Si vis pacem, para bellum. Qualche lezione dalle crisi idriche di oggi, per gestire meglio quelle di domani
di Antonio Massarutto - DIES, University of Udine
Il cielo ci è caduto sulla testa
Che dal cambiamento climatico in atto sia da attendersi una maggiore probabilità e frequenza di fenomeni meteorologici estremi è una di quelle “verità”, ormai saldamente radicatasi nel discorso pubblico come un dato di fatto. L’aumento delle temperature, si dice, provocherà ondate di calore, tempeste di vento, piogge torrenziali alternate a lunghi periodi di siccità, grandinate, incendi: eventi che si sono sempre verificati nella storia, ma che sono destinati a verificarsi più spesso e con una maggiore intensità rispetto ai periodi storici precedenti.
Termini come “bomba d’acqua”, “downburst” e “supercella” sono divenuti familiari. Come, del resto, l’intensità delle ondate di caldo, i lunghi periodi senza pioggia, le ricorrenti e ormai quasi endemiche siccità estive (e non solo estive).
Per la verità, le prove empiriche a supporto di simili affermazioni non sono proprio granitiche. Per lo meno, non sembra esserci al momento chiara evidenza di trend in aumento. Lo stesso IPCC, nell’ultimo rapporto del 2023, sembra introdurre qualche elemento di dubbio sul fatto che la frequenza degli eventi sia effettivamente aumentata o stia aumentando, sebbene vi sia un generale consenso sul fatto che molto probabilmente ciò avverrà in futuro.
La casistica recente, ad ogni modo, è sotto gli occhi di tutti; ciò che colpisce, per lo meno rispetto all’esperienza storica documentata, è l’intensità istantanea. Le inondazioni catastrofiche che hanno colpito l’intera Romagna, ma prima altre aree in modo più localizzato ma non meno violento, come nel mio Tarvisiano nel 2003, hanno tutte una comune matrice: periodi eccezionalmente e prolungatamente caldi, dovuti all’invadente anticiclone africano, mettono in moto una grande quantità di energia che si accumula in atmosfera, finché prima o poi giunge finalmente l’aria fredda da nord. I venti spingono le nubi contro le montagne, ed ecco che nel giro di poche ore cadono tutte in una volta e in unico posto quantità d’acqua inimmaginabili, chicchi di grandine grandi come arance, e quando va bene copiose nevicate fuori stagione.
Il dibattito pubblico è polarizzato tra le posizioni dei catastrofisti e quelle degli ottimisti ad oltranza: da un lato l’isteria millenaristica di chi vede prossima la fine del mondo, dall’altro chi fa spallucce sostenendo che il clima ha sempre fatto i capricci fin dai tempi di Noè, che niente di nuovo avviene sotto il cielo, e che nel Medioevo faceva molto più caldo di oggi, eppure quel tempo passò alla storia come un optimum climatico e non come un tempo di calamità e disgrazie – contrariamente a quanto avvenne qualche secolo dopo con la “piccola era glaciale” (Behringer, 2013; Blom, 2018).
Mettiamo pure nel conto che ad essere cambiata, insieme al clima, è la nostra sensibilità a ciò che ci accade intorno. Per dire, oggi siamo giustamente scandalizzati dagli episodi di violenza da cui ci sentiamo circondati, ma sarebbe un grave errore di prospettiva pensare che il mondo di ieri fosse meno violento: al contrario lo era molto di più, era tanto pervaso dalla violenza che non ci si faceva neppure caso. Chi avesse dubbi può leggere quanto scriveva Luigi Meneghello della ridente campagna veneta, dove l’incesto e lo stupro erano cose normali, il bullismo era il principale strumento di socializzazione degli adolescenti, la gente si faceva giustizia da sé e ci si squartava tra vicini di casa per un nonnulla (Meneghello, 1963). Ci scandalizziamo anche dei casi di malasanità, omettendo però di ricordare che 50 anni fa la lista delle “malattie incurabili” era assai più lunga di oggi, e un banale incidente bastava per andare al Creatore o rimanere invalidi tutta la vita.
