà il primo hub offshore al mondo a connettere più paesi e più parchi eolici in un unico punto, con capacità prevista di oltre 3 GW (abbastanza per alimentare 4,5 milioni di case). I convertitori Siemens saranno installati su piattaforme in mare: la sfida è renderli robusti alle condizioni marine e altamente efficienti. L’articolo sottolinea che la Danimarca originariamente aveva piani ancora più grandi per Bornholm, poi ridimensionati per motivi di costo. Ciò non toglie che questo appalto vale comunque più di 1 miliardo (fonti di settore parlano di circa 1,5 miliardi €). Per Siemens Energy, che ha attraversato momenti difficili finanziariamente nel 2023-24, è una boccata d’ossigeno e conferma la sua leadership tecnologica. La commessa rientra nell’ambizioso piano europeo di espandere del 50% la capacità eolica offshore entro il 2030, anche per ridurre la dipendenza da gas. La Germania in particolare punta molto sull’energia eolica in mare, con obiettivi di 30 GW al 2030 e 70 GW al 2045: progetti come Bornholm (sebbene in acque danesi) aiuteranno a raggiungerli. Per Siemens Energy il rischio principale era la concorrenza cinese, ma in questo caso essendo un progetto europeo si è voluto coinvolgere player europei. La commessa include anche servizi di manutenzione e gestione dei convertitori per diversi anni, dando quindi a Siemens flussi di entrate costanti. Spiegel nota con un pizzico di patriottismo che questa vittoria “made in Germany” mostra come l’industria tedesca possa essere competitiva nella transizione verde, a dispetto di chi la vede in declino. Sul mercato azionario, il titolo Siemens Energy ha reagito bene alla notizia, recuperando parte del terreno perso negli ultimi mesi per timori legati ai costi di sviluppo dell’idrogeno. In sintesi, la costruzione dell’hub elettrico di Bornholm è un esempio virtuoso di cooperazione nord-europea nella lotta ai cambiamenti climatici, e la Germania – grazie a Siemens Energy – ne sarà protagonista tecnica. I lavori inizieranno nel 2026 e l’Energy Island dovrebbe essere operativa entro il 2028, portando nelle case energia pulita del Baltico.
Congiuntura: l’Istituto DIW intravede la ripresa dal 2026
Konjunkturprognose für Deutschland – DIW sieht Aufschwung ab 2026
Der Spiegel – 05.09.2025
Secondo le nuove previsioni economiche del DIW (Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung), la Germania sta attraversando ancora un periodo di stagnazione economica ma potrebbe vedere un marcato rilancio della crescita a partire dal 2026. Il DIW – uno dei principali istituti di ricerca congiunturale – stima che dopo un 2024 quasi a crescita zero e un 2025 ancora debole, il PIL tedesco inizierà ad accelerare nel 2026, con un aumento “significativo” (le proiezioni indicano circa +2% reale). Questo Aufschwung atteso sarebbe trainato da diversi fattori: in primis, una graduale ripresa della domanda mondiale, con un allentamento delle tensioni commerciali (presupponendo una normalizzazione dei dazi USA-Cina e USA-UE post-Trump nel 2025), che favorirebbe l’export tedesco. Inoltre, gli investimenti pubblici interni – in particolare nel settore della difesa e della transizione energetica – inizieranno a dare impulso all’industria domestica (costruzioni infrastrutturali, settore ferroviario, energie rinnovabili). Anche l’inflazione prevista in ulteriore calo (vicina all’1,5% nel 2026) permetterebbe alla Banca Centrale Europea di tagliare i tassi già nel corso del 2025, stimolando consumi e credito al 2026. Il DIW mette però in guardia: questo scenario positivo non deve far dimenticare i “problemi strutturali” irrisolti, come la carenza di manodopera qualificata e la transizione digitale lenta. Il commento su Spiegel evidenzia che anche altri istituti (Ifo, IfW) prevedono un 2024-25 fiacco, con la Germania tecnicamente in recessione leggera nel 2025 (-0,3% circa), ma concordano su un miglioramento dal 2026. C’è però chi ammonisce – come l’Istituto IWH di Halle – che questa ripresa “automatica” non basterà a recuperare il terreno perso: la crescita potenziale tedesca è scesa allo 0,8% annuo, e per innalzarla servono riforme. Comunque, l’analisi DIW ha fatto tirare un sospiro di sollievo al governo: i timori di una “stagnazione secolare” potrebbero non concretizzarsi. Il ministro delle Finanze Klingbeil ha commentato: “vediamo la luce in fondo al tunnel, dobbiamo tenere duro ancora un anno o due”. Si nota che la fiducia delle imprese (indice Ifo) ha già smesso di peggiorare, suggerendo che il 2025 potrebbe essere il punto di minimo. Uno dei traini dell’auspicato Aufschwung 2026 potrebbe essere l’allentamento del “Zollkrieg” (guerra dei dazi) scatenata dagli USA di Trump. Non a caso, Spiegel sottolinea come le previsioni assumano una normalizzazione delle