Autonomia ordinaria, speciale, differenziata: troppi modelli per un regionalismo equilibrato e solidale
di Camilla Buzzacchi1
L’andamento dell’esperienza regionale è stato irregolare e variabile nel tempo, poiché dopo i primi decenni della Repubblica nei quali sono sorte grandi aspettative è arrivata la stagione dell’istituzione delle Regioni con autonomia ordinaria che, nell’arco di circa vent’anni, ha generato insoddisfazione e delusione. Queste istituzioni si sono dimostrate poco più che strutture votate all’amministrazione sanitaria, cosicché il tentativo di rilancio e di recupero della loro identità anche politica negli anni Novanta ha riacceso la fiducia dell’opinione pubblica e degli studiosi. Prima le riforme a Costituzione invariata e poi la revisione costituzionale del Titolo V del 2001 hanno lasciato presagire il loro rilancio: ma di nuovo questi enti hanno tradito la loro missione. In tanti casi hanno dimostrato una gestione incompetente delle risorse, e il pensiero va all’ampia casistica dei dissesti sanitari che hanno riguardato Regioni del Nord e del Sud; in alcuni casi hanno messo in atto una gestione anche illegale della spesa, come attestano gli scandali collegati a diversi gruppi consiliari. È così maturato addirittura un sentimento avverso alle autonomie, volto al loro ridimensionamento se non addirittura alla loro soppressione.
Come si è provato ad eliminare le Province, con operazioni goffe e mal predisposte che comunque alla fine hanno determinato il “declassamento” delle medesime come enti non più rappresentativi nel 2014, così anche le Regioni sono apparse come livello ormai inutile circa un decennio fa: il ddl di revisione costituzionale Renzi-Boschi ha mirato a limitare la loro potestà legislativa, ridimensionando il catalogo delle loro funzioni, ma il risultato non è stato raggiunto. È occorsa un’emergenza pandemica per riproporre seri interrogativi sulla tenuta dei sistemi sanitari regionali: considerato che il 70/80% dei bilanci delle Regioni sono rappresentati da spesa per la tutela della salute, l’opportunità di mantenere questa articolazione territoriale, che con grande affanno ha dato la dovuta risposta all’eccezionale domanda di sanità degli ultimi quattro anni, è diventata una questione su cui ancora discutere.
Alla luce di questo sintetico quadro dello stato di salute del regionalismo, il percorso attuativo della previsione costituzionale di attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” conduce a vederlo come uno sviluppo veramente singolare: cala sulla scena pubblica in un passaggio storico di rinnovata sfiducia nei confronti delle Regioni; ma è assunto da alcune di queste come il passo decisivo e irrinunciabile per portare a pieno compimento il disegno autonomistico.
Si può riflettere sul fatto che, quando nel 2001 si è inserita questa possibile opzione nell’art. 116 Cost., le esigenze a cui dare risposta erano quelle di fermare la spinta al secessionismo, inseguito dal movimento politico della Lega Nord; e al tempo stesso di rigenerare il ruolo delle Regioni, puntando all’introduzione dell’asimmetria e aprendo ad una variazione del perimetro delle competenze, sulla base di un processo del tutto facoltativo. Si ambiva a valorizzare le peculiarità presenti in alcuni territori e non avvertite in altri, per rendere possibile il trasferimento di selezionate competenze, idonee a garantire un governo “differenziato” delle stesse peculiarità.
