Leggere la complessità e trarne vantaggio
Il disordine non è la realtà che osserviamo, ma il risultato di lenti interpretative inadeguate.
Ci troviamo all’inizio di una transizione verso nuove forme di ordine sistemico, proprie di contesti complessi e interrelati.
Introduzione
Negli ultimi anni, l’idea di trovarsi in una fase storica dominata dal disordine globale ha trovato crescente spazio nel dibattito pubblico e analitico. A partire da concetti come “policrisi” o “permacrisi”, si è diffusa l’immagine di un mondo sempre più indecifrabile, nel quale gli strumenti dell’analisi sembrano cedere sotto il peso della molteplicità degli eventi. Guerre, pandemie, crisi energetiche, tensioni sistemiche e discontinuità tecnologiche vengono sovrapposte senza alcuna gerarchia, producendo una rappresentazione indistinta della realtà. Questa percezione non è solo un sintomo di spaesamento; è essa stessa parte del problema. L’evocazione insistita del “caos” spesso maschera una rinuncia analitica, una difficoltà a riconoscere le logiche emergenti e le strutture che, pur non rispondendo più ai modelli tradizionali, organizzano comunque i fenomeni globali.
A nostro avviso, l’uso disinvolto della nozione di disordine tradisce una mancanza di strumenti adeguati per interpretare la trasformazione in corso. Le crisi che si susseguono non sono segnali di assenza di ordine, ma effetti collaterali di una ristrutturazione sistemica di lungo periodo. In tal senso, non è l’ordine internazionale a essere scomparso, ma è cambiata la sua configurazione, i suoi centri di gravità, le sue logiche funzionali. Ciò che si osserva oggi è la coesistenza di molteplici livelli di governance, di reti di potere interdipendenti, di nuovi attori che assumono ruoli di stabilizzazione all’interno di cornici regionali e transnazionali. In questa direzione, riteniamo che sia più utile abbandonare la dicotomia disordine/ordine per adottare una lente più adeguata: quella della complessità sistemica, che consente di leggere le trasformazioni in termini di adattamento, coevoluzione e riorganizzazione.
Il concetto di complessità che qui assumiamo non è una metafora vaga, né una formula retorica. È una categoria analitica precisa, che descrive sistemi nei quali nessuna variabile è completamente indipendente dalle altre, e in cui le interazioni producono effetti non lineari, talvolta controintuitivi. I sistemi complessi non si sviluppano secondo traiettorie deterministiche, ma attraverso biforcazioni, retroazioni, dinamiche iterative e punti di transizione. In questo quadro, ciò che appare come instabilità è in realtà l’esito naturale di una logica di trasformazione interna al sistema. L’ordine, quindi, non scompare: cambia forma, assume nuove strutture, si distribuisce in modo diverso. Comprendere questa dinamica richiede un approccio che tenga conto del tempo, delle dipendenze storiche e delle interazioni tra attori eterogenei, non riconducibili a una semplificazione causale lineare.
Questa prospettiva impone un mutamento di metodo per chiunque si occupi di analisi del contesto globale. Non è più sufficiente interrogarsi su “che cosa accade”, ma è necessario comprendere “come accade” e “attraverso quali logiche si riproduce l’ordine” all’interno di sistemi interdipendenti. L’obiettivo non è formulare previsioni lineari, ma costruire scenari che rendano conto della varietà delle possibili traiettorie evolutive. Gli strumenti tradizionali dell’analisi politica, economica e istituzionale vanno quindi integrati da approcci che sappiano cogliere le proprietà emergenti, i segnali deboli, le correlazioni sistemiche che precedono gli eventi osservabili. In questo senso, la complessità non è una complicazione, ma una condizione strutturale dell’azione e della comprensione. Non si tratta di navigare nel caos, ma di apprendere a muoversi all’interno di geometrie instabili ma strutturate.
Per le imprese, adottare il paradigma della complessità significa riformulare in profondità il modo in cui si valuta e si gestisce il rischio. Il contesto in cui operano non è stabile né lineare: è fatto di interazioni continue tra mercati, normative, dinamiche tecnologiche e mutamenti politici. In questo ambiente, ogni scelta aziendale non produce un effetto isolato, ma attiva reazioni a catena che modificano lo scenario complessivo. Il Metodo Stroncature affronta questa sfida proponendo un’analisi del rischio che considera l’intero sistema in cui l’impresa è inserita. Utilizziamo strumenti di simulazione e modellazione dinamica per rappresentare l’evoluzione delle variabili in gioco e per costruire scenari iterativi, nei quali ogni decisione viene valutata anche in base alle retroazioni che genera. L’obiettivo non è prevedere il futuro, ma riconoscere le configurazioni possibili, i punti critici, le correlazioni che possono amplificare o attenuare gli effetti di una scelta. In questa prospettiva, il rischio non è più soltanto probabilità di perdita, ma diventa indicatore di esposizione sistemica, di dipendenze nascoste e di margini di adattamento. L’intelligenza artificiale consente di gestire una molteplicità di dati e relazioni che l’analisi tradizionale non riesce più a trattare in modo efficace. Il risultato è una forma di intelligenza sistemica applicata all’impresa, che consente di anticipare biforcazioni evolutive, evitare le trappole del pensiero lineare e rafforzare la capacità di reazione in contesti ad alta instabilità.
Ciò che oggi chiamiamo caos è spesso un rumore cognitivo che offusca la comprensione delle dinamiche reali.
La percezione di crisi continua nasce da un sovraccarico informativo più che da un’accelerazione oggettiva dei fenomeni.
SCENARI GLOBALI E COMPLESSITA’: TRA PERCEZIONE E ANALISI
Una convinzione oggi prevalente, sia nel mondo del business che della politica, è che ci troviamo in un contesto globale di grande disordine e forte imprevedibilità. I decisori ai più alti livelli, e tutti coloro a cui si richiede di programmare e predisporre piani di azione, condividono un senso di disorientamento, trovandosi investiti da un flusso di informazioni e segnali rumoroso ma non sempre rilevante. Gli stimoli sono moltissimi, ma la capacità analitica e previsionale sembra non beneficiarne, e finisce anzi per esserne quasi sommersa. Le sorprese sono talmente frequenti da diventare la regola invece dell’eccezione; dunque, non c’è più una vera “normalità”.
Da questo quadro deriva un’ulteriore valutazione generale: saremmo in presenza di una netta discontinuità rispetto al passato (sebbene si possa subito notare che questo “passato” non viene solitamente ben definito) e dunque di una “crisi” dei punti fermi, delle strutture socio-economiche, delle istituzioni, delle aspettative. E’ così che si sono diffusi concetti come “policrisi” e “permacrisi”, che alludono almeno indirettamente anche a una compressione del tempo (il tempo disponibile per decisioni ponderate) e dello spazio (geografico e settoriale/disciplinare). In questa ottica, sembra che le minacce aumentino, le vulnerabilità si moltiplichino, i margini di manovra si restringano. A peggiorare le cose c’è l’intreccio quasi costante di fattori di cambiamento che appartengono tradizionalmente a settori di competenza diversi tra loro, dunque difficili da integrare in un singolo schema interpretativo: eventi politici e militari, economici, sociali, climatici, sanitari, tecnologici. Le situazioni di “emergenza” si susseguono senza sosta.
