Qualche giorno fa si diceva che, nella migliore delle ipotesi, le piattaforme social possono essere considerate solo delle piattaforme per inserzioni pubblicitarie che premiano i contenuti polarizzanti ed estremi ed ignorano tutto il resto, il che significa che pensare di poter diffondere via social contenuti seri, moderati, approfondimenti, analisi o usarli come piattaforme per la divulgazione scientifica è quantomeno illusorio. Ma c’è di peggio, è sempre più evidente come quelle piattaforme sia ora diventati degli strumenti che servono ai loro fondatori a perseguire precisi obiettivi politici, il che vuol dire che più una piattaforma è partecipata e popolata maggiore è la legittimazione politica dei loro proprietari. Il che li accredita presso le sfere politica e d’altro canto serve loro per diffondere i messaggi graditi a quelle sfere politica. Di fatto, dunque i social sono piattaforme politiche, al servizio di specifiche fazioni o singoli leader, il che le rende dei luoghi particolarmente inadatti alla comunicazione delle istituzioni pubbliche. Ma andiamo con ordine.
Il modello di business delle piattaforme
Le piattaforme social media vengono spesso presentate come spazi neutrali di libera espressione. In realtà, sono aziende pubblicitarie il cui obiettivo primario è massimizzare il tempo che l’utente trascorre online e l’interazione con i contenuti, così da vendere più spazi pubblicitari. Il risultato è che gli algoritmi di queste piattaforme privilegiano i contenuti più capaci di generare engagement – clic, commenti, condivisioni – piuttosto che offrire un’agorà neutrale. Studi recenti confermano che c’è una sproporzione di contenuti estremi e controversi nei feed degli utenti, dovuta a questa logica: esiste un “disallineamento” tra l’obiettivo commerciale degli algoritmi (massimizzare le interazioni) e il modo in cui le persone elaborano le informazioni, un disallineamento che “può portare ad una maggiore polarizzazione e disinformazione” 1. In altre parole, la priorità data ai contenuti che scatenano reazioni emotive forti (sdegno, paura, indignazione) crea un ambiente dove le opinioni moderate e i dati fattuali faticano a emergere.
Facebook, per esempio, ha introdotto anni fa reazioni emotive (come l’emoji “arrabbiato”) e i documenti interni hanno rivelato che il suo algoritmo attribuiva a queste reazioni un peso cinque volte superiore rispetto a un “mi piace” tradizionale2. Questo significava che post capaci di far arrabbiare o entusiasmare gli utenti ottenevano una diffusione molto maggiore, anche se spesso tali contenuti risultavano essere fake news o materiale tossico3. Un’analisi accademica recente ha ribadito che la progettazione dei sistemi di raccomandazione in funzione dell’engagement tende a sfruttare certe vulnerabilità della psicologia umana, amplificando divisioni e contenuti estremi4.
Di conseguenza, le piattaforme social non possono più essere considerate luoghi neutri di conversazione pubblica: il loro modello economico incentiva strutturalmente i contenuti più sensazionalistici e polarizzanti, perché questi mantengono gli utenti “incollati allo schermo” più a lungo. La libertà di espressione su questi network, quindi, è condizionata e distorta da meccanismi che premiano la visibilità in base alla reazione emotiva suscitata, non al valore informativo o alla veridicità. Come hanno notato i ricercatori della Northwestern University, gli utenti stessi dichiarano di essere esausti e scontenti per la sovra-rappresentazione di contenuti politici estremi o polemici nei loro feed – un indicatore del fatto che l’esperienza è plasmata dall’algoritmo in funzione dell’engagement più che da una neutra sequenza cronologica di opinioni diverse. Questo d’altro canto significa anche che tutti gli altri contenuti che non siano sensazionalistici o polarizzanti, trovano poca o nessuna diffusione. Il che vuol dire che, per fare un esempio, una università che vuole usare i social per diffondere i risultati di una ricerca, un convengo in programma, o un articolo scientifico rischia vedere i proprio contenuti “oscurati” dalla piattaforma: sono online, ma l’algoritmo non li mostra a nessuno.