relazioni commerciali internazionali dopo il 2025: se ciò non avvenisse (es. un secondo mandato Trump attivo a perseguire dazi), la ripresa tedesca sarebbe meno vigorosa o rimandata. Altro elemento: il recupero del settore edile, ora in crisi per i tassi alti, che dal 2026 con tassi più bassi e eventuali incentivi governativi dovrebbe sbloccarsi (il governo ha appena approvato una legge per snellire le procedure edilizie). In sintesi, il DIW invita a pazientare: la congiuntura migliorerà, ma non bisogna farsi illudere, perché i “problemi di fondo” (produttività stagnante, transizione energetica costosa, spesa sociale elevata) restano da affrontare. C’è un implicito suggerimento: utilizzare gli anni di ripresa per fare quelle riforme dolorose finora rinviate (pensioni, fisco, innovazione), così da mettere l’economia su un sentiero di crescita solida oltre il rimbalzo. Riusciranno politica e imprese a cogliere questa opportunità? L’articolo lascia aperto l’interrogativo, ma almeno offre un orizzonte temporale fiducioso: dal 2026 la “locomotiva” tedesca potrebbe tornare a sbuffare, magari non ai ritmi pre-2020, ma comunque abbastanza per allontanare lo spettro di un declino.
Crescita azzoppata: esperti tagliano le previsioni per colpa dei dazi di Trump
Lahme deutsche Konjunktur – Führende Wirtschaftsforscher senken Wachstumsprognosen
Der Spiegel – 04.09.2025
Due importanti istituti economici tedeschi – l’Ifo di Monaco e l’IfW di Kiel – hanno rivisto al ribasso le stime di crescita per l’economia tedesca nel 2025, citando tra i principali motivi l’impatto negativo della guerra commerciale innescata dai dazi statunitensi di Trump. Spiegel riferisce che entrambi gli istituti ora prevedono per il 2025 solo un +0,5% di PIL (in calo dal +1,2% stimato sei mesi fa). In particolare, i settori più colpiti sarebbero l’automotive e la meccanica, penalizzati dalle tariffe addizionali imposte dagli USA su vari prodotti europei. Il cancelliere Trump, nel suo ritorno, ha infatti reintrodotto e ampliato dazi su auto e componenti UE al 25%, come parte di una strategia protezionista; la UE ha risposto con controdazi. Gli economisti notano che la Germania, fortemente esportatrice verso gli USA (il suo maggiore mercato extra-UE), sta soffrendo: le esportazioni verso gli Stati Uniti sono crollate del 10% nel primo semestre 2025 rispetto all’anno precedente. Questo shock esterno, unito alla domanda interna fiacca e all’incertezza generale, sta spingendo l’economia sull’orlo della recessione tecnica. Gli istituti segnalano anche un peggioramento delle condizioni sul mercato del lavoro: dopo anni di disoccupazione ai minimi, ora la disoccupazione è tornata a salire leggermente (prevista al 5,8% nel 2025, dal 5,2% del 2024), complice il rallentamento produttivo e alcune ristrutturazioni aziendali (soprattutto nel settore auto, in transizione elettrica, e in quello chimico). Spiegel menziona il concetto di “Sommermüdigkeit des Arbeitsmarkts” (fiacchezza estiva del mercato del lavoro), ripreso anche in un titolo FAZ su Bayern München di quell’estate – per dire che c’è una stasi che preoccupa. Tuttavia, gli economisti invitano a non drammatizzare: questa non è una crisi come 2009 o 2020, ma un ristagno ciclico aggravato da fattori esterni temporanei. Si segnala difatti che nel 2024 la crescita era stata ancora positiva (+0,8%), ma la frenata è giunta con la duplice botta dei dazi e del rallentamento cinese nel 2025. Il governo federale sta studiando contromosse: la ministra SPD Bas preme per uno stimolo fiscale (ad esempio anticipare investimenti infrastrutturali già stanziati per anni successivi), mentre il ministro FDP delle Finanze Wissing insiste su sgravi per le imprese. Finora, la grande coalizione ha scelto un approccio prudente: niente pacchetto straordinario, confidando che la BCE ridurrà i tassi e che la rimozione (auspicata) dei dazi con il cambio di amministrazione USA nel 2025 tardivo/2026 ridarà ossigeno. Spiegel però nota come il morale delle aziende (indice Ifo) sia sceso a 85 punti, segno di pessimismo diffuso. Molti imprenditori denunciano anche costi energetici ancora alti e troppa burocrazia. Gli analisti dell’Ifo affermano che il “Deutschland-Tempo” (il proverbiale tempo di reazione lento della burocrazia tedesca) va velocizzato per aiutare la crescita. Il monito conclusivo: “la vera sfida sarà tornare a una crescita robusta in un mondo di venti contrari”. In definitiva, i tagli alle previsioni testimoniano una fragilità congiunturale che il governo non può ignorare: serve preparare fin da ora (cit. Ifo) “un agenda pro-crescita” da lanciare appena le condizioni esterne miglioreranno, altrimenti la Germania rischia di perdere ulteriore quota di mercato a vantaggio di competitor più dinamici.