La parola chiave è allora quella della differenziazione, che è idonea a premiare la capacità delle distinte comunità territoriali di regolare in maniera indipendente le proprie tipicità, che costituiscono per l’appunto differenze. Queste ultime da considerare come valore, e dunque un bene che può essere garantito attraverso regimi giuridici a sé: purché compatibili con l’interesse e l’unità nazionale, secondo la logica dell’art. 5 Cost. La formula di autonomia differenziata si è affermata nel dibattito scientifico e nella dialettica politica, ed è stata accolta nell’intitolazione della legge recentemente approvata n. 86 del 2024 Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Sulla base di questa disciplina ci si attende che le Regioni si candidino ad un ampliamento di funzioni: circa il loro numero, sorgono enormi questioni di opportunità e di sostenibilità. Esistono infatti delle pre-intese, ereditate dalla precedente legislatura, che non sembrano coerenti rispetto alla filosofia che si è illustrata, perché presentano un certo tasso di uniformità e rifuggono dalla differenziazione. Ma soprattutto occorre considerare che ogni materia, di quelle che potrebbero essere oggetto di intesa, si articola al suo interno in molteplici sotto-ambiti, che aprono ad una responsabilità amministrativa di imponente entità per le attuali burocrazie regionali. Vi è dunque da chiedersi se le Regioni abbiano piena consapevolezza dell’impegno amministrativo e finanziario che comporterà trasferire ambiti quali quelli dei diritti sociali e del governo del settore economico e del territorio, ai quali finora ha in gran misura provveduto il livello dello Stato.
Ma soprattutto se l’indirizzo sarà quello di tante Regioni che si candidano alla totalità delle competenze concorrenti, l’esito non potrà essere quello dell’asimmetria, ma di una nuova replica dello schema del 1948: quello di due livelli di autonomia, della specialità e di una nuova ordinarietà, che potrà caratterizzarsi per maggiori competenze – e di conseguenza maggiori risorse – in capo al nuovo livello di autonomia, che continuerà a presentare elevati caratteri di omogeneità. Molta più omogeneità che differenziazione.
Il punto cruciale dell’operazione in corso è infatti quello della quantificazione delle risorse: soprattutto finanziarie, ma anche umane e patrimoniali. L’indicazione della Costituzione è netta: vincola la proposta di una maggiore autonomia alla coerenza con le tipologie di entrata contemplate dall’art. 119, e proprie della qualità ordinaria dell’autonomia. Pretende dunque che si ricorra a tributi ed entrate proprie, a compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al territorio, a trasferimenti a partire da un fondo perequativo. Ora il punto è che il meccanismo di avvio della differenziazione è quello di un’intesa tra la Regione ed il Governo, che il Parlamento dovrà riversare in un provvedimento legislativo da approvare a maggioranza assoluta: le risorse a sostegno delle nuove competenze da acquisire dovrà obbligatoriamente essere in sintonia con tale quadro di entrate. Il Parlamento, quale istituzione preposta a salvaguardare l’interesse nazionale, sarà chiamato a valutare se tale quantificazione comporterà dei riflessi sul sistema di finanza pubblica generale, sull’erogazione dei servizi e dunque – in ultima, ma in realtà prima istanza – sull’eguaglianza.
Al contrario, la legge n. 86/2024 va in altra direzione. Dispone infatti che l’intesa formuli solo criteri per la definizione delle risorse, ma la loro precisa quantificazione viene rimessa ad una commissione paritetica Stato-Regione-enti locali con il compito di elaborare i termini precisi della proposta riguardante le varie tipologie di risorse, che il Governo accoglierà poi con decreto. Questa è niente altro che la replica del modello della specialità, che è stata costruita storicamente attraverso le commissioni paritetiche. Ciò è confermato dalla fonte finanziaria su cui verrà eretto il regionalismo differenziato: in modo piuttosto essenziale, l’ultimo comma dell’art. 5 della legge n. 86/2024 enuncia il criterio di finanziamento delle materie da trasferire, ovvero le “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”. Questa è risorsa coerente e legittima rispetto all’art. 119 Cost., ma appare anche l’unica – tra le varie previste da quella disposizione – che viene candidata a copertura delle nuove competenze. Tralasciando completamente di ricorrere a quella più in sintonia con una dimensione nuova di autonomia, ovvero il tributo proprio: che appare, evidentemente, troppo ambizioso e rischioso per le Regioni che si vogliono “differenziare”, posto che mette molto più in gioco la responsabilità politica di questi enti. Se si considera che la finanza delle Regioni speciali si fonda prevalentemente sul meccanismo delle compartecipazioni e che il suo funzionamento risulta normato da accordi bilaterali tra ciascuna autonomia speciale e lo Stato, l’impressione è che il modello a cui ci si rivolge sia quello della replica della specialità in altre aree. L’obiettivo ormai neanche più troppo nascosto è quello di pervenire ad assicurarsi il trattenimento dei sei, sette, fino a dieci decimi del gettito prodotto dai territori: cosicché Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna potrebbe arrivare a diventare nella sostanza le nuove Regioni speciali, celandosi dietro l’etichetta di Regioni differenziate.