Da strumenti social a strumenti politici dei fondatori
In principio Facebook, Twitter e altre piattaforme potevano essere viste come strumenti di connessione sociale e, potenzialmente, di libera espressione. Col tempo, però, il potere acquisito da queste reti e il controllo esercitato dai loro proprietari le ha trasformate in strumenti per agende politiche specifiche. I fondatori e CEO – figure come Mark Zuckerberg e, più recentemente, Elon Musk – hanno iniziato a intervenire direttamente sulla direzione politica del dibattito sulle loro piattaforme, piegandole ai propri obiettivi o alle proprie simpatie ideologiche.
Elon Musk: X come megafono politico personale
L’esempio più eclatante è Elon Musk con Twitter, oggi rinominato X. Dopo aver acquistato Twitter nel 2022, Musk ha più volte dichiarato di voler garantire maggiore “libertà di parola” sulla piattaforma. Nei fatti, questa crociata si è tradotta in scelte allineate con gli ambienti dell’estrema destra americana e con le posizioni di Donald Trump. Secondo analisi giornalistiche, Elon Musk sta “utilizzando attivamente X... per promuovere i suoi interessi politici di estrema destra”, trasformando la piattaforma nel “suo megafono politico personale”5. Tech journalist Casey Newton ha osservato che X è ormai diventato “un progetto politico” nelle mani di Musk.
Concretamente, Musk ha ribaltato le politiche di moderazione di Twitter: ha ripristinato account precedentemente banditi di figure dell’ultradestra (come il nazionalista bianco Nick Fuentes e il teorico del complotto Alex Jones) e allentato le regole sui contenuti, smantellando di fatto i team interni che si occupavano di sicurezza e integrità elettorale. Queste mosse hanno creato un ambiente più permissivo verso odio e disinformazione, tanto che “la disinformazione è fiorita su X sotto la leadership di Musk”6. Non a caso, da quando Musk è proprietario, molti utenti di orientamento conservatore/reazionario percepiscono X come più accogliente, mentre numerosi utenti progressisti e persino istituzioni hanno abbandonato la piattaforma proprio a causa dell’aumento di contenuti tossici e falsi7.
Sul piano strettamente politico, Musk ha di fatto preso posizione a fianco di Donald Trump. Nel novembre 2022 ha riattivato l’account di Trump, che era stato bannato dopo i fatti del 6 gennaio 2021, invitandolo a tornare (Trump inizialmente ha declinato, preferendo il proprio social Truth Social)8. Dopodiché Musk stesso, pur dichiarandosi in passato vicino ai libertari e ai democratici, ha virato sempre più a destra nelle sue esternazioni. Nel 2023–24 ha condiviso e amplificato teorie del complotto di estrema destra (ad esempio insinuando che un attentato contro Trump fosse dovuto a un complotto interno)9, ha parlato di combattere il “virus woke” e attaccato pubblicamente figure progressiste. Nel luglio 2024 Musk ha addirittura annunciato il suo sostegno ufficiale alla candidatura presidenziale di Trump, trasformando così X in una piattaforma apertamente schierata. Subito dopo l’endorsement, Musk ha intensificato gli sforzi a favore di Trump: ha ospitato Trump in diretta streaming su X e ha lanciato un comitato d’azione politica (PAC) pro-Trump, arrivando persino a promettere inizialmente 45 milioni di dollari al mese di finanziamento (salvo poi fare marcia indietro)10. Queste azioni mostrano come Musk stia sfruttando il suo controllo su X per influenzare l’esito politico: un giornale lo definisce ormai “un assistente stretto del presidente eletto Trump”11, sottolineando la sua vicinanza alla campagna trumpiana. In sintesi, Twitter/X non è più un’arena neutra, ma uno strumento nelle mani di Musk per perseguire obiettivi politici personali, in larga misura coincidenti con quelli di Donald Trump e dell’estrema destra USA.
Mark Zuckerberg: Facebook tra business e politica filo-Trump
Diverso nei toni, ma analogo nella sostanza, è l’avvicinamento di Mark Zuckerberg a Donald Trump attraverso Facebook. Zuckerberg inizialmente ha cercato di mantenere Facebook in una posizione pubblicamente neutrale, soprattutto dopo le critiche seguite all’elezione di Trump nel 2016 (quando emerse che la piattaforma era stata terreno fertile per fake news e propaganda mirata). Col passare degli anni, però, sono diventati evidenti numerosi segnali di allineamento tattico tra Zuckerberg e l’amministrazione Trump – spesso nel tentativo di proteggere gli interessi di Meta (la società madre di Facebook) da interventi governativi o danni reputazionali.