Banche e geopolitica: UniCredit fa la corte a Commerzbank, Berlino irritata
Konkrete Vorstellungen – UniCredit-Chef spricht über Pläne für Commerzbank-Übernahme
Der Spiegel – 04.09.2025
Il numero uno di UniCredit, Andrea Orcel, ha rilasciato un’intervista in cui delinea apertamente la strategia della banca italiana di aumentare la propria partecipazione in Commerzbank, la seconda banca tedesca, riaccendendo così le speculazioni su una possibile fusione transnazionale. Lo Spiegel riporta che Orcel ha espresso “idee concrete” per salire dall’attuale 9% al 15-20% del capitale di Commerzbank, preludio eventuale a una vera e propria acquisizione parziale. Questa mossa ha suscitato irritazione a Berlino: appena qualche mese fa, il ministro delle Finanze Lars Klingbeil (SPD) aveva definito “sgradita” quella che aveva chiamato “iniziativa ostile” di UniCredit, reputandola un’“ingerenza poco amichevole” (unfriendly approach) nel sistema bancario tedesco. Infatti, la questione tocca i nervi scoperti: Commerzbank è considerata banca di interesse nazionale, anche perché il governo tedesco ne possiede ancora circa il 15% (retaggio del salvataggio pubblico del 2009). Orcel ha cercato di ammorbidire i toni, sostenendo che UniCredit vede in Commerzbank “grandi sinergie potenziali” e un partner ideale per creare un gruppo paneuropeo forte, “nel rispetto di tutte le normative”. Tuttavia, le sue parole hanno fatto rialzare il prezzo del titolo Commerzbank in Borsa – segno che il mercato fiuta la possibilità di operazioni straordinarie – e scatenato reazioni politiche. Il governo Scholz precedente aveva già respinto nel 2024 le avance italiane definendole “non richieste”. Ora la grande coalizione Merz-Klingbeil pare altrettanto contraria: si vocifera che il Cancelliere Merz abbia contattato discretamente grandi investitori istituzionali tedeschi (Allianz, Deutsche Bank stessa) per “rinforzare il muro” attorno a Commerzbank, e starebbe valutando l’aumento della quota pubblica se necessario per sventare acquisizioni estere. Dal canto suo Orcel (UniCredit) gioca sul contesto europeo: con il progetto di Unione Bancaria, teoricamente i confini nazionali contano meno e ci si aspetta consolidamenti transfrontalieri. Egli fa notare che Commerzbank è risanata (ha chiuso filiali e tagliato costi) ma fatica a crescere, mentre UniCredit porterebbe capitali e expertise internazionale. Spiegel evidenzia tuttavia anche un intreccio politico: nel board di UniCredit siedono azionisti di paesi del Golfo e cinesi, e Berlino teme di “far entrare il lupo nell’ovile” se la banca italiana, con la scusa dell’Europa, fungesse da cavallo di Troia per capitali non graditi. L’intera vicenda rientra nel discorso più ampio di protezione degli asset strategici nazionali. Commerzbank, pur privata in gran parte, viene vista come importante per il finanziamento dell’economia tedesca media (Mittelstand). La Linke e l’AfD paradossalmente concordano nel chiedere al governo di opporsi fermamente: l’AfD in chiave nazionalistica, la Linke in chiave anti-capitalistica. I liberali dell’FDP sarebbero più aperti al mercato, ma essendo fuori dal governo contano poco al momento. La trattativa, se mai decollerà, si preannuncia lunga e complessa, con possibili interventi della BaFin (vigilanza tedesca) e pressioni politiche. Per ora, l’annuncio di Orcel appare più che altro come “alzare la posta” pubblicamente: forse vuole spingere Commerzbank a un accordo o a mostrare i suoi conti più trasparenti. Il ministro Klingbeil ha commentato laconicamente: “La posizione tedesca non cambia: non vediamo con favore manovre non concordate”. Il caso potrebbe anche avere risvolti in sede UE: se Berlino ostacolasse troppo, Roma potrebbe lamentare violazione dei principi del mercato unico dei capitali. Insomma, un bel groviglio di economia e politica.
