Il trasferimento tecnologico è diventato un pilastro della “Terza Missione” accademica, accanto alla didattica e alla ricerca. Dalle università ci si attende oggi un contributo diretto all’innovazione industriale e allo sviluppo socio-economico, trasformando scoperte scientifiche in prodotti, imprese e benefici per la società. Un punto di svolta storico fu il Bayh-Dole Act negli Stati Uniti (1980), che permise alle università di brevettare i risultati di ricerche finanziate pubblicamente. Questa legge – definita dalla rivista The Economist “forse la più ispirata iniziativa legislativa americana in mezzo secolo” – ha inaugurato l’era dell’università che produce soluzione a problemi complessi, fornendo un modello poi emulato a livello internazionale. Oggi il trasferimento tecnologico è al centro delle strategie di molti governi, nella convinzione che l’investimento pubblico in R&S produca il massimo impatto quando le scoperte accademiche trovano applicazione nel mondo produttivo .
Negli Stati Uniti la rivoluzione Bayh-Dole ha generato un sistema maturo di gestione della proprietà intellettuale accademica. Le università statunitensi hanno creato uffici di technology transfer (TTO) che negoziano licenze e incubano start-up basate su brevetti universitari. I dati mostrano risultati notevoli: dal 1980 a oggi sono nati quasi 5.000 start-up da invenzioni universitarie negli USA, contribuendo alla creazione di 3,8 milioni di nuovi posti di lavoro () (). Si stima che tra il 1996 e il 2013 le licenze di tecnologie accademiche abbiano incrementato il fatturato industriale americano di oltre 1.100 miliardi di dollari (). L’esempio statunitense ha spinto altri Paesi a riformare le proprie normative. Ad esempio, Germania, Danimarca, Giappone e Cina hanno adottato politiche ispirate al modello Bayh-Dole (). In Giappone, dalla fine degli anni ’90 sono nati appositi Technology Licensing Offices nelle università, sostenuti da leggi nazionali che incentivano i brevetti accademici. Anche la Cina ha promosso aggressive politiche brevettuali: nel 2022 la Cina da sola ha rappresentato il 46,8% di tutte le nuove domande di brevetto nel mondo, un dato che riflette l’enorme sforzo delle università e dei centri di ricerca cinesi nel proteggere e trasferire le proprie innovazioni tecnologiche.
In Europa il panorama del trasferimento tecnologico è eterogeneo, segnato da diversi modelli di gestione della proprietà intellettuale. Tradizionalmente alcuni Paesi europei adottavano il cosiddetto “privilegio accademico”, in cui erano i professori a detenere i diritti sulle proprie invenzioni. Ciò avveniva ad esempio in Svezia e in Italia – quest’ultima dal 2001 riconosce ai docenti la titolarità dei risultati brevettabili delle ricerche pubbliche. Al contrario, Regno Unito e Paesi Bassi hanno da tempo assegnato alle università la proprietà dei brevetti, analogamente al modello americano. Negli ultimi decenni si è assistito a un convergere verso l’ownership istituzionale: nazioni come Danimarca, Finlandia, Germania e Norvegia hanno abolito il privilegio dei professori in favore della titolarità universitaria, nella speranza di replicare il dinamismo statunitense. I risultati indicano che il mero modello giuridico non basta da solo a garantire il successo: uno studio OECD ha rilevato ad esempio che nel periodo 2004-2010 l’Europa registrava un tasso di creazione di spin-off accademici (2,1 per istituto) persino superiore a quello nordamericano (1,1), ma la maggior parte di queste nuove imprese restava di piccole dimensioni (l’80% con meno di 10 addetti). Ciò suggerisce che oltre a brevetti e nuove imprese occorre sostenerne la crescita e la capacità di incidere sul tessuto economico.