È noto che nel 2014 il tentativo del Veneto è stato quello di vedersi riconosciuta addirittura l’indipendenza: la sent. n. 118/2015 della Corte costituzionale ha fermato questa operazione, e ha dichiarato incostituzionale la legge regionale che intendeva indire una consultazione referendaria per tastare l’inclinazione del “popolo” veneto verso questo destino di autosufficienza. Ma a breve il disegno di “emancipazione” è stato ripreso, perché anche la Lombardia si è unita, cosicché le due Regioni, forti di una pronuncia popolare costituzionalmente non dovuta ma dal grande impatto mediatico, hanno potuto presentare proposte di intese al Governo: seguite poi dall’Emilia-Romagna. Le tre istituzioni del Nord hanno preteso la restituzione del c.d. residuo fiscale, che è stato poi ritenuto argomento giuridicamente insussistente dalla Corte costituzionale con la sent. n. 83/2016; ma che funziona da argomento assai efficace in un’epoca di forte individualismo e identità territoriale, nella quale pare smarrirsi ogni senso di solidarietà nazionale.
Se si tiene conto anche del fatto che l’iter di attuazione del processo di differenziazione normato dalla legge n. 86/2024 è di dubbio rispetto dei dettami procedurali pretesi dall’art. 116.3 Cost., nella misura in cui marginalizza il Parlamento, troppe sono le criticità che si vedono all’orizzonte. La torsione dei passaggi previsti, con il proposito di privilegiare l’interazione bilaterale tra la Regione e lo Stato, rischia di produrre effetti del tutto nefasti: quello anzitutto della squilibrata distribuzione delle risorse finanziarie, che verosimilmente determinerà la difficoltà per alcuni territori nel garantire i servizi e, dunque, nell’assicurare l’eguaglianza; quello dall’esautoramento del Parlamento, che ratificherà con legge delle intese a cui non ha dato alcun contributo; quello infine dell’incapacità amministrativa delle Regioni a seguito del raggiungimento dell’asimmetria, se le nuove funzioni si dimostreranno più complesse del previsto quanto al loro esercizio. Nella competizione con lo Stato, le Regioni in via di differenziazione rischiano di risultare perdenti e di avere calcolato erroneamente la solidità delle proprie strutture: tanto è vero che nella legge n. 86/2024 si contempla ipotesi di ricorso a trasferimenti extra che, seppur negati laddove si proclama il principio dell’“invarianza finanziaria”, non si potrebbe rinunciare ad effettuare se necessari.
Pare allora di poter concludere che l’attuazione dell’art. 116.3 Cost. sia suscettibile di mutare l’equilibrio tra le istituzioni dello Stato, tra le amministrazioni del territorio, nonché tra le situazioni personali dei singoli. Una facoltà messa a disposizione dalla Costituzione va valutata nei tempi e negli effetti della sua realizzazione: e accantonata, se tanti elementi concorrono a dimostrare che la sua manifestazione compiuta potrebbe generare più criticità che benefici.
Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale, Università Milano-Bicocca
La sanita a base regionale e una vera follia. Vi racconto un esempio personale.
Nel 2021 faccio la prima vaccinazione Covid. Poi per ragioni di lavoro cambio regione.
Al momento del richiamo (seconda vaccinazione) anche se la legge me lo consentiva, non mi hanno voluto fare il richiamo nella regione dove mi ero spostato. Ho dovuto prendere l’aereo, volare nella mia regione di provenienza, farmi vaccinare li e poi rientrare la sera stessa nell’ altra regione dove mi ero spostato. Questo perche le 20 regioni hanno 20 database che non comunicano. Ha senso tutto questo ?