Punti cardinali #75
La ricerca accademica internazionale è il luogo dove nascono i concetti che definiscono il nostro tempo e dove vengono forgiati gli strumenti per leggere la realtà. Eppure, l’accesso a questa fonte strategica è bloccato da barriere strutturali: la complessità delle opere originali, la loro assenza nel mercato italiano e i costi proibitivi dei volumi specialistici.
Punti Cardinali nasce per abbattere queste barriere.
Mettiamo a disposizione degli abbonati schede analitiche rigorose, progettate per estrarre il nucleo teorico delle opere più rilevanti. Per gli abbonati, questo si traduce in un vantaggio intellettuale immediato: significa assimilare modelli e categorie che richiederebbero settimane di studio, aggirando i costi e le barriere linguistiche.
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In questo numero: l’analisi di 4 nuove opere appena pubblicate dalle maggiori case editrici accademiche.
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“Inventing the Renaissance. The Myth of a Golden Age” di Ada Palmer (The University of Chicago Press, 2025)
Il volume di Ada Palmer, Inventing the Renaissance. The Myth of a Golden Age, pubblicato nel 2025 da University of Chicago Press (edizione americana) e da Head of Zeus/Bloomsbury (edizione britannica), si propone di smontare con metodo storico e chiarezza divulgativa uno dei miti più resilienti della cultura occidentale: l’idea di un Rinascimento come età dell’oro contrapposta a un Medioevo oscuro. Fin dalle prime pagine e dal prologo dedicato a “The Great and Terrible Renaissance”, l’autrice chiarisce che la sua indagine non riguarda solo il Quattrocento e il Cinquecento italiani, ma il modo in cui, nei secoli successivi, quell’epoca è stata narrata, idealizzata e riutilizzata per scopi politici, culturali e identitari. Palmer sceglie Machiavelli come compagno di strada, figura emblematica di un’epoca che, mentre produce opere come il David di Michelangelo e la Gioconda di Leonardo, viene vissuta dai contemporanei come un tempo apocalittico di guerre, epidemie e crollo di ordini politici. La struttura del libro, articolata in parti tematiche e in una lunga sequenza di ritratti biografici, è pensata per collegare continuamente contesto storico, lettura delle fonti, storia degli studi e interrogativi sul presente, ponendo il lettore di fronte alla domanda su cosa significhi davvero parlare di “età d’oro” nella storia.
“The Last Human Job. The Work of Connecting in a Disconnected World” di Allison J. Pugh (Princeton University Press, 2024)
Il volume The Last Human Job. The Work of Connecting in a Disconnected World di Allison J. Pugh, pubblicato nel 2024 da Princeton University Press, affronta una delle questioni più delicate dell’epoca dell’automazione e dell’intelligenza artificiale: che cosa accade al lavoro quando il suo valore principale non è produrre beni o informazioni, ma costruire legami tra persone. L’autrice, sociologa del lavoro e delle relazioni sociali, parte dall’esperienza concreta di cappellani ospedalieri, medici di base, insegnanti, terapisti, parrucchieri, assistenti sociali, manager e venditori, per interrogarsi su come funziona il lavoro che fa sentire “visti” gli altri e su come questo lavoro venga trasformato da protocolli, metriche, algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale. Il libro merita attenzione perché non discute solo di “posti di lavoro a rischio” o di sostituibilità tecnologica, ma mette al centro la qualità delle relazioni quotidiane che rendono possibile la cura, l’apprendimento, la fiducia e, in ultima analisi, il senso di appartenenza. Pugh mostra come la questione non riguardi solo i singoli lavoratori minacciati dall’automazione, ma la tenuta di quel tessuto connettivo che sostiene le comunità: la possibilità di essere riconosciuti da un altro essere umano e non soltanto classificati, misurati o profilati da sistemi digitali. In questo quadro, il volume si colloca nel dibattito sui limiti dell’“economia della sensazione” e sulle conseguenze sociali della digitalizzazione spinta dei servizi, ponendo al lettore una domanda di fondo: quale tipo di lavoro umano vogliamo preservare quando gran parte delle attività materiali e cognitive può essere affidata alle macchine.