Con le calamità naturali è un po’ la stessa storia. Se un dato ci potrebbe colpire nella storia degli ultimi due secoli, è la costante diminuzione della mortalità associata ad eventi naturali (Ritche et al., 2023). La conta dei danni è in aumento, ma questo dipende soprattutto dal fatto che un territorio fittamente antropizzato offre alle calamità maggiori opportunità di distruggere cose di valore. Viviamo in un mondo molto più sicuro di un tempo, siamo così assuefatti alla sicurezza che ogniqualvolta essa viene meno l’imprevisto ci coglie di sorpresa; come osserva Harari (2013), è cambiato perfino il nostro rapporto con la morte, che da elemento fatalmente onnipresente è diventata un qualcosa da esorcizzare, conseguenza indesiderata di qualche errore o malfunzionamento.
Da qui l’affannosa ricerca delle colpe, la “caccia al responsabile” che si scatena ogniqualvolta accada un incidente, e ci induce a cercare soluzioni sull’onda dell’emozione, utili a placare l’ansia, ma quasi mai risolutive. Se anche può capitare che incuria, negligenza o errore umano abbiano qua e là amplificato gli effetti, è evidente che la questione è strutturale, e non può essere affrontata che con azioni strutturali, in una logica sistemica e integrata.
Pure, andrebbe notato che oggi le calamità ci fanno più impressione perché rispetto a prima sono enormemente migliorati i sistemi per rilevarne l’entità, e perché la comunicazione globale ci consente di esserne pienamente informati in tempo reale, con tanto di immagini e riprese dirette (Alimonti e Mariani, 2023). Aggiungiamo il sensazionalismo morboso dei media, e avremo forse compreso meglio i meccanismi ansiogeni che si mettono in moto – altrettanto repentini, ma ahimé anche altrettanto effimeri, delle forze convettive che scatenano le “bombe d’acqua”. Il che certamente non aiuta a trattarne con equilibrio e ragionevolezza quando, passata la tempesta, è giunto il tempo di mettersi al lavoro per ricostruire e scongiurare nuovi disastri.
Ciò è particolarmente vero nel caso dell’acqua. Come osserva assai finemente Giulio Boccaletti (2022), l’uomo moderno tende a dare per scontata la sicurezza (sia sotto il profilo dell’approvvigionamento idrico che della difesa dalle inondazioni), e a rimuovere il lungo percorso che ci ha permesso di conquistarla. Che dal nostro rubinetto sgorghi acqua potabile e che le piogge scompaiano dentro i tombini lo consideriamo ovvio e naturale, tanto da illuderci che l’acqua sia un “bene comune” donato dalla natura, e ci meravigliamo quando scopriamo su quanta sapienza tecnica, quanto lavoro accumulato nei secoli, quale complessa rete di infrastrutture e impianti industriali sia necessaria per rendercela disponibile quando serve e dove serve.
Così a malapena ci rendiamo conto che l’esistenza delle nostre città – ma anche delle nostre campagne più o meno urbanizzate, e delle infrastrutture che innervano il territorio, insomma di tutto l’uso del territorio ordinato e sub-ordinato alle nostre esigenze– dipende da opere idrauliche realizzate nel corso dei millenni: bonifiche, regimazione dei corsi d’acqua, acquedotti, fognature, sistemi di drenaggio delle acque meteoriche, depuratori.
Una ragione di questa rimozione sta probabilmente nel fatto che quelle opere sono state concepite e realizzate in tempi molto lontani, spesso ben prima che le generazioni oggi in vita venissero alla luce. Siamo tutti cresciuti in un mondo in cui la sicurezza idraulica era qualcosa di acquisito, percepito quasi come qualcosa di naturale. E a differenza dei nostri antenati, troviamo strana l’idea di dovercene occupare e di dover destinare risorse importanti alla sua manutenzione e rinnovo, distraendole dai nostri desideri immediati.
Tendiamo a dimenticare che al tempo dei Romani la pianura padana era un immenso acquitrino, e che gli insediamenti umani dovevano tenersi ben alla larga da corsi d’acqua facili ad imbizzarrirsi. Se oggi la stessa pianura è antropizzata in ogni centimetro quadrato della sua superficie, se in essa si concentra più di 1/3 della produzione agricola nazionale e il 40% del PIL italiano non lo dobbiamo alla generosità della natura ma alla laboriosa e secolare iniziativa che ha innervato il territorio di canali e imparato a sfruttare in modo razionale gli immensi serbatoi naturali dei laghi alpini.