Va detto a questo punto che la percezione diffusa (il “sentiment”) è importante quasi quanto la conferma empirica dei dati, se non altro perché la percezione produce aspettative; queste a loro volta modificano i rischi e le opportunità, i rapporti di forza e di influenza, a volte perfino il quadro normativo se le valutazioni di breve termine si cristallizzano in convinzioni più radicate da parte dei decisori politici. Dunque, il sentiment va preso seriamente in considerazione – senza però cadere nella trappola del “groupthink”, per cui il “mainstream” avrebbe sempre ragione.
Nonostante l’importanza innegabile delle percezioni, la nostra proposta è fare un passo indietro – per poi fare qualche passo avanti – e riformulare parte del problema.
Intanto, un primo correttivo di questa visione quasi apocalittica (policrisi, permacrisi, emergenze continue) si può subito proporre: nel passato anche recente, molte “crisi” covavano sotto la cenere ma il rumore era meno forte e i segnali rilevanti erano molto scarsi poiché i dati grezzi, le comunicazioni e gli scambi di idee erano più ridotti, lenti e diradati – in altre parole, i “sensori” erano pochi, sebbene i fenomeni precursori dell’instabilità fossero tanto frequenti quanto lo sono oggi. In sostanza, gli strumenti disponibili appena pochi anni fa erano meno in grado di segnalare una crisi in arrivo: in tal modo, si aveva una minore capacità di anticipare gli eventi negativi, ma si aveva più tempo per l’analisi e la riflessione. Il senso di compressione temporale che oggi sperimentiamo è in certa misura il risultato della percezione, prima ancora che degli eventi in sé.
Se questa ipotesi di lavoro è valida, resta comunque la sfida di gestire i segnali numerosi e incessanti che registriamo oggi: è chiaro, infatti, che ignorarli non beneficia per nulla l’analisi né il processo decisionale. Tenere però conto dell’esistenza di un “overload” informativo e cognitivo può aiutarci ad adottare strumenti più adeguati.
Al fine di elaborare un metodo di analisi per affrontare queste sfide (cognitive prima ancora che legate ai processi decisionali) è necessario precisare i termini del problema che si è appena delineato molto sommariamente. Le sfide sono realmente molto gravi e tangibili, ma possono essere collocate in una prospettiva parzialmente diversa e più gestibile.
Per fare questa operazione è utile – anzi, indispensabile – valutare meglio se effettivamente il contesto politico globale sia oggi in una condizione di irrimediabile disordine che elimina i punti di riferimento/orientamento e costringe fatalmente i decisori a scelte emergenziali. Ciò presuppone un metro di paragone, una situazione di partenza a cui le vecchie (e relativamente stabili) aspettative erano “ancorate”. Qui le cose si fanno assai meno chiare di quanto può sembrare a prima vista.
L’“ordine internazionale” è una costruzione narrativa instabile; la turbolenza, invece, è un fenomeno strutturato e misurabile.
Non assistiamo al collasso dell’ordine, ma alla sua riconfigurazione secondo logiche distribuite e reticolari.
“Ordine internazionale” (un termine vago) e turbolenza (un concetto rigoroso)
Per definire una patologia, si deve prima aver definito una fisiologia. Se siamo oggi di fronte all’erosione – perfino alla crisi terminale? – di un “ordine internazionale” che sfocia nel disordine, dobbiamo poter definire in modo piuttosto rigoroso cosa fosse questo sistema preesistente, quando sarebbe stato pienamente funzionante, quanto si sarebbe deteriorato e quando avrebbe smesso del tutto di funzionare (se questo è già il caso). L’operazione non è affatto fine a se stessa, perché consente di chiarire molte caratteristiche della fase attuale.
Si deve sottolineare che la maggioranza delle descrizioni attualmente in voga si riferiscono a una fase “post-unipolare, post-occidentale, post-globalizzazione” etc., il che ovviamente pone in risalto il fattore-tempo – un prima e un dopo. Questo aspetto è più rilevante di quanto possa sembrare a prima vista.
Si può probabilmente affermare che, in generale, c’è stata negli ultimi anni un’erosione delle maggiori organizzazioni internazionali multilaterali (si pensi alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale, al WTO, a vari Trattati sul controllo degli armamenti, ma anche alla stessa ONU nel suo complesso) e di molti criteri giuridici nei rapporti internazionali, ma questa tendenza era stata già identificata almeno dagli anni ’70 in un senso parzialmente diverso, e non del tutto negativo. In particolare, la scuola di pensiero sulla “interdipendenza complessa” (consolidatasi attorno ai politologi americani Robert Keohane e Joseph Nye nel campo delle Relazioni Internazionali e della International Political Economy) focalizzava l’attenzione sui fattori che indebolivano l’ordine stato-centrico sia dal basso sia dall’alto. Tra questi fattori vi erano non soltanto gravi minacce come il terrorismo o l’inquinamento atmosferico (si parlava ancora poco o nulla di cambiamento climatico come tale), ma anche sviluppi positivi come la cooperazione transfrontaliera tra regioni, tra aziende, o perfino tra gruppi ristretti di individui con competenze specialistiche (le “comunità epistemiche”), alcune nuove organizzazioni internazionali (comprese quelle non governative, ONG). Le relazioni globali stavano insomma evolvendo verso un quadro più variegato rispetto ai classici rapporti diplomatici tra Stati e governi. Nella misura in cui si guardava agli aspetti economici di tali processi di cambiamento, i mercati (relativamente) aperti e sempre più interconnessi erano considerati un fattore assai dinamico, anticipando in sostanza la globalizzazione.
Un aspetto stranamente sottovalutato è proprio che questa ricostruzione dei grandi trend di fine XX secolo corrisponde di fatto all’avvento della globalizzazione: la crescente interdipendenza (parzialmente regolata da autorità governative, ma fondata su mercati aperti) non è altro che il prodromo della forte accelerazione degli scambi (quasi) globali che abbiamo visto, e studiato a fondo, dagli anni Novanta ai primi anni Duemila.
Emerge qui allora un rovesciamento quasi completo: mentre l’idea di un “ordine internazionale liberale” va ridimensionata (avendo senso soltanto come “nicchia” del sistema dei rapporti globali e/o come obiettivo ideale, mai raggiunto e probabilmente neppure avvicinato), la sua vera forza è stata perfino sottovalutata in quanto piattaforma che ha consentito la dinamica della globalizzazione. I modelli organizzativi – non solo economici e aziendali, ma anche politici, cioè legali e istituzionali – del “mondo OCSE” sono stati effettivamente studiati e imitati come punto di riferimento da tutti i Paesi del mondo; il che non significa che siano stati pienamente abbracciati e applicati, ma che sono comunque diventati il “benchmark”, perfino per quegli Stati governati da regimi fortemente autoritari che poco o nulla hanno ceduto sul terreno della democratizzazione e della “liberalizzazione” politica della società. In altre parole, si è davvero realizzato un ordine internazionale fondato sui mercati (con la loro logica razionale del profitto e dello scambio, dunque almeno in un certo senso “ordinata”) mentre non si è realizzato un ordine politico liberale degno di questo nome – perché troppe sono state e sono oggi le eccezioni.