Già durante la presidenza Trump, Zuckerberg evitò di intraprendere azioni decise contro la disinformazione diffusa dal presidente sulla propria piattaforma. Ad esempio, nel 2020 Facebook fu criticata per non aver rimosso o segnalato post di Trump controversi (come quelli sul voto per corrispondenza o sulle proteste razziali), post che altre piattaforme invece moderarono. Emersero notizie di incontri privati tra Zuckerberg e Trump, tra cui una cena alla Casa Bianca nel 2019, percepiti da molti come un tentativo del CEO di Facebook di mantenere buoni rapporti con il presidente allora in carica12. Questa prudenza verso Trump si può leggere in controluce: da un lato la volontà di Zuckerberg di evitare scontri frontali con un presidente popolare tra la base di Facebook, dall’altro la protezione del suo business da possibili ritorsioni politiche (Trump all’epoca minacciava la revoca delle tutele legali per i social media e accusava spesso Facebook di censura anti-conservatrice).
Dopo la presidenza Trump, l’atteggiamento di Zuckerberg e di Meta non è affatto diventato più “distante” dalla politica partigiana, anzi. Negli ultimi tempi Zuckerberg ha preso decisioni forti che paiono agevolare un ritorno di Trump sulla scena social e accontentare le richieste della destra. Un esempio lampante: a gennaio 2023 Meta ha annunciato la fine della sospensione dell’account Facebook di Donald Trump, riabilitandolo dopo due anni di ban seguiti all’assalto del Capitol. Questa mossa – resa possibile anche dall’istituzione di nuove linee guida e da un parere favorevole dell’Oversight Board – è stata letta da alcuni osservatori come un tentativo di riavvicinamento di Zuckerberg a Trump in vista delle elezioni 2024. In parallelo, Meta ha progressivamente smantellato alcune politiche di controllo dei contenuti che Trump e i conservatori criticavano da tempo. All’inizio del 2025 Mark Zuckerberg ha annunciato la fine del programma di fact-checking di Facebook e Instagram, sostituendolo con delle “note della community” sul modello di X13. Questa decisione risponde direttamente a un punto sollevato da Trump e dai suoi alleati, i quali accusavano da anni Facebook di faziosità per aver collaborato con organizzazioni di fact-checking indipendenti. Zuckerberg, utilizzando retorica cara alla destra, ha dichiarato che era ora di dare priorità alla “piena libertà di espressione” perché i fact-checker si sarebbero rivelati “politicamente di parte”14. Ha perfino annunciato lo spostamento dei team di moderazione dalla California (stato democratico) al Texas (roccaforte repubblicana) e l’allentamento di restrizioni su temi come immigrazione e questioni di genere15.
Secondo Associated Press, queste mosse di Meta sono state a lungo richieste dai conservatori e dallo stesso Trump, che addirittura si è vantato di aver “minacciato” il CEO di Meta per ottenerle16. In un commento, Trump ha detto che il cambiamento di approccio di Zuckerberg era “probabilmente” dovuto alle pressioni (e minacce) che lui stesso aveva fatto nei confronti del magnate tech17. Siamo quindi di fronte a un quadro in cui Facebook/Meta sta cambiando politiche chiave per compiacere un leader politico specifico. Una recente analisi ha sottolineato che Meta sembra “desiderosa di evitare l’ira della nuova amministrazione” Trump e che Zuckerberg sta facendo una sorta di “gioco strategico” per entrare in partenariato con l’amministrazione conservatrice emergente18 . Addirittura, Zuckerberg avrebbe dichiarato l’intenzione di “lavorare con il Presidente Trump per respingere i governi di tutto il mondo” su regolamentazioni indesiderate – un’allusione esplicita alla volontà di Meta di coalizzarsi con Trump contro leggi restrittive (come quelle europee sul digitale). Si tratta di un allineamento politico senza precedenti per il fondatore di Facebook, motivato sia dalla convenienza (proteggere Meta da norme e sanzioni sfavorevoli) sia dall’ideologia di fondo pro “libertà d’espressione” assoluta che Zuckerberg sembra ora condividere strategicamente con la destra trumpiana.
