Il testo è tratto dall’articolo scientifico “Il ruolo delle Regioni nella tutela della salute” della prof.ssa Camilla Buzzacchi, direttrice del Dipartimento di Scienze Economico-Aziendali e Diritto per l’Economia (Di.SEA.DE) e dell’Osservatorio DIPAB, rielaborato in forma divulgativa per favorirne la diffusione e la comprensione al di fuori dei contesti accademici.
Realizzato nell’ambito della partnership per la Terza Missione tra Stroncature e il Di.SEA.DE dell’Università di Milano-Bicocca, questo contributo si propone di rendere accessibile al pubblico non specialista un tema di grande rilevanza pubblica: il ruolo delle Regioni nella tutela della salute.
La rielaborazione divulgativa dell’articolo si inserisce tra le attività promosse da Stroncature per la Terza Missione, che comprendono anche video, podcast, infografiche e altri contenuti ispirati alla ricerca accademica.
Riferimento originale: Buzzacchi, C. (2024). Il ruolo delle Regioni nella tutela della salute. Quaderno. Associazione per gli Studi e le Ricerche Parlamentari, n. 27, pp. 125–139, boa.unimib.it. ISBN 9791221104967. Edizioni Giappichelli.
Negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, si è riacceso il dibattito su chi debba occuparsi davvero della nostra salute: lo Stato o le Regioni? Il sistema sanitario italiano è infatti organizzato in modo che lo Stato stabilisca le regole generali, ma sono le Regioni a gestire l’organizzazione concreta dei servizi. Un modello pensato per valorizzare le autonomie locali, ma che nel tempo ha prodotto grandi differenze tra territori.
Quando parliamo di sanità pubblica, spesso pensiamo allo Stato. Ma chi decide davvero come funziona la sanità nella nostra Regione? Chi stabilisce dove aprire un ospedale, come organizzare le cure a domicilio, o se coinvolgere strutture private? La risposta è: le Regioni. Lo Stato definisce i cosiddetti Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), cioè le prestazioni minime da garantire a tutti, ma sono le Regioni a organizzare concretamente i servizi: dalla rete ospedaliera alle cure territoriali.
Questa impostazione, pensata per adattare i servizi alle specificità dei territori, ha mostrato limiti importanti. Le differenze nella qualità dell’assistenza, nei tempi di attesa o nella disponibilità di cure domiciliari sono spesso molto marcate. Durante la pandemia, queste diseguaglianze sono emerse con particolare evidenza, riaprendo il dibattito sull’effettiva capacità delle Regioni di gestire un diritto fondamentale come quello alla salute.
Un altro nodo cruciale è la presenza di strutture private all’interno del sistema sanitario. Accanto agli ospedali pubblici, anche cliniche e centri privati possono erogare servizi rimborsati dallo Stato, se accreditati; oppure offrire prestazioni in regime di mercato, esercitando le proprie attività secondo le logiche aziendali. Il principio ammesso nel nostro sistema è che pubblico e privato collaborino per ampliare l’offerta sanitaria, con l’avvertenza però – finché si rimane nel quadro dello Stato sociale – che il sistema pubblico sia chiamato a dare esauriente risposta alla domanda di servizi per la tutela della salute. Ma l’equilibrio tra questi due attori varia molto da una Regione all’altra. La Lombardia, ad esempio, ha fatto della “libertà di scelta” tra pubblico e privato un pilastro del proprio modello. Più che in altri territori qui si è sviluppato senza freni l’ambito di produzione private dei servizi per la salute, e i cittadini fanno affidamento su un’offerta sanitaria molto estesa, composta ampiamente anche da strutture private non accreditate, in un sistema sanitario che si ispira più alla logica del mercato che a quella del servizio pubblico.
Questo approccio, però, comporta rischi. I privati operano secondo logiche economiche, e se non ci sono condizioni vantaggiose possono anche decidere di non offrire determinati servizi. Il sistema può reggere solo se c’è una programmazione accurata da parte della Regione, che valuti il fabbisogno sanitario e coordini l’offerta. Ma questa programmazione, spesso, è debole o disomogenea.