Crisi dell’auto: Porsche esce dal DAX, l’industria tedesca trema
Krise der Autoindustrie – Porsche fliegt aus dem Dax
Der Spiegel – 03.09.2025
La celebre casa automobilistica di Stoccarda Porsche AG è stata esclusa dal principale indice borsistico tedesco DAX 40, a seguito di un drastico calo del valore di mercato causato dalla crisi che attraversa l’intero comparto auto tedesco. Spiegel riferisce che la decisione è arrivata con la revisione trimestrale degli indici: Porsche, quotata in Borsa solo da fine 2022, ha perso oltre il 40% di capitalizzazione nell’ultimo anno e non rientra più tra le prime 40 società per valore. A rimpiazzarla nel DAX sarà una società tecnologica emergente, segno dei tempi (si vocifera del rientro di Zalando o dell’ingresso di BioNTech, già in forte crescita). Per la Germania è uno smacco simbolico: Porsche, marchio iconico, non figura più nel listino di riferimento – “non è neppure più tra le 40 aziende più preziose del Paese”, sottolinea amaramente l’articolo. Questo riflette la crisi strutturale dell’auto tedesca. Nel 2025 le vendite globali di vetture termiche sono crollate più del previsto, specialmente in Cina (primo mercato per Audi, BMW, Mercedes e Porsche), mentre i concorrenti cinesi e americani dominano il mercato elettrico. Porsche in particolare ha subito un contraccolpo: i suoi modelli elettrici come la Taycan, pur apprezzati, patiscono la concorrenza di Tesla e NIO, e i modelli a benzina soffrono normative ambientali sempre più restrittive. I margini si sono ridotti e gli utili in calo hanno spaventato gli investitori. L’uscita dal DAX comporta vendite automatiche di azioni da parte di fondi indicizzati, il che potrebbe deprimere ulteriormente il titolo Porsche. L’articolo evidenzia che ora nel DAX resteranno solo due rappresentanti “puri” dell’auto: Mercedes-Benz e Volkswagen (che controlla Porsche ma come gruppo diversificato). Audi non c’è perché integrata in VW, BMW rimane. Ma nel complesso, la “vecchia guardia” dell’automotive perde peso in Borsa. Questo fatto innesca un dibattito: la Germania è ancora un paese leader nell’auto? Gli analisti citati da Spiegel suggeriscono che l’industria deve accelerare la trasformazione: investire di più nell’elettrico, nelle batterie (dove dipende dall’Asia) e nel software di bordo, se vuole riconquistare la fiducia dei mercati. Alcuni ricordano casi analoghi: nel 2003 uscì dal DAX Commerzbank (poi rientrata), nel 2019 Thyssenkrupp; spesso è preludio di cambiamenti profondi o di ridimensionamento permanente. Il CEO di Porsche, Oliver Blume (che è anche CEO VW), ha minimizzato parlando di “fluttuazioni temporanee del mercato azionario”, rivendicando la forza del brand e una pipeline di nuovi modelli (come un SUV elettrico alto di gamma in arrivo) che dovrebbero rilanciare vendite e utile nel 2026. I sindacati però suonano l’allarme: l’intero settore auto ha annunciato quest’anno tagli per circa 60 mila posti complessivi in Germania, e se la redditività non torna, il rischio è di un ridimensionamento permanente del peso industriale tedesco nell’automotive globale. La caduta di Porsche dal DAX, con tutta la sua portata emotiva (il marchio che fu di Ferry Porsche e sforna auto di lusso da sogno, ora “retrocesso”), è percepita come un monito: “niemand ist unersetzlich” – nessuno è insostituibile nel nuovo scenario economico, nemmeno i campioni nazionali storici. Sarà interessante vedere se e come il governo reagirà: finora Merz e Klingbeil hanno escluso aiuti pubblici diretti alle case auto, puntando invece su incentivi per la domanda (ecobonus). Ma forse, suggerisce qualcuno, serve una “politica industriale” più attiva, come stanno facendo gli USA con l’Inflation Reduction Act. In ogni caso, la fuoriuscita di Porsche dal DAX resterà negli annali del 2025 come un segnale del cambio di guardia in corso nell’economia tedesca.