In sintesi, Facebook non è più semplicemente una piattaforma passiva, ma è diventata un attore che interagisce con la politica attivamente. Mark Zuckerberg, pur non esp esplicitandolo sui suoi profili, ha avvicinato la sua azienda alle posizioni di Trump: prima tollerando in nome del “neutrali sm” i contenuti divisivi del presidente, ora modificando policy chiave (moderazione, fact-checking) in un modo che di fatto agevola la propaganda politica di parte. Questa evoluzione solleva questioni importanti: un singolo imprenditore, controllando la principale piattaforma social del mondo (Facebook conta circa il 68% degli adulti statunitensi come utenti19), può influenzare la sfera pubblica a favore di determinati leader o movimenti politici.
Implicazioni: partecipare ai social significa partecipare ai loro progetti politici?
Data questa dinamica – piattaforme progettate per massimizzare engagement/polarizzazione e orientate dai fondatori verso specifici obiettivi politici – sorge il problema di cosa significhi, per utenti e istituzioni, usare questi social network. Condividere contenuti, commentare, iscriversi a un social media apparentemente gratuito non è un atto neutro: in misura più o meno indiretta significa contribuire al modello di business e, oggi, anche ai progetti politici dei proprietari di queste piattaforme, con i propri dati e con la propria presenza sul social, che di per sè ne accrescono valore economico e peso politico.
Per gli utenti individuali: una scelta consapevole
Un singolo utente può decidere volontariamente di restare su una piattaforma social per vari motivi: utilità personale, visibilità, contatti, svago. Ma deve essere consapevole che così facendo alimenta con il proprio tempo e i propri contenuti il sistema creato dal proprietario di quella piattaforma, sistema che – come abbiamo visto – può avere fini politici di parte. Ogni post, ogni minuto trascorso su Facebook o X genera dati e valore pubblicitario che finiscono per rafforzare la posizione economica e l’influenza di Zuckerberg, Musk e altri, dando loro ulteriore potere per portare avanti le loro agende. In altre parole, se Elon Musk utilizza X come testa d’ariete politico personale, chi twitta su X fornisce materiale e attenzione che rendono quel strumento di sfondamento più rumoroso; se Zuckerberg piega Facebook ai suoi interessi (anche politici), ogni nuovo contenuto e utente registrato accresce il peso della piattaforma nel dibattito pubblico alle condizioni decise da lui.
Molti utenti forse accettano implicitamente questo scambio, altri potrebbero trovarlo sgradevole. Non a caso, quando Musk ha reso sempre più esplicita la piega politica di X, numerosi utenti hanno abbandonato la piattaforma per protesta. Questo fenomeno ha coinvolto in particolare giornalisti e accademici, cioè utenti interessati a un dibattito pubblico informato. Ad esempio, dopo le ultime elezioni USA (2024), un folto gruppo di accademici di alto profilo ha annunciato che avrebbe lasciato X, citando proprio “preoccupazioni per la disinformazione e per come il proprietario Elon Musk ha usato la piattaforma a sostegno di Trump”20. Molti hanno denunciato l’ambiente diventato “tossico” e dominato da propaganda. Paul LeBlanc, ex rettore di una grande università (SNHU), ha definito X “una cloaca tossica, di proprietà di qualcuno che disprezzo, diventata uno strumento di disinformazione”21. Questo giudizio tranchant riflette il sentimento di alcuni: partecipare a X equivaleva ormai a legittimare e avallare, seppur indirettamente, l’operato di Musk. E per chi non condivide le idee o i metodi di Musk, la soluzione è stata votare con i piedi, ossia cancellare il proprio account.