Queste considerazioni possono riportare i fenomeni alla loro giusta dimensione, però non possono certo bastare. Che sia per l’aumentata frequenza e intensità, che sia per la maggiore vulnerabilità ed esposizione, che sia per la maggiore emotività ed apprensione con cui li guardiamo, la nostra fragilità di fronte alle forze della natura è ri-diventata evidente, e richiede la nostra piena attenzione.
La buona notizia è che gli spazi di cui disponiamo per andare serenamente incontro al futuro che ci attende sono ancora ampi. Checché se ne pensi, l’Italia è un paese ricco d’acqua: che non significa avere tanta acqua, ma averla quando serve, dove serve, a costi limitati. A questo provvedono le nostre montagne, i laghi (specie quelli alpini), le falde ovunque abbondanti. Questo ci ha permesso di costruire una civiltà fondata sull’acqua, con un dispendio relativamente limitato di “capitale artificiale” – nel cui sapiente uso peraltro eccelliamo sin dal tempo degli Etruschi. Prova ne sia il fatto che siamo sopravvissuti fino agli anni 90 con un sistema di gestione polverizzato in migliaia di piccoli e piccolissimi enti, a ciascuno dei quali bastavano le risorse reperibili in un limitato raggio di spazio. E ancor oggi, buona parte delle nostre reti idriche servono ambiti locali e non sono tra loro interconnesse.
L’Italia non si sta trasformando in un deserto, né incombe su di noi il Diluvio Universale. Piuttosto, dobbiamo renderci conto che l’era dell’abbondanza sta finendo, che non possiamo più far conto solo sulla generosità della natura, ma dobbiamo attrezzarci per accogliere i suoi doni e fruirne al meglio.
Dalla mitigazione all’adattamento
Mentre facciamo, giustamente, ogni sforzo per limitare e possibilmente azzerare il contributo antropico al riscaldamento globale, sarebbe però un grave errore quello di concentrare gli sforzi solo sulla mitigazione. Anche se le emissioni globali di CO2 si fermassero domattina, ci vorrebbero molti decenni prima che il clima si stabilizzi, e almeno 200 anni prima che si possa immaginare il ritorno a concentrazioni di CO2 simili a quelle preindustriali. Nel frattempo, che ci piaccia o no, con gli effetti del clima che cambia dobbiamo imparare a convivere.
La parola chiave è dunque adattamento. Occorre prendere atto del mutato contesto ed agire di conseguenza. Non però guidati dall’emergenza: occorre la consapevolezza che lo sforzo che ci viene richiesto è di lunga gittata, non si risolve con le alluvioni di denaro da spendere più in fretta che si può– come purtroppo sta avvenendo con le risorse stanziate dal PNRR.
Occorre pensare al “qui e ora”, non essendo praticabile una palingenesi urbanistica che ridisegni da cima a fondo il nostro territorio e il nostro modo di insediarvici. Pensare alla “città ideale” del XXI secolo può rappresentare un’affascinante sfida intellettuale e rivelarsi utile per i nuovi insediamenti o per le grandi trasformazioni laddove ci saranno, ma ben difficilmente si può immaginare di tornare indietro, anche perché il farlo comporterebbe non solo lo smantellamento di un intero sistema di difesa, ma anche lo spostamento di intere città, infrastrutture e zone suburbane.
I più avanzati modelli di gestione dei corsi d’acqua hanno nella “riqualificazione fluviale” il loro modello ideale (CIRF, 2006). In poche parole, ciò significa restituire spazio al fiume, permettendogli di “fare da sé” come la natura gli ha insegnato, divagando più liberamente, costruendo meandri e zone umide, favorendo il formarsi della vegetazione spondale e degli ecosistemi fluviali.
Ben difficilmente però questa filosofia potrà essere applicata su vasta scala e in modo sistematico. Altrove ciò è stato possibile, penso in particolare alla Germania e all’Olanda. Ma troppo diversi sono i contesti territoriali e soprattutto idraulici. Non dimenticherei pure che quei paesi hanno potuto giovarsi di un tessuto urbano reso più malleabile dalle distruzioni della guerra prima e dal massiccio processo di riconversione industriale di aree come la Ruhr, poi.
