Terza Missione e valorizzazione della ricerca nelle università italiane
La Terza Missione delle università italiane rappresenta oggi uno degli snodi centrali nella ridefinizione del ruolo dell’istituzione accademica dentro la società della conoscenza. Accanto alla didattica e alla ricerca, alle università è chiesto di attivare in modo sistematico processi di interazione diretta con il territorio, con il tessuto produttivo e con la società civile, affinché i risultati delle attività scientifiche non rimangano confinati nella comunità degli specialisti, ma diventino risorsa per lo sviluppo economico, sociale e culturale. In questo quadro la rendicontazione delle attività di Terza Missione non è un adempimento puramente amministrativo, ma il momento in cui si cerca di misurare come e quanto l’università riesca a trasformare conoscenza in impatto. Tra i diversi ambiti di intervento, la valorizzazione della proprietà intellettuale e industriale e l’imprenditorialità accademica costituiscono la dimensione più strutturata, cioè quella che più chiaramente si presta a tradurre risultati di ricerca in beni e servizi, occupazione, fatturato e nuove traiettorie di innovazione. Per comprenderne il significato occorre entrare nel dettaglio delle definizioni, degli strumenti e delle logiche che guidano questo processo di trasformazione.
La diffusione dell’idea di società della conoscenza ha posto le istituzioni accademiche al centro di aspettative crescenti: non solo produrre ricerca scientifica e formare laureati, ma contribuire in modo diretto alla soluzione delle grandi sfide sociali, ambientali, sanitarie ed economiche. L’affermazione della Terza Missione come terza funzione istituzionale, formalmente riconosciuta accanto a didattica e ricerca, è parte di un processo di modernizzazione delle università che mira a renderle più integrate con l’ambiente circostante, meno chiuse nella propria autoreferenzialità disciplinare e più capaci di diversificare le fonti di finanziamento, soprattutto in contesti di risorse pubbliche limitate. In questo senso la Terza Missione viene spesso definita come l’insieme delle attività con cui l’università attiva processi di interazione diretta con la società civile, le imprese, le istituzioni, con l’obiettivo di sostenere la crescita di un territorio e rendere la conoscenza uno strumento per generare output produttivi, servizi innovativi, miglioramenti di benessere collettivo. La valorizzazione della ricerca e il trasferimento di tecnologie e competenze verso l’esterno rappresentano una delle declinazioni più evidenti di questa funzione.
Per valorizzazione della ricerca si intende l’insieme delle attività attraverso le quali la conoscenza originale prodotta scientificamente viene trasformata in conoscenza produttiva, cioè in un sapere suscettibile di applicazioni economiche, industriali o comunque operative. Non basta che un risultato sia pubblicato in una rivista o presentato in un convegno perché esso diventi immediatamente riutilizzabile in un processo produttivo o in un servizio. La valorizzazione è un processo attivo, che richiede sia iniziative da parte dei ricercatori sia l’intervento di strutture dedicate. Rientrano in questo percorso, ad esempio, il cosiddetto proof of concept, cioè la dimostrazione sperimentale che un principio funziona in condizioni che si avvicinano a quelle reali, la simulazione in ambienti controllati, la prototipazione, il testing su scala limitata, la definizione di modelli di business che mostrino come una determinata tecnologia o soluzione possa reggersi economicamente nel tempo. L’obiettivo non è solo verificare la fattibilità tecnica, ma anche identificare i possibili utilizzatori, i mercati potenziali, le forme di protezione della proprietà intellettuale e i canali attraverso cui trasferire la conoscenza a soggetti esterni.
All’interno di questo quadro la gestione della proprietà intellettuale rappresenta il primo pilastro strutturato della valorizzazione. Per proprietà intellettuale, nel contesto universitario, si intendono principalmente i brevetti di invenzione e i diritti di privativa su nuove varietà vegetali, cioè titoli giuridici che attribuiscono all’università o ai ricercatori un diritto di esclusiva sullo sfruttamento economico di una determinata invenzione o risultato. L’unità di osservazione utilizzata a fini valutativi è spesso la famiglia brevettuale: un insieme di domande di brevetto depositate presso uffici nazionali e internazionali che si riferiscono alla stessa invenzione. Per valutare la performance di un ateneo in questo campo si considerano almeno tre dimensioni. La capacità inventiva, che riguarda il volume di invenzioni brevettabili generate da inventori affiliati all’istituzione, in particolare nelle aree scientifico-tecnologiche. La capacità di gestione della proprietà intellettuale, che si misura nella quota di brevetti di titolarità dell’università, nella capacità di estendere la protezione in più paesi, di ottenere la concessione formale del titolo, indice di novità e utilizzabilità. Infine la valorizzazione economica del portafoglio, che riguarda la capacità dell’ateneo di generare entrate da cessione, licenza, accordi con imprese e costituzione di spin-off.
La valorizzazione economica del portafoglio brevetti è un indicatore critico, perché consente di distinguere un uso strategico della proprietà intellettuale da un mero accumulo di titoli. Le entrate considerate comprendono royalty, cioè pagamenti proporzionali all’uso dell’invenzione, somme una tantum, canoni ricorrenti, sempre al netto delle spese sostenute per il deposito e il mantenimento del brevetto. È importante sottolineare che l’aumento del numero assoluto di brevetti di titolarità universitaria non è, di per sé, un obiettivo desiderabile. Una politica orientata esclusivamente a massimizzare il volume dei depositi può incentivare la protezione di invenzioni marginali o di scarsa qualità, generando un portafoglio costoso da mantenere e povero di effettive ricadute. Si parla in questi casi di brevetti dormienti, cioè titoli che esistono dal punto di vista formale ma non trovano sbocchi di trasferimento. Un approccio maturo alla Terza Missione privilegia invece la qualità strategica del portafoglio e la sua capacità di inserirsi in filiere industriali e tecnologiche concrete, anche a costo di mantenere un numero complessivo di titoli più contenuto ma meglio gestito.