In sintesi, per l’utente comune la questione si riduce a una scelta informata: vale la pena restare su una piattaforma sapendo che il mio apporto potrebbe finire per sostenere progetti politici (o pratiche etiche) che non approvo? Ciascuno può rispondere in modo diverso. C’è chi rimane, magari sperando di utilizzarla per diffondere contenuti positivi controbilanciando la negatività, e c’è chi se ne va verso alternative considerate più neutrali. L’importante è capire che l’uso di un social network non è più un gesto “trasparente” o neutrale, ma comporta implicazioni valoriali e politiche date dal contesto in cui quel network opera.
Per le istituzioni pubbliche: un dilemma complesso
Ancora più delicata è la posizione delle istituzioni pubbliche – enti governativi, università, centri di ricerca, musei, biblioteche, ecc. Queste organizzazioni hanno una missione istituzionale (informare, educare, servire l’interesse pubblico) che mal si concilia con il funzionamento orientato al profitto e alla polarizzazione dei social media commerciali.
Da una parte, comunicare su piattaforme come Facebook o X può sembrare efficace per diffusione capillare: lì si trova il pubblico, specie i giovani. Dall’altra, proprio il modello di queste piattaforme rende inefficace (o addirittura controproducente) la comunicazione istituzionale. Gli algoritmi, come si è visto, premiano i contenuti che generano engagement rapido: un video scandalistico, uno slogan partigiano, una notizia semplificata e magari allarmante. Il classico contenuto di un’università o di un centro di ricerca – ad esempio un articolo scientifico, un dibattito approfondito, un annuncio neutro – difficilmente scatena ondate di clic e condivisioni emotive, men che meno se politicamente non allineato al progetto politico dei suo proprietario. Il rischio concreto è che i contenuti informativi e didattici vengano sepolti o ignorati, sorpassati nei feed da messaggi più accattivanti ma meno sostanziosi, riducendo l’impatto dell’ente che li ha pubblicati. In pratica, l’uso dei social commerciali per perseguire obiettivi istituzionali (come informare correttamente o diffondere nuova conoscenza) potrebbe risultare inefficace proprio perché quei contenuti “virtuosi” non sono premiati dal sistema di ranking che privilegia la polarizzazione.
C’è poi un aspetto di criticità e incoerenza rispetto alla missione pubblica. Un’istituzione pubblica, per definizione, deve mantenere imparzialità e perseguire il bene collettivo, non gli interessi di una fazione. Se però decide di investire risorse e presenza su una piattaforma il cui proprietario la sta usando per scopi politici di parte, l’istituzione rischia di venire trascinata dentro un progetto politico di una specifica fazione. In altre parole, volente o nolente, finisce per “fare da comparsa” nel grande gioco di Musk, Zuckerberg o chi per loro. Ad esempio, un’università che continui a privilegiare X come canale comunicativo oggi, nonostante X venga percepita come faziosa, potrebbe legittimare la piattaforma e indirettamente partecipare al clima di polarizzazione che lì domina. Questo sarebbe in palese contrasto con l’obiettivo accademico di diffondere conoscenza verificata e favorire dialogo razionale.
Molte istituzioni si stanno rendendo conto di questa contraddizione. Nel Regno Unito, così come in Germania, diverse università e istituti di alta formazione hanno iniziato a ritirarsi da X, riducendo l’uso al minimo o abbandonando del tutto la piattaforma22. Un’indagine Reuters del gennaio 2025 ha rilevato che numerose università britanniche hanno smesso di postare su X, citando “il ruolo di X nel diffondere disinformazione che ha alimentato disordini razziali” nel paese. In quel contesto, Elon Musk – definito “un collaboratore stretto di Donald Trump” – aveva persino interferito nel dibattito pubblico britannico chiedendo l’arresto di un leader dell’opposizione e la liberazione di un attivista di estrema destra. Di fronte a questi episodi, istituzioni pubbliche come le università (e persino alcune forze di polizia locali) hanno ritenuto insostenibile continuare a usare X, sia per motivi etici sia per tutela della propria reputazione. Questa istituzioni hanno citato non solo la disinformazione e i contenuti violenti, ma anche il calo di engagement autentico: ad esempio, la London Business School ha smesso di postare su X già da settembre 2024, spiegando che rivede costantemente i canali comunicativi e sceglie quelli che offrano un coinvolgimento efficace del pubblico. In altri termini, per diverse istituzioni il gioco non vale la candela: la portata su X è divenuta limitata (anche perché molti utenti qualificati stanno lasciando la piattaforma) e i rischi superano i benefici.
