Qualche giorno fa il “Fatto quotidiano” si è impegnato a mettere in luce chi sono i finanziatori dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). La ragione di una tale attenzione è abbastanza semplice. Nasce dalla contestazione frontale e minuziosa fatta da Nona Mikhelidze, senior fellow dello IAI, ai testi di Daniela Ranieri, che il 23 maggio rispondeva alla critiche della studiosa sostenendo che erano opera di “temibilissimi agenti della propaganda Nato”, per poi instillare il dubbio: “lo IAI: riceve finanziamenti dall’industria della guerra? Se sì, da chi? e quanti soldi prede?”. Il 30 maggio scorso arriva la risposta alle domande della Ranieri e si tratta dell’articolo a firma Nicola Borzi dal titolo “Chigi, Eni e i colossi delle armi: i fondi allo IAI dell’atlantista Tocci”.
L’articolo ha una serie di imprecisioni, tanto per dire la senior fellow dello IAI non è mai stata un consulente del Ministero della Difesa. Tuttavia pare rispondere a tutte le domande della Ranieri, ed ha il grande merito di portare alla luce una serie di dati che erano già perfettamente in evidenza: basta andare sul sito dell’Istituto per trovare nella pagina non certo nascosta del “Chi siamo” una tabella semplice e chiara dove c’è scritto tutto.
Ma il punto non è questo: ognuno è libero di usare come vuole le informazioni pubbliche. Ciò che non convince è altro. In primo luogo, le conclusioni che si traggono da quella tabellina. In buona sostanza l’articolo di Borzi dovrebbe essere la prova che serve a sostenere la tesi della Ranieri: lo IAI non è un istituto indipendente visto che è finanziato dall’“industria della guerra”, il che significa, per la proprietà transitiva, che le critiche fattuali fatte Nona Mikhelidze altro non sono che parte della propaganda bellicista.
Eppure a guardare bene l’articolo di Borzi può essere un buono strumento per dimostrare proprio che lo IAI è indipendente. In primo luogo, la pluralità di finanziatori sta a significare che l’Istituto non è espressione di nessuno di essi in particolare: non si possono servire due padroni contemporaneamente, figurarsi una decina. In secondo luogo, in massima parte si tratta di istituzioni pubbliche, o aziende a partecipazione pubblica, il che vuol dire che sono controllate dal Parlamento, dalla magistratura, dalla Corte dei Conti e dalla libera stampa. In altri termini, si tratta comunque di istituzioni che agiscono sulla base di una agenda pubblica, costruita a seguito di un mandato democratico, dopo aver vinto libere elezioni. Infine, suggeriamo al “Fatto quotidiano” di guardare anche agli anni passati e noteranno facilmente come il flusso dei finanziamenti e i nomi dei finanziatori sono quasi sempre gli stessi, il che vuol dire che lo IAI ha ricevuto sostegno economico a prescindere dal colore dei governi e dalle maggioranza parlamentari e indipendentemente da quale fosse la situazione internazionale.
Ci sono altre due considerazioni da fare. La prima, è chiaro che l’articolo è parte di un ragionamento più ampio che non mira a confutare il debunking fatto da Nona Mikhelidze ma a screditare l’interlocutore e a non riconoscere alcuna legittimità alla sue tesi: non conta ciò che dici, ma vale per conto di chi parli, chi ti paga, nella granitica certezza che sono tutti prezzolati o in vendita. La seconda, dagli articoli del “Fatto” emerge una concezione del lavoro intellettuale davvero avvilente. Ricercatori e studiosi sono considerati poco più che dei pennivendoli, disponibili a sostenere qualsiasi tesi venga loro imposta dall’alto, tutti pronti a scrivere tutto e il contrario di tutto ogni volta che sentono il tintinnio delle monete lasciate cedere dai finanziatori. L’idea che ci possano essere degli studiosi seri che in scienza e coscienza fanno il loro lavoro è esclusa a priori.
La terza, al “Fatto” sembrano non sapere come funzionano queste cose. Le istituzioni pubbliche, in maniera diretta o indiretta, ma sempre trasparente, finanziano molti centri studi e lo fanno con costanza nel tempo. Il fine è duplice: da una parte sostenere attività di ricerca indipendenti, che tali non sarebbero se fossero sostenute in maniera prevalente da imprese private, come parte dello loro attività di lobbying o di marketing; dall’altra si tratta di sostenere voci indipendenti al di fuori delle catene gerarchiche della pubblica amministrazione, perchè producano riflessioni, ricerche, analisi perchè poi siano sottoposte ai decisori politici o ai dirigenti pubblici in modo che possano fare scelte più informate. Il altri termini, il flusso di informazioni procede in maniera opposta a quella immaginata dal “Fatto”. Questi centri studi non sono strumenti che servono a propagare e sostenere all’esterno tesi politiche elaborate dei vertici, ma producono analisi che vanno verso i vertici decisionali.
Per concludere, la vecchia massima del giornalismo d’inchiesta (“Follow The Money”) questa volta si è rivelata poco utile e, se era un modo per screditare l’interlocutore, allora ci pare che si è fatto un buco nell’acqua. Anzi il “Fatto” ha fornito buone ragioni per sostenere l’indipendenza dello IAI avendo messo in evidenza la pluralità dei finanziatori, la loro natura in prevalenza pubblica, e la loro stabilità nel tempo, a prescindere dalla stagioni politiche (sul punto si consiglia di indagare meglio).