Consumare a debito: la forza (precaria) dell'America
Nel corso del suo primo mandato e con rinnovata insistenza all’inizio del secondo, l’amministrazione Trump ha più volte affermato (lo ha fatto anche in occasione dell’incontro con il presidente del Consiglio Giorgia Meloni) che la grande forza degli Stati Uniti risiederebbe nei consumatori americani, e che questa centralità della domanda interna costituirebbe una leva strategica fondamentale nelle trattative commerciali internazionali. Anche il Segretario al Commercio, Howard Lutnick, ha ribadito, in diverse occasioni pubbliche, che il mondo è disposto a fare concessioni agli Stati Uniti pur di mantenere l’accesso al loro mercato interno. Tale visione, però, tende a rappresentare i consumi americani come una variabile indipendente, quasi capace di sostenersi da sola. Al contrario, come mostra l’analisi dei dati economici e delle dinamiche finanziarie, i consumi privati statunitensi sono in larga misura finanziati a debito e, in quanto tali, dipendono da un sistema complesso e interconnesso di flussi di capitale internazionale. È proprio l’afflusso costante di risparmio estero verso i mercati finanziari americani a consentire l’indebitamento delle famiglie a tassi relativamente contenuti, rendendo sostenibile il modello di consumo interno. Venendo meno tale sostegno, la leva strategica americana perderebbe efficacia, e l’intero assetto macroeconomico ne risulterebbe indebolito.
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Consumi a debito, squilibri strutturali e sostenibilità del modello americano
All’inizio del secondo mandato dell’amministrazione Trump, la politica economica americana torna a fondarsi sull’idea che il potere negoziale degli Stati Uniti derivi dalla loro capacità di attrarre il resto del mondo verso il proprio mercato interno. Tale impostazione attribuisce alla domanda delle famiglie americane un ruolo determinante nei rapporti commerciali internazionali, trattandola come un punto fermo attorno al quale costruire accordi e riequilibrare scambi. Questa visione, però, trascura la natura condizionata di tale domanda. I consumi statunitensi non dipendono soltanto da fattori interni, ma riflettono l’inserimento dell’economia americana in una rete di relazioni finanziarie globali che ne determinano la capacità di indebitamento. In assenza di flussi esterni di capitale, l’accesso al credito diventerebbe più costoso e la spesa delle famiglie risulterebbe immediatamente compressa. Il presente rapporto analizza quindi i limiti strutturali di un modello che considera il mercato dei consumatori statunitensi come risorsa strategica, senza tener conto dei vincoli finanziari su cui esso si regge.
La fine dell’“eccezionalismo” finanziario americano: scenario e conseguenze
L’obiettivo di questa analisi è simulare gli scenari che si aprirebbero se il mondo smettesse di acquistare debito americano. Per oltre trent’anni gli Stati Uniti hanno potuto finanziare disavanzi pubblici e privati grazie all’interesse costante dei risparmiatori globali verso gli asset denominati in dollari. Questo sistema ha sostenuto un livello di consumo interno superiore a quello consentito dalla sola capacità produttiva nazionale, comprimendo artificialmente i tassi d’interesse e garantendo liquidità a famiglie, imprese e governo federale. Tuttavia, tale equilibrio si fonda su una condizione implicita: la fiducia dei mercati nella stabilità economica, finanziaria e politica degli Stati Uniti. In questo esercizio teorico, ma fondato su dati e tendenze reali, esploriamo le possibili conseguenze sistemiche – economiche, finanziarie e geopolitiche – di un'erosione di tale fiducia e di un progressivo disimpegno dei grandi investitori internazionali dai titoli statunitensi. L’analisi mostra come l’eccezionalismo americano non sia una costante strutturale, ma una costruzione storica reversibile, soggetta a shock esogeni e a scelte politiche interne.