di Francesco Paolo Colucci1
Si parla di tramonto dell’Occidente, anche con riferimento al libro (1918) di Oswald Spengler, apprezzabile soprattutto per il titolo suggestivo, che si riferisce alla crisi e alla fine di organizzazioni statali, assumendo la fine dell’Impero Romano come caso paradigmatico.
Un problema diverso è il tramonto di una cultura con il suo sistema di valori. A tale riguardo si può osservare che, se l’Impero Romano è finito, altrettanto non può affermarsi della cultura greco-romana. Questa, dopo il declino e la fine dell’Impero, si è incrociata con altre culture; semplificando, quella ebraico-cristiana e quella germanica, trasformandosi e arricchendosi, anche grazie al contributo della cultura islamica, e non solo per la mediazione con i classici della filosofia greca: si pensi alla matematica, all’algebra. Comunque, la cultura greco-romana non è semplicemente sopravvissuta: ha continuato a vivere. Si pensi, se ci si riferisce alla cultura ‘alta’, al rilievo primario del greco classico e soprattutto del latino in Germania e in Inghilterra, tra gli ex ‘barbari’. Più in genere, la cultura greco-romana trasformandosi ha permeato l’intera civiltà occidentale.
Questo è potuto accadere perché i ‘barbari’, prima emigrati in massa nei confini dell’Impero poi invasori e dominatori, avevano il mito di Roma che, come tutti i miti, aveva carattere di realtà, conseguenze reali: Odoacre inviò a Costantinopoli le insegne dell’ultimo imperatore da lui deposto e mandato in pensione a Baia, e chiese il riconoscimento del suo ruolo consolare all’Imperatore d’Oriente: una formalità in quanto tale significativa. Gli imperatori germanici andavano a Roma per essere consacrati. I serbi, ancora alla fine del XIV secolo, nelle loro ultime battaglie contro i turchi si lanciavano all’assalto nel nome di Roma – ad esempio.
Quindi, la fine dell’Impero Romano non va confusa con il tramonto dell’Occidente, se con questo termine si intende la cultura occidentale che, con il suo sistema di valori, ha una innegabile identità per quanto generale e differenziata. Un ‘Occidente’ da non intendersi evidentemente come entità geografica, dal momento che ne fanno parte a pieno titolo paesi come l’Australia e la Neo Zelanda e, con modalità diverse, paesi occidentalizzati come il Giappone e la Corea del Sud.
Attualmente invece questa stessa ‘cultura occidentale’ sembra avviarsi sul viale del tramonto con inconsapevole velocità. Questo può essere attribuito, come sua causa più immediata, alla differenza tra gli immigrati, i ‘barbari’, che invasero il decadente Impero Romano e gli immigrati, islamici, che sono arrivati e arriveranno nella decadente Europa di oggi. Una differenza sostanziale che in genere non viene rilevata, venendo talora proposte similitudini insensate tra queste migrazioni affatto differenti.
I popoli germanici erano portatori di una cultura diversa da quella greco romana, ma ‘debole’: la loro religione in quanto politeista non era integralista. Da qui la loro volontà di integrarsi nell’Impero, inizialmente respinta dal razzismo delle classi dirigenti romane a partire dalla corte imperiale, priva dell’antico potere, ma non dell’orgoglio. Da qui il mito di Roma, e il volersene fare eredi e continuatori.
Gli immigrati islamici di oggi sono portatori di una cultura ‘forte’, con antiche e solide radici; la loro religione di un monoteismo assoluto, appare connotata da un immutabile integralismo. La grande cultura islamica dei tempi di Avicenna e di tanti altri filosofi, scienziati, medici, dove nacque la prima Università moderna, che era complessivamente superiore (si pensi alle abitudini igieniche) alla cultura occidentale ha subito un processo involutivo attribuibile, come si può ipotizzare, all’invasione mongola e soprattutto alla lunga e opprimente dominazione ottomana; seguita in Medio Oriente, dopo la prima guerra mondiale, dal colonialismo inglese e francese; che tradì l’aspirazione alla libertà che gli stessi arabi si erano conquistata.
Questi caratteri della cultura islamica possono essere una spiegazione – non l’unica – delle difficoltà di integrazione, e anche del multiculturalismo, evidenti nei Paesi di più antica immigrazione islamica, come la Francia e il Regno Unito; difficoltà che riguardano anche gli immigrati di seconda e terza generazione. L’integrazione di successo di singole persone - i casi del sindaco di Londra, di alcune ministre in Francia sono i più noti ma non gli unici – resta un fenomeno elitario, positivo ma non risolutivo, di “mobilità sociale individuale” e non di “cambiamento sociale”.
Per queste considerazioni è insostenibile l’accostamento dell’attuale emigrazione islamica alla emigrazione dei popoli germanici alla fine dell’Impero romano. Per questo va riconosciuto che l’emigrazione islamica minaccia la cultura occidentale. La nostra cultura che va difesa, evitandone il tramonto, in quanto sin dalle polis greche che erano democratiche, pur se di una democrazia limitata ai privilegiati, riconosce il valore e la libertà del singolo soggetto, dell’individuo; in quanto si fonda sulla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, e sopra tutto sulla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen. (1789) che è la madre della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) - alla quale diversi Paesi islamici non hanno aderito - e di tutte le Carte Fondamentali dei Paesi Occidentali, compresa la nostra Costituzione. La nostra cultura che va difesa se capace di non ripetere le sue passate aberrazioni culminate con la Shoha, senza dimenticare il colonialismo che ha provocato milioni di morti – nel Congo Belga, ad esempio. Capacità di non ripetere le passate aberrazioni della quale si deve dubitare vedendo l’inutile e irrazionale scempio che Israele, “l’unica democrazia (occidentale) del Medio Oriente”, come si continua a ripetere e come effettivamente ancora è, sta compiendo a Gaza.