Ovviamente anche in Italia è indispensabile cogliere le opportunità che ci sono concesse quando sono in gioco trasformazioni territoriali di vasta portata, con particolare riferimento alle aree industriali dismesse, che un’indagine del Senato stimava addirittura nel 3% della superficie totale del Paese, cui vanno aggiunti spazi pubblici abbandonati (ex ospedali, caserme, scali ferroviari). Altri spazi potrebbero essere ricavati dalla ristrutturazione dell’agricoltura e una sua concentrazione nelle colture più redditizie, mentre le altre potrebbero essere temporaneamente sacrificate.
In uno studio di qualche anno fa condotto con Andrea Nardini abbiamo ad esempio esplorato tali possibilità in un bacino della sinistra Po, quello del Chiese nel Bresciano (Massarutto e Nardini, 2014). Lo studio mostrava come un sistema programmato di inondazione controllata delle superfici agricole di minor valore, insieme alla restituzione al fiume di più ampie possibilità di divagare secondo natura, potesse offrire opportunità di laminazione molto ampie a costi assai più bassi rispetto al tradizionale modello dell’arginatura, pensato in un’epoca in cui ogni ettaro di territorio strappato al fiume e potenzialmente coltivabile rappresentava una risorsa alimentare.
Proprio la storia della Romagna dovrebbe insegnarci qualcosa. La ricostruisce in modo puntuale ed efficace Vasilevski (2023) mostrando che fino al 700 essa era un territorio paludoso e inabitabile: i torrenti appenninici piombano su una pianura poco pendente e non riescono a raggiungere i fiumi principali. Ciò determina che questi corsi d’acqua finiscano per divagare in modo incontrollato, spostando continuamente e in modo imprevedibile il proprio alveo e risparmiando solo alcuni isolotti siti a quota altimetrica maggiore. A peggiorare le cose, il territorio fu oggetto da parte delle singole comunità di interventi estemporanei e non collegati tra loro, finendo per trasferirsi i problemi gli uni con gli altri. Fu solo l’illuminata visione di G.A. Lecchi, in pieno 700, a immaginare un assetto razionale, e ci volle l’intero secolo successivo per completare gli interventi (Menzani, 2010). Su questo impianto, che separa l’alveo dei fiumi principali dal reticolo di canali che raccolgono quelli minori, ancora oggi si basa l’assetto idraulico di quei territori.
Ecco, io credo che prima di tutto sia necessario recuperare quella visione orientata al lungo periodo e quella capacità di mobilitare tutte le possibili energie che caratterizzò in positivo quella stagione. Recuperando tra l’altro anche un rapporto con la tecnologia e la scienza meno fazioso.
Non sono così ingenuo da credere a una supposta “neutralità” della scienza e della tecnologia; è ancora Boccaletti (2022) a mostrare splendidamente come la storia del rapporto dell’uomo con l’acqua è storia delle tecnologie e delle opere con cui si è cercato di assoggettarle al controllo, ma è anche storia degli inevitabili conflitti tra gli interessi divergenti dei territori interessati, nonché delle istituzioni costruite per ricomporli.
L’Italia è tuttavia un paese in cui ogni dibattito tecnico tende a sovraccaricarsi di ideologia, faziosità e partigianeria politica, al punto che diventa impossibile ragionare in termini obiettivi.
Lo schema è ripetitivo fino alla nausea: le grandi opere sono “di destra”, la manutenzione ordinaria e i piccoli interventi non invasivi sono “di sinistra”. L’incenerimento con recupero di energia è “di destra”, mentre il riciclo e il compostaggio sono “di sinistra”. Il diesel è di destra, l’auto elettrica e la bici sono di sinistra (monopattini e banchi a rotelle non si sa bene: dicevano che non stavano né a destra né a sinistra ma “sopra”). Il nucleare è di destra, le rinnovabili di sinistra (ma se c’è di mezzo il paesaggio le carte si rimescolano, e allora va bene il pannello sul tetto di casa, ma non la centrale fotovoltaica sui terreni agricoli, per non dire delle pale eoliche). L’alta velocità è di destra, la mobilità lenta di sinistra (il trasporto regionale è terra di nessuno).
Anche nel campo più specifico dell’acqua la polarizzazione faziosa del discorso ripercorre strade analoghe. Da una parte le dighe, gli invasi, i grandi trasferimenti d’acqua, le casse d’espansione; dall’altra i laghetti collinari, il risparmio idrico, i tetti intelligenti, la libertà di divagazione del corso d’acqua e le constructed wetlands. Come se le une fossero sempre e per forza alternative alle altre.