Da un lato, quindi, abbiamo vissuto tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo una fase di grande emulazione spontanea dei modelli economici occidentali, ma dall’altro abbiamo registrato una fase di espansione dei modelli politici e giuridici che è stata breve e incompleta (seguita poi da una vera regressione, attualmente in corso). Nel secondo stadio di questo fenomeno globale alcuni regimi autoritari hanno approfittato dell’accesso ai mercati internazionali per acquisire posizioni di vantaggio relativo in settori-chiave (energia e altre materie prime, e poi intere filiere rilevanti per prodotti ad alta tecnologia), oltre che per accumulare notevoli capacità finanziarie: sono così riusciti ad esercitare un’influenza sugli stessi assetti globali, cercando di modificarli a loro vantaggio.
Deriva da questo ragionamento, in una specie di ironia della storia recente, che anche le ripercussioni negative della globalizzazione sulle società occidentali (e le relative sfide per le aziende) non sono affatto un complotto diabolico o un fallimento colossale, ma un effetto collaterale del successo di quei modelli di crescita e sviluppo.
È opportuno qui sottolineare che ricostruzione storica e approccio teorico sono indissolubilmente legati, visto che l’analista “troverà” – o comunque metterà in risalto – quasi soltanto i dati che sta attivamente cercando, mediante la sua selezione degli input rilevanti (deliberata e rigorosa, o perfino involontaria e approssimativa, a causa dei suoi “bias cognitivi” e del suo stesso progetto di ricerca). Non esiste in effetti una ricostruzione del tutto oggettiva degli eventi storici (perfino la definizione precisa di cosa sia un singolo “evento” è altamente arbitraria), e a maggior ragione del fluire dell’attualità.
Non si tratta di osservare i fenomeni economici o politici con occhi “neutrali”, per così dire senza lenti; si tratta invece di utilizzare, come strumenti analitici, le lenti più adeguate.
Senza certo voler fare una rassegna di una letteratura molto vasta, basta ricordare che già nel lontano 1990 usciva un libro del politologo James Rosenau dal titolo “Turbulence in World Politics. A Theory of Change and Continuity” (Princeton University Press) che risentiva fortemente del clima politico legato alla fine della guerra fredda, nel pieno di quella profondissima trasformazione “sistemica” che era in atto già prima del crollo dell’URSS. Il punto più interessante del libro è l’utilizzo del concetto di turbolenza, che richiama esplicitamente le teorie del caos e lo schema interpretativo della complessità. Nella dinamica dei fluidi, la turbolenza è la condizione di un fluido in moto caratterizzata dalla mancanza di regolarità nella traiettoria delle particelle, che presentano forti fluttuazioni della velocità e moti vorticosi, rendendone imprevedibili i singoli spostamenti. I fisici spiegano che in questa condizione si osservano schemi di flusso caotici e non lineari.
Il paradosso è che l’espressione “ordine internazionale” ha tutta l’apparenza di un solido pilastro, mentre è in effetti un concetto davvero assai vago; “turbolenza” evoca invece una situazione confusa, mentre è un fenomeno con contorni piuttosto precisi (sebbene difficilmente prevedibili in dettaglio).
È allora utile introdurre meglio l’idea della complessità.
La “lente” della complessità ha un enorme potenziale interpretativo come strumento di analisi. Il termine, per risultare applicabile ai nostri fini, va inteso in senso rigoroso e perfino letterale, cioè non generico nè metaforico.
La complessità non è sinonimo di confusione, ma una condizione strutturale fatta di relazioni, retroazioni e processi adattivi.
Solo accettando che nessuna variabile agisce da sola si può iniziare a leggere il mondo per come realmente si configura.
Complessità: cos’è e cosa non è
I fenomeni che possiamo definire complessi condividono queste caratteristiche: hanno una struttura internamente interdipendente più che gerarchica, mostrano processi di adattamento evolutivo, reagiscono a stimoli esterni producendo nuove dinamiche, e si trovano in stati lontani dall’equilibrio[1].
Nell’ottica della complessità, i fenomeni osservabili hanno una storia, e il loro passato ne condiziona il futuro; non lo predetermina del tutto, ma lo indirizza. Anche quando è praticamente impossibile modellizzare l’intero percorso di un evento complesso, se ne possono rintracciare i punti di “biforcazione”, cioè le transizioni che hanno modificato quel percorso; dunque, è anche possibile (solitamente difficile, ma possibile) disegnare i potenziali percorsi futuri, almeno nelle loro caratteristiche generali.
Il quadro interpretativo della complessità ha un vantaggio specifico, cioè la capacità di incorporare pienamente il fattore-tempo: moltissimi fenomeni che concorrono alla valutazione del contesto decisionale hanno un andamento ciclico, o quasi-ciclico; sono ripetitivi, seppure non necessariamente in iterazioni identiche a se stesse. In altre parole, i fenomeni macro della politica e dell’economia, come certamente quelli dell’ambiente naturale, seguono degli schemi ricorrenti che consentono un qualche grado di prevedibilità.
In particolare, la globalizzazione a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è il risultato combinato di scelte deliberate (soprattutto da parte di istituzioni nazionali) e di comportamenti spontanei e non coordinati (da parte di produttori e consumatori, fino al livello individuale). Se si combina la storia del rapporto tra Stati e mercati, si avrà una sorta di rincorsa incessante: con la globalizzazione il ritmo della rincorsa ha subito una forte accelerazione, portando ai cambiamenti rapidi e al senso di disorientamento a cui abbiamo accennato. Per trovare comunque una bussola e orientarsi, si deve ricordare anzitutto che i mercati interdipendenti e gli scambi intensi a grande distanza offrono notevoli vantaggi a produttori e consumatori – altrimenti non si capirebbe come e perché la globalizzazione sia emersa in prima battuta, in parte per scelta deliberata e in parte come risultato evolutivo che nessuno ha pianificato a tavolino.
Ecco che si manifesta in modo tangibile il fattore-tempo a cui si è accennato sopra: la globalizzazione è sempre stata un processo, non un sistema statico, e va dunque analizzata in chiave dinamica. Le stesse decisioni che un’azienda (o qualunque altro “agente” autonomo) dovrà prendere implicano un’iterazione, non un singolo momento decisionale isolato. La decisione di oggi produce alcuni effetti che diventano la base analitica per la decisione di domani; ciò è importante per la costruzione di scenari perché opzioni non visibili nella prima iterazione possono diventare chiaramente visibili in una seconda o terza iterazione. L’impensabile diventa spesso fattibile, o perfino evidente, necessario, inevitabile. Si prenda ad esempio un evento macroscopico e letteralmente globale come la pandemia da Covid-19: in quel caso, soltanto il trascorrere del tempo e l’aumento esponenziale dei casi di infezione resero pensabili, necessarie e spesso inevitabili misure emergenziali (con conseguente grave restrizione delle libertà individuali e blocco delle attività economiche) che mai i decisori avrebbe neppure immaginato prima della pandemia o nelle sue fasi iniziali. Altrettanto può dirsi degli interventi straordinari da parte delle autorità monetarie, dei governi e dei legislatori, in risposta al quasi-collasso del sistema bancario americano (e di riflesso di quello europei, compreso il debito sovrano) tra il 2008 e il 2010.