Anche nel mondo accademico americano c’è un movimento simile: Inside Higher Ed parla di una “seconda ondata di esodo” da X da parte di docenti e ricercatori dopo le elezioni, proprio in risposta al modo in cui Musk ha schierato la piattaforma a sostegno di Trump. Un professore ha scritto che restare su Twitter/X era diventato insostenibile perché la piattaforma “è ormai asservita alla disinformazione” e perché “è di fatto diventata un megafono tossico di propaganda, incompatibile con il contatto autentico con i colleghi e il pubblico”23. Quando esponenti del mondo della conoscenza dichiarano apertamente che una piattaforma contraddice la loro missione, è chiaro che c’è un problema di fondo per qualsiasi istituzione che voglia usare quello stesso mezzo.
In definitiva, per le istituzioni pubbliche l’uso delle grandi piattaforme social commerciali pone un duplice rischio: Rischio di inefficacia – il messaggio istituzionale non “buca” l’algoritmo se non si degrada a click-bait, e quindi l’ente non raggiunge davvero gli obiettivi informativi prefissati; rischio di snaturamento/pregiudizio – l’ente finisce per avallare (implicitamente, con la sua presenza) un ecosistema mediale polarizzato e pilotato verso fini privati, in contrasto con i propri principi di neutralità e servizio pubblico.
Partecipare a queste piattaforme, per un’istituzione, equivale in qualche misura a kowtow – inchinarsi – di fronte al potere dei loro proprietari, entrando nel loro progetto. Il politologo Brendan Nyhan ha definito i recenti cambi di rotta di Meta un segnale preoccupante di “un pattern in cui persone e istituzioni potenti si genuflettono al presidente (Trump) per paura di essere bersagliate”24. Questa osservazione, riferita al comportamento delle Big Tech di fronte a pressioni politiche, vale anche al contrario: se istituzioni accademiche o culturali si adeguano a canali dominati da logiche eversive (nel senso di stravolgimento delle regole consuete di affidabilità, moderazione, equità), rischiano di perdere indipendenza e autorevolezza, contribuendo loro malgrado a progetti che non coincidono con la loro missione.
Conclusioni
Le trasformazioni degli ultimi anni ci consegnano un panorama in cui le piattaforme social sono tutt’altro che neutrali. Il loro modello di business pubblicitario orientato all’engagement ha effetti concreti sul tipo di discorso pubblico che generano: favorisce toni accesi, polarizzazione e talvolta disinformazione, perché sono questi i contenuti “vincenti” per mantenere alto il traffico25. Inoltre, i proprietari di queste piattaforme stanno sfruttando il loro potere mediatico per portare avanti agende politiche proprie, trasformando i social network in strumenti di lotta politica di tipo personale26.
In questo contesto, partecipare come utenti significa inevitabilmente prendere parte (anche se indirettamente) a tali dinamiche. Ogni post e ogni clic alimenta il motore che tiene in piedi il progetto economico-politico di chi sta al comando di queste aziende. Gli utenti individuali possono decidere in autonomia se accettare questo compromesso – alcuni lo fanno consapevolmente, altri lo rifiutano abbandonando la piattaforma in favore di alternative più in linea con i propri valori27.
Per le istituzioni pubbliche, invece, la scelta è più intricata e carica di responsabilità. Devono valutare se i vantaggi di comunicare su queste piattaforme valgono il costo di adattarsi a un ecosistema informativo distorsivo e potenzialmente contrario ai loro scopi. Come abbiamo visto, diverse istituzioni (specialmente nel campo educativo e scientifico) stanno concludendo che così non è, e stanno riducendo o cessando la loro presenza sui social media dominati da interessi privati e partigiani.
In definitiva, l’equazione che si delinea è chiara: laddove una volta l’iscrizione a un social network era un gesto neutro di adesione a una comunità virtuale, oggi equivale sempre più a schierarsi – direttamente o indirettamente – all’interno di un progetto politico-economico orchestrato dal proprietario di quella piattaforma, senza che ci sia più nemmeno l’illusione che contenuti seri e moderati possano raggiungere ampi pubblici