Da una parte si mette sotto accusa l’urbanizzazione inevitabilmente “selvaggia”, la cementificazione immancabilmente “scriteriata”, il deficit di manutenzione. Dall’altra, si punta l’indice contro l’ambientalismo del no a prescindere, una cultura che ha portato a vedere negli argini un habitat per le nutrie prima che un’opera di difesa. Ingegneri da una parte, geografi e biologi dall’altra, in un assordante dialogo tra sordi.
Un decalogo per ripartire
Occorre in primo luogo pensare a un organico e razionale sistema di gestione del sistema idraulico sul territorio. La legge 183/89 fu una norma lungimirante, che per la prima volta affermava la logica del bacino idrografico come livello territoriale ideale per programmare gli interventi. Grazie a quell’impianto normativo disponiamo di un quadro conoscitivo finalmente attrezzato per cogliere le interrelazioni che a livello di bacino si manifestano.
Ma le Autorità di bacino – oggi Autorità di distretto idrografico dopo l’accorpamento deciso nel 2006 – sono un soggetto ancora troppo debole, prive di una reale capacità di controllare la spesa, e soprattutto prive di un contraltare sul lato della gestione.
Solo nel servizio idrico per usi civili il percorso di costruzione di un sistema di gestione moderno, avviato nel 1994 dalla “legge Galli” può dirsi ormai completo nella gran parte del Paese. Ne hanno tratto beneficio gli investimenti e la qualità del servizio, non solo perché si è ripreso ad investire stabilmente, ma anche perché finalmente guidati da una strategia orientata a programmare per obiettivi e in una logica di gestione del rischio (Berardi et al,.2021).
Nel campo della bonifica e irrigazione, un analogo percorso di consolidamento è da tempo in atto, sempre tuttavia rimanendo queste istituzioni confinate all’esclusiva funzione agricola. Occorre favorirne l’evoluzione verso vere e proprie “agenzie territoriali” con competenza sulla gestione dell’intero sistema idraulico secondario e delle acque meteoriche. Un esempio cui guardare con interesse è quello della Regione Toscana, che ha esteso all’intero territorio regionale la competenza dei consorzi di bonifica, investendoli appunto di questa funzione. I modelli cui ispirarsi non mancano, specie nel Nord Europa. Ciò favorirebbe l’abbandono di una cultura dell’intervento fondata esclusivamente sulle opere pubbliche in favore di un modello più orientato alla manutenzione e alla gestione ordinaria.
Altrettanto interessante è l’esperienza dei “contratti di fiume”, ormai capillarmente diffusi su tutto il territorio nazionale; che tuttavia devono evolvere dall’attuale versione minimale, che ne fa un tavolo soprattutto amministrativo, poco diverso da una “conferenza di servizi” permanente, verso qualcosa di organico e partecipato (Federico et al, 2022)
Gestione integrata significa unire sotto un unico centro decisionale la realizzazione delle opere e la loro gestione e manutenzione, in un rapporto quotidiano e diretto con il territorio e la popolazione.
Significa raccogliere e sistematizzare l’informazione e programmare in modo più razionale i sistemi di allerta e comunicazione, de-centralizzando il più possibile la gestione dell’informazione in modo che la comunità locale sia messa nelle condizioni di rispondere all’emergenza in modo rapido e ordinato. Il che vuol dire anche educare, esercitare, abituare a convivere con la possibile situazione di pericolo (Rosso, 2017).
Un esempio è rappresentato dal Friuli-Venezia Giulia, dove il sistema della Protezione Civile si è organizzato in Centri Funzionali Decentrati che si avvalgono di una corposa modellistica numerica che fornisce in modo continuo valutazioni delle criticità in atto, condividendole con le istituzioni locali (ARPA FVG, 2023). Si pensi che in molte aree del Paese ci si affida ancora a comunicazioni obsolete come il fax.
E significa anche “mettere a sistema” un insieme di infrastrutture che nel tempo sono state realizzate dai vari sistemi di gestione – idroelettrico, irriguo, acquedottistico, difesa del suolo – in modo quasi sempre scollegato e inconsapevoli gli uni degli altri.