Una seconda funzione che la complessità può svolgere per noi (se adottata in modo rigoroso come strumento analitico) sta nell’appropriata collocazione dei “punti di equilibrio”. Le discipline economiche, come anche quelle politologiche, tendono da sempre – quasi fatalmente – a confidare in stati di equilibrio come punti di caduta, mentre le dinamiche complesse fanno prevedere rapidi passaggi attraverso stati di equilibrio assai precari, cioè temporanei. La distinzione è decisiva, perché nel primo caso avremmo fasi prolungate di naturale quiete (l’equilibrio), interrotte occasionalmente da brevi fasi caotiche; nel secondo caso, la mancanza di equilibrio è la vera normalità. Si pensi al semplice gesto del camminare per un essere umano: soprattutto a causa della sua postura bipede, questo organismo biologico si sposta da una costante condizione di squilibrio ad un’altra e, perfino nel caso in cui non si voglia spostare, resta “fermo” soltanto grazie ad un incessante aggiustamento (cioè movimento) di muscoli e tendini. L’equilibrio della postura bipede è un concetto dinamico e non può corrispondere alla stasi.
Se applichiamo questa ottica al settore aziendale, troviamo che l’ecosistema esterno (i mercati, ma anche le regole fissate da enti governativi) è un fattore costante di cambiamento/squilibrio, ma lo è anche la tecnologia in quanto processo che viene interiorizzato: come ha ben sintetizzato ad esempio Brian Arthur, l’economia nel suo insieme non è semplicemente un “contenitore di tecnologie”, ma è effettivamente creata dalle tecnologie che vengono man mano adottate in ciascuna fase storica. In tal modo, “l’economia crea novità continue combinando il vecchio, e nel farlo infrange costantemente il proprio equilibrio dall’interno”[2]. Si noti che tale incessante spinta al cambiamento non arriva per salti, ma per aggiustamenti e tentativi di piccola portata – che possono però produrre effetti dirompenti grazie alle dinamiche “iterative”. Per riprendere l’espressione di Stuart Kauffman, l’innovazione consiste spesso nell’esplorazione di un “adiacente possibile”, cioè di un’area vicina allo spazio attualmente già occupato o noto: anche un piccolo spostamento può consentire di intravedere grandi panorami inizialmente non visibili[3].
Dunque, possiamo ora esplicitare anche cosa la complessità non è: non è un fenomeno misterioso, non si nasconde, e perciò non ha bisogno di essere svelata tramite poteri quasi oracolari o accessi a informazioni riservate. I fenomeni complessi sono solitamente in bella vista, causati da dinamiche semplici che si ripetono con grande frequenza, assumendo forme intricate che sembrano disegnate da un artista o da un ingegnere ma sono in realtà frutto della “auto-organizzazione”. Se si pensa al movimento quasi ipnotico di uno stormo di uccelli se ne ha un’idea intuitiva; se si pensa alla globalizzazione se ne intravedono gli effetti più articolati e macroscopici.
In un sistema complesso, ogni decisione modifica il contesto che la rende possibile.
L’analisi diventa efficace solo se è iterativa, interattiva e consapevole delle retroazioni sistemiche.
I dilemmi complessi per il decisore nel “Metodo Stroncature”
Su queste basi, si può anche tracciare un primo quadro analitico per identificare, valutare e gestire il rischio (cioè sia costi sia opportunità). L’ecosistema internazionale/globale in cui devono agire le aziende a tutti i livelli – perché anche quelle con mercati e filiere soltanto locali risentono delle interdipendenze “lunghe” – è effettivamente molto fluido, nel senso suggerito dai sistemi complessi. Ne deriva che la dicotomia ordine/disordine non è particolarmente utile come strumento o ausilio ai processi decisionali, visto che nessun presunto ordine internazionale ha mai in passato né potrà mai in futuro eliminare la complessità intrinseca dei rapporti politici ed economici. E’ semmai più utile guardare con attenzione alla forza persuasiva e coercitiva delle varie istituzioni politiche (locali, nazionali, transnazionali, sovranazionali, multilaterali) come parametro di valutazione della volatilità economica, ricordando comunque che le istituzioni sono una costruzione sociale, cioè un mix di idee e progetti, percezioni e credenze, funzioni e gerarchie, impegni reciproci e controllo della forza (coercizione).
In sostanza, le istituzioni politiche sono progettate per governare la complessità (e quando possibile per ridurla), ma sono esse stesse parte integrante dei cambiamenti sociali. Istituzioni politiche formali, mercati, e rapporti sociali tra gruppi e individui co-evolvono incessantemente. Anche il legislatore o regolatore più freddo e razionale non può permettersi di restare sulla sponda del fiume turbolento dei mercati e delle tecnologie ad osservare il flusso mentre le governa, perché in realtà nuota egli stesso (o magari cerca di galleggiare su una zattera) nel fiume. A maggior ragione, il decisore che debba fare gli interessi di un’azienda non può considerarsi un osservatore che traccia il percorso migliore mentre una grande mandria (di altre aziende) corre nella prateria; in effetti, quel decisore deve anzitutto evitare di essere calpestato dal resto della mandria o sospinto verso un precipizio, proprio mentre cerca di fare la scelta più adeguata rispetto alle sue limitate opzioni.
Gestire il rischio, nell’ottica della complessità, significa studiare il corso degli eventi sapendo che c’è una direzione di marcia identificabile ma ci saranno anche molti vortici e ostacoli imprevisti (cioè teoricamente prevedibili, ma praticamente da trattare come una “incognita” o una variabile indipendente poichè non può esserne prevista la tempistica e la precisa modalità). Inoltre, la direzione di marcia può risultare di per sé pericolosa e nociva per il core business, senza che vi sia la possibilità, nel breve o medio termine, di modificarla in misura significativa.
Adottando la metodologia che proponiamo, ogni decisione deve anche vedersi come parte di un processo iterativo e interattivo, e non come un atto isolato. Assumere una decisione oggi, sulla base dei dati di contesto disponibili, significa incorporarla tra i dati di contesto di domani. Non è quasi mai possibile tornare esattamente al punto di partenza, perché assieme a quella decisione si saranno “mosse” altre variabili.
Come in una partita a scacchi, il dilemma di ogni mossa sta nell’anticipare la contromossa dell’avversario per immaginare i pericoli e le opportunità in cui si troveranno i miei pezzi sulla scacchiera nella tornata successiva. In più, si devono integrare in questa costruzione di scenari i fattori di contesto non intenzionali: si pensi ad una partita a scacchi giocata in uno strano ambiente in cui il meteo può spostare qualche pezzo o addirittura farlo volare via.