Il secondo elemento centrale della valorizzazione è l’imprenditorialità accademica, che trova espressione soprattutto nelle imprese spin-off e nelle start-up collegate all’università. Le spin-off sono imprese che operano sulla base di risultati di ricerca prodotti all’interno dell’istituzione e che mantengono con essa rapporti di collaborazione strutturati; per essere riconosciute come tali necessitano di un atto formale di accreditamento da parte del Consiglio di amministrazione dell’Ateneo. Le start-up collegate all’università sono spesso iniziative imprenditoriali fondate da studenti, dottorandi o laureati, concepite per sviluppare prodotti o servizi innovativi, anch’esse soggette a forme di riconoscimento e monitoraggio. In entrambi i casi l’obiettivo è l’impiego imprenditoriale dei risultati della ricerca e della didattica: ciò che nasce come conoscenza scientifica o come competenza avanzata viene trasformato in impresa, lavoro qualificato, soluzioni tecnologiche nuove. La valutazione di queste realtà si concentra su parametri come l’impatto occupazionale, misurato in termini di addetti equivalenti a tempo pieno con titolo universitario o di dottorato, e l’impatto economico, valutato sulla base del fatturato, del valore aggiunto e della capacità di raggiungere la sostenibilità finanziaria in un orizzonte medio-lungo.
Perché tutto questo possa funzionare in modo sistematico, non è sufficiente la buona volontà dei singoli ricercatori. È necessario un insieme di strutture di intermediazione e di trasferimento tecnologico che fungano da interfaccia organizzata tra università e contesto esterno. In molti atenei operano Uffici di Trasferimento Tecnologico, Industrial Liaison Office, uffici brevetti e uffici spin-off, affiancati da soggetti esterni quali incubatori, parchi scientifici e tecnologici, consorzi dedicati alla Terza Missione. Il loro compito è identificare risultati di ricerca potenzialmente valorizzabili, assistere i docenti nella protezione e gestione della proprietà intellettuale, costruire relazioni con imprese interessate, predisporre e negoziare contratti, facilitare l’accesso a programmi di finanziamento e accompagnare la crescita delle imprese spin-off nelle fasi iniziali. In questo ecosistema si inserisce Stroncature, che opera come soggetto terzo specializzato nell’analisi sistematica delle pubblicazioni, dei progetti e dei risultati scientifici e nella redazione di piani per la valorizzazione delle attività di ricerca, sia in chiave di disseminazione scientifica e culturale, sia in funzione del trasferimento tecnologico verso imprese, enti e società civile. I TTO e strutture analoghe sono stati spesso descritti come una forma di istituzionalizzazione della Terza Missione; Stroncature si colloca a supporto di questo livello istituzionale, contribuendo a dare continuità, metodo e capacità operativa ai processi di valorizzazione, che non restano così affidati a iniziative episodiche ma diventano parte di una strategia strutturata.
La misurazione dell’impatto di queste attività è un tema complesso. In una prima fase la valutazione della Terza Missione, soprattutto sul versante del trasferimento tecnologico, si è concentrata su indicatori economico-finanziari relativamente semplici da rilevare: numero di brevetti depositati, numero di licenze attive, entrate da contratti conto terzi, numero di spin-off riconosciute, fatturato aggregato di tali imprese. Questi dati hanno il vantaggio di essere facilmente comparabili, ma non sempre riescono a cogliere il reale impatto di lungo periodo sulle traiettorie di sviluppo industriale, sui processi di innovazione e sull’occupazione qualificata. Per questo motivo, negli esercizi valutativi più recenti, l’attenzione si è spostata dall’enfasi sui volumi alla ricerca di indicatori più qualitativi, come la significatività strategica del portafoglio brevettuale, la capacità di generare accordi di collaborazione continuativi, la presenza di casi studio che documentino in modo narrativo e documentato il valore aggiunto prodotto per specifici beneficiari. In parallelo, è cresciuta la consapevolezza che l’impatto da misurare non sia solo economico, ma riguardi anche dimensioni sociali, culturali, ambientali.
Infine, occorre ricordare che, nonostante la forte associazione iniziale tra Terza Missione e trasferimento tecnologico in senso stretto, il concetto si è progressivamente ampliato. L’interpretazione oggi prevalente non si limita allo sfruttamento economico della proprietà intellettuale, ma abbraccia l’apertura complessiva dell’università verso il contesto socio-economico mediante la valorizzazione e il trasferimento di conoscenze in molteplici forme. Si parla sempre più spesso di scambio di conoscenza, di università imprenditoriale e civica, di istituzione che agisce come nucleo produttore di sapere all’interno di un ecosistema territoriale, capace di dialogare con altre forme di conoscenza e con altri attori. In questo quadro la gestione del capitale intellettuale dell’università, inteso come insieme di risorse umane, strutturali e relazionali, diventa uno strumento per orientare la Terza Missione. L’obiettivo non è trasformare l’università in un’impresa commerciale, ma fare in modo che la valorizzazione della ricerca non indebolisca le altre missioni, bensì le rafforzi, attivando processi virtuosi di co-evoluzione tra sapere scientifico, industria, istituzioni e società.
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