Niente “patrimoniale sui ricchi”: l’avvertimento del capo della Cancelleria
Kanzleramtschef Frei warnt vor höherer Reichensteuer – würde Wirtschaft belasten
Handelsblatt – 05.09.2025
Il capo della Cancelleria, Wolfgang Frei (CDU), braccio destro del cancelliere Merz, ha lanciato un monito pubblico contro qualsiasi ipotesi di introdurre una nuova tassazione patrimoniale o di alzare drasticamente l’aliquota per i redditi più alti, sostenendo che ciò “graverebbe sull’economia” e rischierebbe di soffocare la fragile ripresa. Le parole di Frei, riportate dall’Handelsblatt, paiono rivolte all’alleato SPD, alcuni dei cui esponenti – in particolare la co-leader Bas – negli ultimi tempi hanno ventilato l’idea di aumentare il contributo fiscale dei ceti più abbienti per finanziare riforme sociali (ad esempio la tanto discussa Vermögenssteuer, tassa sul patrimonio). Frei ha dichiarato: “In un momento in cui abbiamo bisogno di investimenti e fiducia degli imprenditori, alzare le tasse sui capitali e sui redditi alti sarebbe il segnale sbagliato”. Ha poi aggiunto che la Germania già ha un livello di imposizione elevato e che servono piuttosto incentivi. La presa di posizione netta anticipa il dibattito interno alla coalizione in vista della prossima finanziaria: la SPD preme per trovare risorse per l’aumento dei salari del pubblico impiego e per un possibile taglio dell’IVA su alcuni beni alimentari, e aveva fatto capire che “anche i ricchi devono fare la loro parte”. La CDU/CSU, invece, ritiene che l’unica via sia tagliare la spesa altrove e stimolare la crescita. Le imprese hanno applaudito Frei: la BDI (Confindustria tedesca) ha ribadito che “ogni ulteriore aggravio fiscale spingerebbe investitori a guardare altrove”. In particolare, secondo studi citati dal Handelsblatt, una tassa patrimoniale dell’1% sui grandi patrimoni – come ipotizzata dalla sinistra SPD – colpirebbe circa 150.000 famiglie facoltose e porterebbe allo Stato 11 miliardi annui, ma avrebbe effetti negativi su investimenti privati e fuga di capitali. Finora Merz aveva evitato lo scontro frontale su questo con Bas, ma ha lasciato che fosse Frei (figura meno politica e più tecnica) a fissare la linea rossa. All’orizzonte c’è pure la proposta del governatore bavarese Söder (CSU) di ridurre del 50% l’imposta di successione, che Merz ha già definito inopportuna ora e che SPD osteggia. Insomma, le tensioni sulla politica fiscale all’interno del governo si intensificano. Frei ha cercato di portare il discorso su un altro piano: ha affermato che “se la torta cresce, tutti avranno fette più grandi; pensiamo a far crescere la torta, non a ridistribuirla”, evocando la necessità di stimoli pro-crescita. In parallelo, ha annunciato che la Cancelleria sta lavorando a un pacchetto di snellimento burocratico (di cui le misure per l’edilizia sono un primo passo, vedi sopra), ritenendolo la vera “riforma per i ceti medi” di cui c’è bisogno. Naturalmente la SPD non l’ha presa bene: fonti vicine a Bas dicono che questi avvertimenti pubblici “non aiutano il clima di coalizione”. Ma la CDU, forte anche dei buoni sondaggi (il partito di Merz è stabile primo intorno al 28-30%), pare voler segnare i confini. Il messaggio ai mercati e ai contribuenti benestanti è: questa coalizione, pur con la SPD a bordo, non introdurrà nuove tasse sui patrimoni. In conclusione, il dualismo fiscale all’interno del governo continua: da un lato la SPD che parla di “solidarietà fiscale” e preme per chiedere di più ai ricchi, dall’altro la CDU/CSU che ribadisce il mantra “no nuove tasse” e anzi sogna semmai di abbassarle (per ora impossibile per i vincoli di bilancio). La posizione di Frei, forte del peso istituzionale che l’incarico gli conferisce, chiarisce che su questo punto la CDU non cederà. Gli osservatori prevedono che alla fine non ci saranno nuove tasse, ma neppure tagli consistenti – si manterrà lo status quo, rimandando le grandi scelte alla prossima legislatura. Non a caso Merz ha dichiarato pochi giorni fa: “questo non è il momento di sperimentare con il fisco, è il momento di stabilizzare”. Quindi, per ora, i “ricchi” possono tirare un sospiro di sollievo: nessuna patrimoniale in arrivo, se il governo manterrà la linea del capo della Cancelleria.