Comprendere la realtà significa riconoscere la rete di cause ed effetti che lega ogni elemento del sistema.
Il Metodo Stroncature adotta un’intelligenza sistemica supportata da tecnologia per rappresentare e navigare la complessità.
Il metodo Stroncature
Che la complessità sia diventato un concetto quantomeno di moda, è un dato assodato. Ma essa viene confusa con qualcosa di “complicato” e dunque arcano e misterioso. Al di là di tutte le complicazioni possibili e le sottigliezze probabili che si possono aggiungere ad una descrizione, e ancor più a un tentativo di previsione, è fondamentale ribadire che cosa si intende qui per complessità.
Il Metodo Stroncature adotta una tesi molto semplice: la complessità è un sistema dove non ci sono variabili del tutto indipendenti, dove cioè, come in un colpo di biliardo, la causa del movimento di una boccia è dovuta ad un’altra, che a sua volta è mossa dalla mano del giocatore. Se si parte da questo punto di vista in cui ogni variabile è allo stesso tempo effetto e causa, allora ogni tentativo di comprendere la realtà deve fondarsi sull’analisi sistemica delle interdipendenze, delle retroazioni e delle correlazioni sistemiche.
Sia chiaro, non che le cose fossero meno complesse in passato. Il punto è che per limiti computazionali e concettuali si è dovuto far ricorso al riduzionismo e provare ad avere qualche punto fermo individuando dei nessi casuali tra due variabili (A che causa B), escludendo tutte le altre possibili variabili che pure entrano in gioco, e che sono state considerate, per semplicità, fisse, o inesistenti. Complessità significa dunque prendere in considerazione quelle variabili e inserirle nell’analisi, cosa che oggi si può fare anche con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale. Infatti, tecniche avanzate di modellazione e simulazione permettono di rappresentare sistemi complessi mantenendo attive molteplici variabili simultaneamente, senza doverle isolare artificialmente. In questo nuovo scenario, diventa finalmente praticabile un approccio di intelligenza sistemica supportato dalla tecnologia: una forma di complexity-as-a-service che integra capacità computazionale, sensibilità analitica e consapevolezza epistemica, che è il cuore metodologico del servizio che, come Stroncature, siamo in grado di offrire a imprese e istituzioni, per poter governare e dominare, quella complessità che sinora era stata ingabbiato in schemi troppo semplici e ormai poco utili.
Procediamo ora a sviluppare tale approccio esaminando dapprima la nozione di complessità come assenza di variabili indipendenti e criticando i modelli semplificati basati sul ceteris paribus. Si evidenzierà poi la necessità di un’analisi sistemica, soffermandosi sul ruolo cruciale delle conseguenze non intenzionali delle azioni umane. Successivamente, passaremo ad applicare questi concetti all’analisi dei sistemi-Paese – con particolare riguardo allo stato di diritto e al grado di apertura del sistema politico – e ai sistemi aziendali, secondo i principi della moderna teoria del portafoglio (diversificazione, esposizione al rischio, rischio sistemico).
Nessuna variabile opera in isolamento: ogni fenomeno è frutto di un intreccio di relazioni simultanee.
Nel mondo reale, gli effetti dipendono più dalle connessioni che dalle singole cause.
La complessità come assenza di variabili indipendenti
Come si è detto, la caratteristica forse più distintiva di un sistema complesso è l’assenza di variabili indipendenti. In un sistema di questo tipo nessun elemento opera in isolamento: ogni variabile influenza ed è influenzata da altre, attraverso una rete fitta di relazioni dirette e indirette. Di conseguenza, non esistono cause uniche e lineari che da sole determinano un effetto, poiché ogni fenomeno è il prodotto di molteplici fattori concomitanti. L’idea tradizionale, ereditata dal riduzionismo scientifico classico, era di poter comprendere un fenomeno scomponendolo nelle sue parti e identificando una causa singola per volta. Ma quando ci si confronta con sistemi altamente interconnessi – come un ecosistema naturale, un’economia nazionale, una filiera produttiva o il sistema internazionale – diventa evidente che questa strategia riduttiva rischia di trascurare aspetti essenziali. La complessità impone di considerare simultaneamente più variabili e le loro interazioni. Ad esempio, nell’analisi di un’economia non si può studiare l’andamento dei prezzi ignorando le aspettative degli agenti, le politiche monetarie, le innovazioni tecnologiche o i trend globali: ogni variabile dipende dallo stato di altre variabili. In sintesi, la complessità equivale a un intreccio di fattori interdipendenti in cui il comportamento del sistema emerge dall’insieme delle relazioni, più che dalle proprietà isolate dei singoli componenti.
Un importante corollario dell’assenza di variabili indipendenti è che i rapporti di causa-effetto diventano intrinsecamente difficili da stabilire in modo netto. In un sistema intrecciato, un cambiamento iniziale si propaga lungo catene di interazioni che ne possono amplificare, attenuare o deviare gli effetti. Un medesimo intervento può portare a esiti diversi a seconda del contesto in cui avviene, proprio perché le altre condizioni al contorno non restano mai “uguali” ma reagiscono attivamente. Ciò significa che piccole differenze iniziali o fattori apparentemente marginali possono alterare sensibilmente il risultato finale attraverso meccanismi non lineari. È il principio, noto nelle scienze della complessità, della sensibilità alle condizioni iniziali: in sistemi complessi anche variazioni minime in un elemento possono avere conseguenze significative dopo una serie di retroazioni reciproche. Questa prospettiva evidenzia come la ricerca di spiegazioni semplici, del tipo “X causa Y”, sia spesso inadeguata. Piuttosto che una catena causale lineare, i fenomeni complessi assomigliano a una rete in cui ogni nodo interagisce con molti altri. Di fronte a tale realtà, l’analista deve rinunciare all’idea di tenere costanti tutti gli altri fattori per isolare un effetto: nella vita reale, gli “altri fattori” si muovono e cambiano di continuo.
I modelli lineari sono incapaci di cogliere i punti di rottura, gli effetti soglia e le retroazioni sistemiche.
La semplificazione eccessiva non è più un’opzione: oggi l’analisi deve incorporare la complessità.
Perché il metodo ceteris paribus e i modelli semplificati non bastano
La locuzione ceteris paribus (“a parità di altre condizioni”) riassume l’approccio classico di molte analisi teoriche, in particolare in economia: per studiare l’effetto di una variabile si assumono ferme tutte le altre. Questo modello, mutuato dal metodo scientifico sperimentale, ha una sua utilità nell’astrarre temporaneamente dal groviglio del reale al fine di comprendere il contributo isolato di un singolo fattore. Ad esempio, si può affermare che ceteris paribus un aumento della domanda provocherà un aumento dei prezzi, isolando così la relazione diretta domanda-offerta. Tuttavia, questa semplificazione è una finzione analitica che raramente trova riscontro nelle condizioni concrete. Nel mondo reale nonvige mai il ceteris paribus: mentre una variabile cambia, le altre variabili non restano immobili in attesa. Al contrario, reagiscono, coevolvono, innescano nuove dinamiche. L’aumento della domanda potrebbe, ad esempio, stimolare investimenti che incrementano anche l’offerta, oppure modificare le aspettative dei consumatori e dei produttori, con effetti non prevedibili dal semplice schema iniziale. Il modello ceteris paribus, se applicato rigidamente fuori dal laboratorio concettuale, rischia dunque di fornire previsioni gravemente fuorvianti.