Proprio in Lombardia, durante la crisi del COVID-19, il sistema ha mostrato difficoltà nel coordinare l’intervento di pubblico e privato. Una sanità fortemente polarizzata sulle strutture ospedaliere, ma carente sul territorio, ha faticato a rispondere in modo efficace. Il Ministero della Salute e l’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) hanno suggerito una riforma del modello lombardo, con una maggiore centralizzazione del governo del sistema. Ma la Regione ha scelto di mantenere inalterato l’impianto basato su otto agenzie locali, confermando la centralità dell’interazione tra pubblico e privato.
Dietro tutto questo c’è ovviamente una questione economica. Ogni Regione finanzia la propria sanità attraverso due canali principali: le imposte regionali (soprattutto IRAP e addizionale IRPEF) e i trasferimenti dello Stato. Le Regioni con un’economia dinamica e vivace riescono a coprire una parte consistente della spesa sanitaria con risorse proprie. Altre, invece, dipendono quasi completamente dai fondi statali.
Questo crea un sistema a due velocità. In teoria, lo Stato interviene per garantire l’uguaglianza tra cittadini. Ma nella pratica, le risorse disponibili variano molto da Regione a Regione. Le Regioni speciali, poi, trattengono una quota maggiore delle proprie entrate e gestiscono autonomamente la sanità, mentre quelle ordinarie devono negoziare ogni anno con lo Stato i fondi necessari.
I sistemi regionali hanno infatti attraversato molmenti di grande criticità. Alle Regioni in disavanzo sanitario sono stati imposti, orami quasi due decenni fa, “piani di rientro” per riportare i conti in equilibrio. In teoria avrebbe potuto essere un percorso virtuoso; in pratica, spesso si è tradotto in tagli ai servizi. Le Regioni in piano di rientro sono state costrette a chiudere reparti, ridurre prestazioni, rallentare assunzioni. Con effetti diretti sulla qualità dell’assistenza ai cittadini.
Rispetto a questa vicenda la Corte costituzionale ha chiarito un principio fondamentale: i livelli essenziali devono essere garantiti sempre, anche quando si taglia. Ma non sempre questo accade e in più, in alcuni casi, le Regioni hanno cercato di introdurre servizi innovativi senza prima garantire quelli essenziali, venendo richiamate dalla Corte affinché le prestazioni di base non soffrissero menomazioni.
Nel frattempo, il dibattito sul regionalismo differenziato ha preso slancio, e proprio in ambito sanitario esso ha sollecitato l’interesse di alcune Regioni a estendere le loro prerogative. La legge del 2024 di attuazione di questo modello offerto dalla Costituzione collega questa possibilità alla definizione chiara dei LEP: prima si stabilisce cosa va garantito in tutta Italia, poi si possono concedere nuove competenze. Ma definire i LEP è un’operazione tecnica complessa, che richiede dati, stime e standard condivisi. Farlo rapidamente, come previsto, rischia di portare a soluzioni frettolose e diseguali.
Un altro rischio è quello di finanziare le nuove competenze sulla base della “spesa storica”, cioè di quanto una Regione ha speso nel passato, senza riguardo per la qualità della spesa. Questo criterio, se non corretto, cristallizzerebbe le disuguaglianze: chi ha sempre avuto di più continuerà a ricevere maggiori risorse, mentre è verosimile che le Regioni più deboli resteranno indietro.
Il cuore del problema è proprio qui: come conciliare autonomia regionale e uguaglianza dei diritti? La sanità è un ambito troppo delicato per lasciare spazio a soluzioni sbilanciate. Per questo è necessario che Stato e Regioni collaborino. Lo Stato deve fissare le regole comuni e assicurare i fondi necessari; le Regioni devono organizzare servizi di qualità, senza dimenticare il principio di solidarietà.
La Corte costituzionale ha ribadito che il sistema deve restare a doppio livello: lo Stato non può assumere integralmente il servizio su di sé, ma nemmeno le Regioni possono agire in modo isolato. E ha anche ricordato che il rapporto tra pubblico e privato nella sanità deve essere governato con attenzione, perché I due comparti rispondono a logiche diverse: l’area pubblico a prescrizioni costituzionali, l’area privata a criteri di efficienza.
Il futuro del nostro sistema sanitario si gioca su un equilibrio delicato. Servono riforme, certo. Ma servono anche competenze, collaborazione istituzionale, responsabilità. E soprattutto, la consapevolezza che la salute non può diventare un privilegio territoriale, ma deve restare un diritto per tutti.