Bastino due esempi. Nel 2003 l’Autorità di distretto del Po scongiurò i peggiori danni di una delle peggiori siccità dell’ultimo secolo, semplicemente portando nella “cabina di regia” appositamente istituita i gestori dei grandi invasi e concordando con loro un piano coordinato (Massarutto et al., 2015). Nel bacino del Livenza, nel Distretto Alto Adriatico, è stato possibile ridimensionare notevolmente un’opera di sbarramento, assai contestata dalla popolazione locale, semplicemente attrezzando due bacini idroelettrici a monte per lo svaso rapido in caso di previsione di precipitazioni intense (AAVV, 2008)
Punto secondo: le opere. Che servono, eccome se servono. Ma servono quando servono e dove servono, non servono a prescindere. E l’unico modo per sapere dove e quando servono è avere un soggetto gestore responsabilizzato sugli obiettivi. La diga del Bilancino, al tempo contestatissima, oggi disseta Firenze e in più è diventata un polmone verde e un’attrazione turistica. Senza Ridracoli e il CER, la Romagna sarebbe a secco con tanti saluti al turismo, oltre che alla frutticoltura.
Il PNRR, da questo punto di vista, rappresenta un’opportunità ma anche un grande pericolo, nonostante l’apparato di valutazione dei progetti di cui si è dotato. Alto è il rischio che pur di spendere in fretta le risorse a disposizione, si tirerà fuori dai cassetti ogni progetto anche il più balzano (Massarutto, 2023).
La storia del 900 è costellata di opere che “hanno dato più da mangiare che da bere”, sostenute da una robusta coalizione di costruttori, fruitori e burocrazie pubbliche erogatrici di risorse – quel “triangolo di ferro” che fin dai tempi del New Deal ha catturato la decisione pubblica dirottando risorse verso interventi che mai si sarebbero realizzati se i beneficiari avessero dovuto partecipare ad almeno una frazione del loro costo (Bressers et al, 1995).
Utilitalia ha presentato un piano-programma degli interventi strutturali ritenuti necessari: questi consistono in piccola parte nuove fonti di approvvigionamento (invasi, ma anche dissalatori, ricarica artificiale delle falde, riuso delle acque depurate e meteoriche), ma soprattutto in interventi volti a interconnettere le reti esistenti, distrettualizzandole e digitalizzandole
Punto terzo: occorre responsabilizzare maggiormente i cittadini, che da fruitori passivi devono diventare a loro volta operatori in prima linea. Molti danni e molte vittime si sarebbero potute evitare se i sistemi d’allarme avessero funzionato meglio, e tutti avessero avuto chiaro in mente come comportarsi. Sotto questo profilo è interessante l’esperienza della Regione Friuli Venezia Giulia, dove la Protezione Civile si avvale di una fitta rete di cooperazione che coinvolge e responsabilizza le istituzioni locali
Ma responsabilità del cittadino significa anche responsabilità economica, il che ci rimanda al “lato della domanda”, sia per quel che riguarda l’uso dell’acqua, sia l’esposizione al rischio.
Inevitabilmente, questo significa chiamare in causa il tema delle tariffe e della copertura dei costi da parte degli utenti, tema particolarmente sensibile in Italia – si pensi al referendum 2011. Ma non si deve confondere l’affermazione del sacrosanto diritto all’acqua con la necessità di inviare agli utilizzatori, anche tramite il prezzo, un segnale della crescente scarsità della risorsa. Ma la stessa logica che ormai si può ritenere acquisita nel campo del servizio idrico deve trasferirsi anche agli altri ambiti: a cominciare dall’uso irriguo dell’acqua, ancora concepito in una logica di “fabbisogno” che dà gli attuali modelli colturali come variabile indipendente, per arrivare soprattutto al tema della difesa.
Abituati all’idea che l’acqua c’è sempre, e quando non c’è si tratta di un evento così raro che viene decretato lo stato di emergenza e veniamo sollevati a spese della collettività; cosicché scegliamo colture particolarmente idroesigenti anche laddove non siamo certi di poter contare sull’apporto irriguo.