I modelli semplificati basati su poche variabili e relazioni lineari soffrono di ulteriori limiti strutturali nell’affrontare la complessità. Tendono, infatti, a ignorare fenomeni cruciali come le retroazioni (feedback) positive o negative, che invece nei sistemi reali possono dominare il comportamento nel lungo periodo. Un modello semplificato potrebbe prevedere che un incremento di un incentivo produca sempre un certo effetto desiderato, ma in un contesto reale una retroazione negativa – ad esempio un contraccolpo regolatorio o una reazione sociale avversa – potrebbe annullare o invertire quell’effetto. Inoltre, molti modelli teorici assumono relazioni statiche e linearmente additive, mentre i sistemi complessi mostrano non linearità (piccoli cambiamenti producono grandi effetti, o viceversa) ed effetti soglia oltre i quali il sistema cambia regime di comportamento (i cosiddetti “cambiamenti di stato”). Un altro limite dei modelli semplificati è la scarsa considerazione delle eterogeneità: gli attori di un sistema complesso (persone, imprese, organismi) sono diversificati e interagiscono in modi non uniformi, cosicché medie e aggregati possono mascherare dinamiche importanti. In sintesi, modelli eccessivamente semplici possono fornire intuizioni immediate e ordinate, ma al prezzo di trascurare proprio quegli aspetti – interazioni, feedback, eterogeneità, evoluzione temporale – che spesso determinano gli esiti reali. Una critica rigorosa al ceteris paribus e al pensiero modellistico ingenuo non implica rifiutare ogni astrazione, ma riconoscerne i confini: le semplificazioni vanno usate con cautela, e sempre integrate con una visione più ampia del sistema.
L’interdipendenza tra fenomeni richiede strumenti analitici trasversali e l’integrazione di discipline diverse.
Ogni decisione ha una storia e un’evoluzione: il tempo è una dimensione costitutiva della complessità.
Analisi multidisciplinare e fattore-tempo
Alla luce di questi limiti delle analisi tradizionali, emerge con forza la necessità di un’analisi sistemica. Approcciare un problema in modo sistemico significa considerarlo come parte di un quadro più ampio, esaminando le connessioni tra le sue componenti e il contesto in cui è inserito. Oltre a chiedersi quali retroazioni possono amplificare o attenuare un fenomeno, ci si deve chiedere quali condizioni esterne (ambientali, sociali, economiche) ne modulano gli effetti. Questo approccio richiede spesso di integrare conoscenze provenienti da discipline diverse, perché i sistemi complessi – pensiamo ad esempio al cambiamento climatico o alla stabilità finanziaria – travalicano i confini disciplinari tradizionali. Una politica economica, per essere efficace, va analizzata anche nei suoi risvolti sociali e istituzionali; una strategia aziendale va valutata non solo nei termini di mercato interno ma anche alla luce dei cambiamenti tecnologici e normativi globali. Oltre alle discipline economiche e politologiche, si deve ricorrere a competenze tratte dalle neuroscienze e dalle teorie dei giochi per analizzare e gestire i processi decisionali.
L’analisi sistemica fornisce dunque una visione integrata, indispensabile per non cadere vittima di visioni parziali.
Un altro aspetto essenziale dell’approccio sistemico è la considerazione degli effetti nel tempo e non solo nello spazio. I sistemi complessi hanno memorie, inerzie e dinamiche evolutive: un’azione oggi può avere ripercussioni tra mesi o anni, in modo non immediatamente evidente. Per questo l’analisi sistemica adotta spesso strumenti come gli scenari e le simulazioni, che consentono di esplorare diversi possibili sviluppi futuri variando simultaneamente più parametri. Ad esempio, nell’analisi di politiche pubbliche, un approccio sistemico costruirà scenari multipli, che cambiano a seconde del modo in cui le variabili si muovono, tenendo conto sia degli effetti diretti sia di quelli indiretti, modellando come l’ecosistema sociale ed economico reagirà nel tempo alla riforma ipotizzata. Allo stesso modo, nel management aziendale, l’analisi sistemica spinge a valutare non solo l’outcome immediato di una decisione, ma anche le sue implicazioni a cascata su altre divisioni dell’impresa, sui partner, sui clienti e sull’ambiente competitivo nel lungo periodo. Questa prospettiva temporale ampia è strettamente collegata all’idea di apprendimento continuo: poiché è impossibile prevedere con certezza tutte le conseguenze, il metodo sistemico prevede di monitorare gli esiti delle azioni nel tempo e di adattare le strategie in base a ciò che si apprende. In sostanza, ogni “iterazione” di un processo decisionale diventa il contesto per l’iterazione successiva: le stesse decisioni prese dall’attore di riferimento sono parte integrante del quadro per definire le opzioni a sua disposizione in futuro.
Anche le decisioni ben motivate possono produrre effetti opposti a quelli desiderati.
L’analisi sistemica richiede il coraggio di abbandonare le ipotesi falsificate dai fatti.
Le conseguenze non intenzionali dell’azione intenzionale
Un elemento cardine che l’intelligenza sistemica porta in primo piano è il ruolo delle conseguenze non intenzionali generate dalle azioni umane intenzionali. Nella vita sociale e nelle organizzazioni, infatti, capita di frequente che le azioni perseguite con uno scopo preciso producano effetti collaterali imprevisti, talvolta contrari o addirittura opposti alle intenzioni iniziali. La riflessione su questo tema ha radici lontane: già nel Settecento Adam Smith, con la metafora della “mano invisibile”, suggeriva che individui mossi dal proprio interesse possono generare risultati socialmente benefici non voluti: i vizi (interessi privati) che diventano pubbliche virtù. Frédéric Bastiat nell’Ottocento distingueva tra “ciò che si vede e ciò che non si vede”, ammonendo che ogni buona analisi deve considerare anche gli effetti secondari nascosti di un’azione. Ma è il sociologo Robert K. Merton, nel 1936, a fornire una prima analisi sistematica delle cause delle conseguenze non intenzionali. Merton individuò diversi fattori, tra cui l’ignoranza (la limitata conoscenza che abbiamo delle intricate interdipendenze, che ci impedisce di prevedere tutti gli effetti), l’errore nell’analisi delle situazioni, e quella che definì l’“immediato interesse imperioso” (ovvero la tendenza a perseguire con tanta determinazione un obiettivo da ignorare volutamente possibili effetti collaterali scomodi). Queste intuizioni spiegano perché anche politiche o azioni ben intenzionate possano fallire: il tessuto connettivo del sistema produce esiti ulteriori rispetto a quelli cercati.