L’emigrazione degli islamici non può essere evitata, essendo ormai avvenuta e in quanto non sarebbe possibile evitarla, come è sempre stato per qualsiasi emigrazione L’idea di una Europa fortezza è tragicomica, anche perché le fortezze prima o poi crollano, con conseguenze disastrose per gli assediati. Dall’altro canto, continuare a ripetere che l’emigrazione è proficua, se non necessaria, come rimedio alla crisi demografica della “vecchia Europa” è rivelatrice di una rappresentazione del “terzo mondo”, degli ex colonizzati, come risorsa da sfruttare – ancora una volta. E non ha senso continuare a ripetere, per convincere i già convinti sostenitori dell’accoglienza, che l’emigrazione non va vista come un problema.
Le emigrazioni di massa invece sono, oltre che un processo inevitabile, un problema; come lo fu per i diffamati uomini di Neanderthal l’emigrazione dei Sapiens di provenienza africana. L’emigrazione islamica è un problema grave che va affrontato. La sua regolamentazione, se possibile e per quanto possibile, non può essere la soluzione. Bisogna quindi affrontare il confronto tra culture diverse quando non opposte. Un confronto che può diventare uno scontro o, per usare un’idea gramsciana sempre attuale, una “battaglia per l’egemonia culturale”. Una battaglia che come suo esito possa garantire il rispetto dei diritti inalienabili delle persone: quelli enunciati nella Déclaration del 1789, ribaditi nella Dichiarazione Universale del 1948, ai quali si riferiscono le Costituzioni degli Stati democratici. L’accettazione e il rispetto di tali diritti, e in Italia della nostra Costituzione, deve essere la condizione necessaria per l’accoglienza e la concessione della cittadinanza. Allo stesso modo, se si vuol proporre un simile paragone, la concessione della cittadinanza nell’Impero romano era subordinata alla accettazione della legge romana: venivano accettate e rispettate le diversità religiose e culturali a patto che non entrassero in conflitto con tale legge.
Una battaglia per l’egemonia culturale che deve coinvolgere in primo luogo le giovani e i giovani ‘occidentali’ ed islamici; le giovani in quanto, continuando le donne a essere in condizione di subordinazione nei rapporti di potere, sono e sarebbero le prime vittime di certi caratteri inaccettabili della cultura islamica, come evidenziano i casi estremi dell’Afghanistan, dell’Iran, di Gaza controllata da Hamas. Un coinvolgimento che deve iniziare sin dai primi livelli scolastici; non con lezioni frontali o con conferenze di esperti di provata inefficacia. Occorrerebbero invece discussioni di gruppo ben condotte su problemi di attualità, su episodi di cronaca - la buona pratica di leggere quotidiani e riviste in classe - su argomenti suscitati dall’insegnamento delle varie discipline, la storia specialmente. Questo al fine di formare tutti a una critica della cultura occidentale e delle altre culture, quella islamica in primo luogo: criticare significa discernere e separare per arrivare a cogliere la complessità, evitando le visioni unilaterali, l’esaltazione indiscriminata o la svalutazione e la condanna altrettanto indiscriminate.
La scuola ancora una volta emerge come il luogo privilegiato per il confronto tra egemonie culturali come riteneva Gramsci che pure era già consapevole che questa istituzione fosse solo una “frazione” della Società. Una frazione ora sempre più ridotta nel flusso continuo e difficilmente controllabile dei processi di comunicazione – socializzazione, eppure ancora di rilievo irrinunciabile: la scuola è il solo luogo dove può verificarsi l’indispensabile incontro/confronto tra culture diverse. Questo se non si attua l’idea delirante, che serpeggia nell’attuale maggioranza governativa, di formare classi con una prevalenza di italiani piuttosto che di immigrati o peggio con solo italiani o con solo immigrati.
I giovani islamici e ancor più le giovani islamiche vittime dei caratteri retrogradi della loro cultura sono attratti dalla cultura occidentale e, in primo luogo, come tutti gli esseri umani, dalla libertà che garantisce: un processo che va favorito.
Già professore ordinario di Psicologia Sociale, Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi Milano Bicocca
C'e una cosa da aggiungere a questo discorso. Non è tanto e solo una questione di Islam è anche una questione di comunicazione. Mi spiego. Gli oriundi immigrati Italiani in USA di inizio Novecento non avevano più contatti con la loro terra di origine se non via posta (se sapevano leggere). Nel giro di breve tempo il legame con la madre patria si scioglieva, tanto che gli italo-americani che parteciparono allo sbarco in Sicilia del 1943 si sentivano americani più che italiani e non si fecero problemi a sparare contro gli ex-connazionali dell'esercito di Mussolini.
Oggi un immigrato tramite i social è in contatto in tempo reale con i suoi connazionali a tempo indefinito. Quindi non smette mai di ricevere notizie da "casa" e fa molta più fatica a integrarsi.
Questa gente anche dopo 20 anni non andrebbe mai a combattere contro quei connazionali di cui ha ancora l'amicizia sui social. Questo lo dico non perchè voglio una guerra ma per dare una idea esatta della situazione.
Oggi con i social le radici si perdono con una lentezza enorme e si rimane più a lungo in quella TERRA DI MEZZO che è il terreno di cultura per estremisti e terroristi.