Un esempio lampante ce lo fornisce la scarsa propensione degli Italiani ad assicurarsi. In un recente studio dell’Agenzia Europea per l’Ambiente viene illustrato un interessante spaccato dei danni causati in Europa dalle calamità naturali negli ultimi 20 anni. Più che il valore assoluto di questi numeri quello che colpisce negativamente riguardo all’Italia è il peso modesto o trascurabile dell’assicurazione: solo il 5,7% dei danni è assicurato, contro il 40% circa di Francia, Germania, e Belgio e oltre il 50% di Olanda e Danimarca. Nel settore agricolo solo di recente hanno iniziato a diffondersi schemi assicurativi che combinano modelli attuariali di mercato con modelli mutualistici.
Il mercato assicurativo, tra le altre cose, offre il vantaggio di “prezzare il rischio”, permettendoci di individuare con maggiore precisione gli ambiti che è troppo costoso proteggere, e che potrebbero essere invece incentivati a rilocalizzare i propri insediamenti. E permetterebbero anche di incentivare sistematicamente, almeno nelle nuove costruzioni, tutti quegli accorgimenti costruttivi che possono essere adottati per mitigare il danno (Rosso, 2017). Così come l’efficienza energetica è diventata pian piano un fattore importante nel dare valore agli edifici, altrettanto dovrà diventarlo l’efficienza idrica
Punto quarto, è forse anche il caso di riformare il sistema di regole che disciplinano l’uso dell’acqua, stabiliscono le priorità di accesso e i diritti degli utilizzatori. Oggi, per dire, le Autorità di distretto – gli organi competenti secondo la nostra legislazione – non dispongono di strumenti efficaci per obbligare il razionamento della risorsa, dovendo per lo più ricorrere ad accordi volontari, che peraltro hanno consentito di limitare notevolmente i danni in occasione delle siccità più recenti, soprattutto con riferimento all’agricoltura e all’uso energetico. Va detto che oggi disponiamo di sistemi di pre-allerta e monitoraggio in grado di prevedere con largo anticipo le situazioni di crisi; ma ancora riesce difficile tradurre queste informazioni in strumenti operativi, proprio perché il sistema è ancora troppo prigioniero di diritti acquisiti e situazioni di fatto – oltre ad essere, come detto, estremamente rigido sotto il profilo strutturale.
La siccità si combatte soprattutto con la capacità di destinare la risorsa agli usi socialmente più meritevoli, sottraendola a quelli che invece ne traggono minore beneficio. Non si tratta di espandere l’offerta a prescindere, insomma, ma di consentire un migliore equilibrio tra domanda e offerta, atteso che anche per la prima esistono consistenti margini di efficientamento.
Uno studio da noi condotto sulla siccità 2003 nel bacino del Po mostra che i danni avrebbero potuto essere fino a 7 volte inferiori se si fosse potuto allocare l’acqua alle colture ad alto valore aggiunto, sacrificando le altre.
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Antonio Massarutto (1964) is a professor of Public Finance at the University of Udine and a Research Fellow of GREEN (Center of Research on Geography, Natural Resources, Environment, Energy and Networks) of Bocconi University, Milano) and SEEDS (Inter-university Centre of research on environment, sustainability and dynamics). His research activity is strongly applied and policy-oriented. It mainly focuses on applied environmental economics, industrial organisation and regulation of network industries, circular economy, water economics and policy, and waste management. He authored several publications, either in academic journals or addressed to the general public and the policy community. He is Associate Editor of Waste Management and Utilities Policy and Scientific Director of Economia Pubblica– The Italian Journal of Public Economics & Law. For a more detailed CV: https://people.uniud.it/page/antonio.massarutto
Antonio Massarutto (1964) è professore di Scienza delle Finanze all’Università di Udine e Research Fellow del GREEN (Center of research on Geography, Natural Resources, Environment, Energy and Networks) of Bocconi University, Milano) e del SEEDS, centro di ricerca inter-ateneo su Ambiente, Sostenibilità e Dinamica. La sua attività di ricerca, spiccatamente applicata e orientata alla policy, è focalizzata sull’economia dell’ambiente e delle risorse naturali, organizzazione e regolazione dei servizi a rete, economia circolare, economia e politica dell’acqua, gestione dei rifiuti. È autore di numerose pubblicazioni in ambito scientifico, istituzionale e divulgativo. È associate editor per le riviste internazionali Utilities Policy e Waste Management e direttore scientifico di Economia Pubblica – The Italian Journal of Public Economics & Law. Curriculum completo di pubblicazioni: https://people.uniud.it/page/antonio.massarutto