Le conseguenze non intenzionali possono essere sia positive (scoperte fortunate, opportunità di cooperazione, benefici imprevisti) sia negative (danni, conflitti con altri attori, costi inattesi). Tuttavia, dal punto di vista dell’analisi sistemica, assumono particolare rilievo quelle negative, soprattutto quando minano gli obiettivi originari dell’azione. I sistemi complessi spesso reagiscono alle perturbazioni con comportamenti di compensazione. Un classico esempio teorico è il cosiddetto “effetto boomerang” di alcune politiche: un intervento pensato per correggere un problema può alterare gli incentivi degli attori in modo tale da riprodurre il problema in altra forma. Ad esempio, una regolamentazione troppo rigida messa in atto per prevenire una crisi potrebbe spingere gli operatori finanziari a cercare vie alternative più opache, generando nuovi rischi sistemici non previsti; oppure, un obiettivo di performance imposto a un’organizzazione può indurre comportamenti opportunistici dei dipendenti che finiscono per vanificare il senso ultimo di quella misura. Questi casi illustrano come, in assenza di un pensiero sistemico, l’azione umana rischi di essere affetta da miopia: concentra l’attenzione sugli effetti immediati e desiderati, tralasciando le ramificazioni a lungo termine. L’intelligenza sistemica, al contrario, invita a “guardare dietro l’angolo” delle singole azioni, interrogandosi su quali catene causali secondarie potrebbero attivarsi. Ciò non significa rinunciare ad agire, bensì progettare le azioni con un atteggiamento di cauto realismo: valutare in anticipo scenari alternativi, predisporre piani di riserva se le cose non dovessero andare come previsto, e soprattutto monitorare gli esiti reali pronti a correggere il tiro. In definitiva, riconoscere l’inevitabilità di conseguenze non intenzionali porta a decisioni più responsabili e flessibili, riducendo la distanza tra le intenzioni dichiarate e i risultati effettivamente conseguiti.
L’intelligenza artificiale permette di modellare e osservare la complessità in tempo reale.
Non si tratta di prevedere, ma di costruire ambienti dinamici in cui testare configurazioni possibili.
Complessità e Intelligenza artificiale
Per lunghi decenni, il pensiero scientifico e l’analisi dei fenomeni complessi hanno dovuto fare affidamento su forme più o meno accentuate di riduzionismo. La necessità di isolare alcune variabili e di assumerne altre come fisse – il principio del ceteris paribus – era una condizione metodologica imposta dai limiti cognitivi e computazionali. Né l’intelligenza umana né gli strumenti disponibili permettevano di affrontare simultaneamente una molteplicità di fattori interdipendenti. Il riduzionismo non era, quindi, un’aberrazione intellettuale, ma una strategia di sopravvivenza epistemologica: un modo per ottenere conoscenza operativa in un mondo troppo complesso da afferrare nella sua interezza. In questo contesto, la costruzione di modelli teorici semplificati ha svolto un ruolo insostituibile nello sviluppo della scienza economica, della sociologia, della teoria politica e persino della biologia. Le semplificazioni non erano un errore: erano lo strumento necessario per rendere i fenomeni trattabili e per costruire un linguaggio formale coerente.
L’affermazione dell’intelligenza artificiale come supporto all’analisi dei sistemi complessi modifica profondamente anche il significato operativo di modellazione. Mentre in passato il modello era costruito con l’obiettivo di semplificare – selezionando alcune variabili ritenute centrali e congelandone altre – oggi il modello può diventare uno spazio di esplorazione in cui non si cerca una riduzione, ma una rappresentazione coerente delle interazioni sistemiche. Grazie alla capacità computazionale dell’AI, si possono simulare ambienti in cui le variabili si influenzano l’una con l’altra secondo logiche non lineari, accumulano effetti, reagiscono agli shock e generano dinamiche emergenti. In questo contesto, diventa possibile osservare come un piccolo cambiamento in una parte del sistema si propaghi, attraverso catene di retroazioni, generando esiti inattesi in altre parti. La simulazione non si limita così a verificare ipotesi, ma diventa uno strumento euristico per individuare configurazioni plausibili, tracciare traiettorie alternative e mettere alla prova scenari in cui gli esiti non sono predeterminati. Ciò sfrutta il punto di forza dell’AI – cioè le capacità computazionali sulla base di dati abbondanti – e lo combina con il punto di forza dell’analista umano – cioè le capacità di fare ipotesi, porre domande e immaginare futuri possibili che vanno oltre la proiezione dei trend attuali.
Un ulteriore vantaggio della modellazione AI-based consiste nella possibilità di integrare dati eterogenei provenienti da fonti diverse e di diversa natura. I sistemi complessi sono, per definizione, multidimensionali: contengono variabili economiche, sociali, tecnologiche, ambientali, istituzionali. L’intelligenza artificiale, soprattutto attraverso le tecniche di apprendimento automatico e deep learning, può processare in modo simultaneo dati numerici, testuali, visuali, strutturati e non strutturati, costruendo rappresentazioni dinamiche e adattive del sistema osservato. Questo consente di aggiornare i modelli in tempo reale, in funzione dell’evoluzione dei dati, e di evidenziare pattern latenti che sarebbero difficilmente rilevabili con metodi analitici tradizionali. La simulazione diventa così una funzione iterativa e retroattiva, in grado di affinare le ipotesi, rileggere i fenomeni a posteriori, e anticipare biforcazioni nel comportamento del sistema. L’intelligenza sistemica, resa operativa e potenziata dall’AI, può quindi abilitare un nuovo paradigma analitico: non più uno strumento per ridurre il reale a un insieme di equazioni statiche, ma un ambiente sperimentale in cui osservare l’emergere del complesso nel suo dispiegarsi.
Ogni Paese è un sistema di equilibri interni tra istituzioni, cultura civica e vincoli esterni.
Il grado di apertura e lo stato di diritto definiscono la resilienza e la traiettoria evolutiva di un sistema politico.
Analisi sistemica dei sistemi-Paese: stato di diritto e apertura del sistema politico
Applicare il paradigma della complessità di un’analisi propriamente “geopolitica” e sistemica per imprese e istituzioni significa introdurre due coordinate , che servono a creare un ambiente nel quale diversi elementi si legano insieme.