“Balance of Power: Central Banks and the Fate of Democracies” di Éric Monnet (University of Chicago Press, 2024)
1 Il ruolo delle banche centrali nelle democrazie contemporanee rappresenta oggi una delle questioni più complesse e dibattute dell’economia politica, situandosi al crocevia tra tecnocrazia e sovranità popolare. Nel volume Balance of Power: Central Banks and the Fate of Democracies, pubblicato nel 2024 dalla University of Chicago Press, l’economista e storico Éric Monnet affronta questo nodo cruciale, proponendo una rilettura radicale della funzione di queste istituzioni alla luce delle crisi che hanno segnato il XXI secolo, dal crollo finanziario del 2008 alla pandemia di COVID-19. L’autore non si limita a descrivere i meccanismi tecnici della politica monetaria, ma inserisce l’azione delle banche centrali in un quadro storico e politico più ampio, collegandole direttamente alla sopravvivenza e all’evoluzione dello stato sociale. La tesi di fondo del libro sfida la visione convenzionale che vorrebbe questi enti come meri guardiani della stabilità dei prezzi, isolati dalle dinamiche distributive e sociali; al contrario, Monnet argomenta che essi agiscono di fatto come assicuratori di ultima istanza del sistema finanziario e, indirettamente, delle economie nazionali. L’opera solleva interrogativi fondamentali sulla legittimità democratica di un potere così vasto e spesso opaco, chiedendosi come sia possibile riconciliare l’indipendenza necessaria alla gestione della moneta con il bisogno di controllo e deliberazione proprio delle società democratiche. Attraverso un’analisi che spazia dalla storia economica alla teoria politica, il libro invita a ripensare l’architettura istituzionale che governa la moneta, suggerendo che il destino delle democrazie sia indissolubilmente legato alla capacità di reintegrare le banche centrali nel dibattito pubblico.
“’Make Germany Great Again’: How the German People Reacted to Nazisim” (Pen & Sword Military, 2024)
Capire come una società reagisce quando un potere politico pretende di plasmare non solo le leggi, ma anche le coscienze, è un problema che non riguarda soltanto il passato: riguarda il modo in cui le comunità si lasciano trascinare, resistono, si adattano o tacciono di fronte a un regime che promette riscatto e produce oppressione. In ‘Make Germany Great Again’: How the German People Reacted to Nazisim, pubblicato nel 2024 da Pen & Sword Military, Andrew Sangster assume come questione guida proprio la “reazione” dei tedeschi al nazismo, evitando l’immagine troppo comoda di un popolo uniformemente compatto, e mettendo a tema l’ambivalenza dei comportamenti: entusiasmo, conformismo, paura, dissenso, opposizione, resistenza. L’autore dichiara sin dall’inizio che il problema è reso difficile dall’assenza di statistiche affidabili e dalla distorsione prodotta da un contesto intimidatorio (anche il voto, in un clima di violenza e sorveglianza, non misura davvero le opinioni). Per questo la sua ricostruzione non pretende una sentenza morale onnicomprensiva, ma cerca di orientarsi in un “puzzle” di reazioni differenti, usando come chiavi le strutture politiche che hanno preceduto Hitler, la macchina della propaganda, l’uso sistematico del terrore e, soprattutto, le testimonianze scritte “in presa diretta” da persone comuni o semi-comuni. Il punto, in sostanza, non è riaprire un tribunale retrospettivo, ma comprendere come una nazione “normale”, fatta di persone spesso istruite e capaci, possa essere condotta verso l’autodistruzione, e che cosa questo dica dei meccanismi sociali e psicologici che rendono possibile una deriva simile.