Ogni paese ha sviluppato strutture dedicate per colmare il divario tra ricerca e mercato. Nel Regno Unito, università come Cambridge e Oxford hanno fondato uffici di trasferimento (Cambridge Enterprise, Oxford University Innovation) che gestiscono portafogli brevetti e aiutano a lanciare spin-off. In Francia lo Stato ha creato 13 Sociétés d’Accélération du Transfert de Technologies (SATT), consorzi pubblico-privati che dal 2012 operano come sportelli unici per il tech transfer regionale. Al 2019 le SATT avevano investito complessivamente 332 milioni di euro in progetti di “maturazione” tecnologica (proof of concept) e, al 2020, superato la soglia di 1.000 licenze di tecnologie rilasciate a imprese. In Germania, accanto agli uffici di trasferimento delle singole Hochschulen, un ruolo chiave lo svolgono enti come il Fraunhofer Gesellschaft e il Max Planck Innovation, che brevettano scoperte dei rispettivi istituti di ricerca applicata e fondamentale, facilitandone l’adozione industriale. La diversità di approcci riflette differenti culture accademiche: nei paesi di area germanica si è a lungo privilegiata la collaborazione diretta col settore produttivo (contratti di ricerca conto terzi, consulenze, laboratori congiunti) rispetto alla brevettazione, mentre nel modello anglosassone si punta maggiormente alla creazione di imprese high-tech e alla valorizzazione finanziaria dei diritti di proprietà intellettuale.
Le esperienze di alcune università di punta offrono esempi emblematici di strategie efficaci. Stanford, nel cuore della Silicon Valley, ha adottato precocemente un approccio imprenditoriale: il suo Office of Technology Licensing, fondato nel 1970, ha generato nel tempo un ecosistema virtuoso di innovazione. Grazie a politiche flessibili di licensing, Stanford ha visto nascere aziende come Google, Sun Microsystems, Cisco e molte altre, spesso avviate da studenti o docenti. Emblematico è il caso di Google: l’algoritmo PageRank sviluppato nei laboratori di Stanford fu brevettato dall’ateneo e concesso in licenza esclusiva ai fondatori della start-up in cambio di 1,8 milioni di azioni. Quando Stanford vendette quelle azioni nel 2005, incassò 336 milioni di dollari, reinvestiti poi in nuova ricerca e infrastrutture accademiche. Oggi Stanford genera in media oltre un centinaio di nuove invenzioni brevettabili ogni anno e nel solo 2023 ha stipulato 113 nuovi accordi di licenza, di cui 26 con start-up fondate da studenti o professori dell’ateneo.
Analoghe storie di successo si trovano altrove: il MIT di Boston, grazie a un robusto ufficio brevetti creato già negli anni ’40, conta attualmente circa 3.800 brevetti USA attivi e genera oltre 80 milioni di dollari annui in introiti da licenze. Dal 2000 ad oggi, più di 590 nuove aziende sono nate per sfruttare brevetti del MIT, e oltre 400 di queste risultano ancora operative, spesso sostenute da capitali di ventura. In Europa, l’ETH Zürich in Svizzera ha prodotto oltre 600 spin-off dal 1973 ad oggi, supportati da programmi dedicati: uno studio ha stimato che un terzo di queste imprese (145 analizzate) ha creato circa 4.500 posti di lavoro qualificati, con un valore equità complessivo vicino ai 10 miliardi di franchi svizzeri. Questi esempi indicano che quando l’università sviluppa una visione strategica – dotandosi di strutture di supporto, fondi seed, partnership industriali e una cultura favorevole all’imprenditorialità – la ricerca accademica può tradursi in un impatto tangibile sul tessuto economico locale e globale.
Fonti
Technology & Inventions - Facts
Office of Strategic Alliances and Technology Transfer – Technology ...
ETH Zurich Spin-off Report 2024 - ETH Zürich
University-Industry Collaboration: New Evidence and Policy Options
WIPO IP Facts and Figures 2023 - WIPO - World Intellectual Property ...
University Entrepreneurship and Professor Privilege
Spin-Off–University Relationship | Encyclopedia MDPI
How ETH Zurich spin-offs strengthen the Swiss economy | Science|Business
Les sociétés d'accélération du transfert de technologies (SATT)