"Dalla Repubblica all'Impero"
di Nadia Urbinati
Imperium come responsabilità – di chi? La repubblica romana ha messo il “popolo” al centro di entrambe le facce del potere e da quella centralità è derivata la celeberrima libertas. La libertas, come Machiavelli vide con acume, aveva dentro di sé una forza propellente di espansione (i “buoni ordini”, che si incardinano nei e regolano i conflitti per la libertà, rendono cittadini e società dinamici e pragmaticamente esposti alla creatività, alla sperimentazione e quindi all’espansione, anche militare), una tensione verso quell’impero che avrebbe portato all’erosione del connubio virtuoso di imperium e fides. A Machiavelli sembrava che ci fosse una tensione verso la degenerazione della libertà politica che coinvolge il popolo. Questa tensione – e come tenerla al riparo dalla degenerazione, ovvero della espansione imperiale e della tirannia – ha interessato da allora numerose generazioni di filosofi e teorici della politica, non ultimo Immanuel Kant che nel saggio Per la pace perpetua (1795) ha fatto tesoro di quello che Brizzi in Imperium. Il potere a Roma (Laterza, 2024) individua come il caposaldo della classicità romana: la fides, che ebbe nei De officiis di Cicerone il testo più maturo – pensiamo alla sua idea di ius in bello, il dovere di rispettare le regole nel combattere il nemico, per giungere, avrebbe detto Kant molti secoli dopo, non ad una sospensione delle ostilità o ad armistizi instabili ma alla pace. Ovviamente Kant non pensava alla pax romana come Cicerone, ma ad una pace universale basata solo sul diritto e (importantissimo) sull’ordine costituzionale dentro gli stati, ovvero fuori dall’egemonia di un paese guida, fuori dell’impero di qualcuno. Non pax americana e nemmeno pax democratica, si direbbe oggi, ma pax universalis. La traiettoria che conduce a Kant ha inizio nella storia romana che Brizzi ci racconta, dove, appunto, imperium e fides si sostenevano a vicenda, prima dell’impero.
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