Il primo è quello di considerare lo spazio geografico come uno “spazio politico”, o meglio uno spazio in cui coesistono diversi sistemi istituzionali e politici. In questo quadro, parlare di sistemi-Paese (ovvero di sistemi sociali, economici e istituzionali a livello nazionale) significa considerare ogni nazione come un ecosistema unico di fattori interdipendenti. Il secondo è il grado di apertura o chiusura di un Paese al contesto internazionale, la sua adesione a trattati internazionali, che si lega a principi giuridici universali. In quest’ottica, concetti come lo stato di diritto e il grado di apertura o chiusura del sistema politico e la sua adesione ai trattati e alle organizzazioni internazionali emergono come variabili sistemiche di importanza cruciale. Un Paese non è semplicemente la somma di singole politiche settoriali, ma un intreccio in cui istituzioni giuridiche, assetti politici, cultura civica ed economia si co-determinano a vicenda. Ad esempio, il livello di stato di diritto – quindi l’effettività delle leggi, l’indipendenza della magistratura, la tutela dei diritti – influenza profondamente l’ambiente economico e sociale: dove le regole sono certe e uguali per tutti, gli attori economici possono pianificare con maggiore fiducia e le relazioni sociali risultano più stabili. Ma è vero anche il reciproco: una eccessiva concentrazione economica o una crisi di fiducia sociale possono rafforzare o erodere lo stato di diritto stesso, in un ciclo di feedback. Allo stesso modo, un sistema politico aperto, caratterizzato da pluralismo, partecipazione diffusa e ricambio nei vertici decisionali, tende ad avere meccanismi di autocorrezione più efficaci rispetto a un sistema chiuso e oligarchico: in un contesto aperto, gli errori o gli abusi possono essere denunciati e corretti grazie alla libera circolazione delle informazioni e al confronto democratico; in un contesto chiuso, la mancanza di trasparenza e di contrappesi può far accumulare distorsioni e malcontento fino a livelli critici, spesso sfociando in crisi improvvise. Da una prospettiva sistemica, la forza o la debolezza dello stato di diritto e l’apertura o chiusura di un sistema istituzionale nazionale sono le due coppie di variabili che si muovono per comporre scenari diversi.
Un’analisi sistemica dei sistemi-Paese implica anche riconoscere che modelli istituzionali o politiche che funzionano in un contesto potrebbero non riprodursi con successo in un altro, proprio a causa delle diverse interdipendenze. Ad esempio, l’efficacia di una riforma economica dipende dal contesto istituzionale: introdurre regole di mercato avanzate in un ambiente privo di stato di diritto può produrre esiti controintuitivi, come nuovi oligopoli o corruzione diffusa, vanificando gli obiettivi di efficienza e crescita. Allo stesso modo, un’apertura politica improvvisa in un sistema chiuso, non accompagnata da una solida cultura istituzionale, può generare caos anziché maggiore libertà, perché le reti di potere precedenti cercheranno di adattarsi e potrebbero strumentalizzare le nuove istituzioni. Queste considerazioni evidenziano la necessità di analizzare i sistemi-Paese con una lente complessa: ogni intervento va valutato nelle sue interazioni con le altre dimensioni del sistema. In pratica, ciò significa che riforme legislative, misure economiche o innovazioni amministrative dovrebbero essere disegnate tenendo conto sia delle condizioni di contesto (cultura politica, struttura sociale, vincoli internazionali) sia delle possibili reazioni degli attori coinvolti. Un approccio sistemico alla valutazione di un Paese integrerà indicatori giuridici, politici, economici e sociali, evitando di trarre conclusioni da un singolo indice isolato.
Le imprese sono sistemi complessi esposti a rischi multipli e correlati.
Solo una lettura sistemica consente di trasformare l’instabilità in vantaggio strategico.
Sistemi aziendali e teoria del portafoglio: diversificazione, esposizione e rischio sistemico
Anche le imprese possono essere comprese come sistemi complessi, immersi in una rete di interazioni dinamiche con mercati, istituzioni, società e variabili geopolitiche. Le scelte strategiche di un’azienda non si svolgono in un vuoto analitico, ma si intrecciano con un contesto in continua trasformazione, fatto di vincoli normativi, shock sistemici, evoluzioni tecnologiche e mutamenti negli equilibri politici internazionali. In questa prospettiva, Stroncature adotta un approccio analitico che mutua i concetti e i metodi della moderna teoria del portafoglio, applicandoli all’analisi geopolitica delle imprese. Esattamente come un investitore diversifica le proprie esposizioni per ridurre la vulnerabilità a fattori non controllabili, così un’azienda può essere analizzata in termini di esposizione differenziata a rischi-paese, instabilità normative, dipendenze strategiche e retroazioni sistemiche. La diversificazione, la correlazione tra variabili esterne e la misurazione del rischio sistemico diventano così strumenti per comprendere la robustezza strategica di un’impresa nel contesto globale. Questo metodo consente di leggere l’ambiente operativo delle aziende non come uno scenario dato, ma come un portafoglio di rischi interdipendenti, da monitorare, riequilibrare e, ove possibile, trasformare.
Nel leggere le imprese come sistemi esposti a una molteplicità di variabili interdipendenti, diventa utile applicare strumenti concettuali derivati dalla teoria del portafoglio. Uno di questi è la nozione di diversificazione, intesa non solo come distribuzione degli asset in ambito finanziario, ma come articolazione strategica delle attività aziendali in funzione della riduzione della vulnerabilità complessiva. Diversificare prodotti, mercati geografici, fornitori o tecnologie non elimina il rischio, ma consente di redistribuirlo e di ridurre l’esposizione a singoli eventi critici. In un contesto di instabilità sistemica, questa logica permette all’impresa di assorbire shock localizzati, compensandoli con l’andamento più stabile o favorevole di altri segmenti del portafoglio operativo. A ciò si collega il concetto di esposizione: ogni scelta aziendale implica un’esposizione a rischi di natura diversa – finanziaria, normativa, politica, reputazionale – che vanno riconosciuti e monitorati. Un approccio sistemico richiede di mappare tali esposizioni, identificando le aree di maggiore concentrazione o dipendenza. Inoltre, particolare attenzione deve essere prestata ai rischi tra loro correlati, cioè ai casi in cui l’incremento di uno specifico tasso di rischio porta con sé rischi ulteriori.
Questo consente non solo una migliore comprensione delle vulnerabilità strategiche, ma anche la possibilità di intervenire ex ante per rafforzare la forza organizzativa, ad esempio investendo in fornitori alternativi, riducendo la concentrazione geografica o sviluppando capacità autonome in ambiti tecnologicamente sensibili.
Oltre ai rischi specifici e localizzati, le imprese devono confrontarsi con forme di rischio sistemico, che colpiscono simultaneamente l’intero ambiente operativo e che non possono essere neutralizzate attraverso la sola diversificazione. In questi casi, la questione non è tanto evitare il rischio quanto costruire un’organizzazione capace di trarre vantaggio dal disordine, trasformando gli shock in occasioni di riorientamento strategico. È il principio della ”antifragilità”: non limitarsi a resistere, ma migliorare attraverso l’esposizione a fattori di stress. Questa configurazione richiede flessibilità strutturale, ridondanza, capacità di apprendimento distribuito e apertura a percorsi alternativi. La moderna teoria del portafoglio suggerisce di non costruire strategie fondate su scenari ottimistici unici, ma di considerare una gamma di possibili evoluzioni e progettare scelte che restino valide in più configurazioni. Tradotto nella pratica aziendale, ciò significa evitare scommesse univoche, mantenere accesso a risorse alternative, e predisporre architetture decisionali capaci di aggiornarsi in tempo reale. L’impresa antifragile non cerca la stabilità come obiettivo primario, ma la capacità di evolvere a partire dalla inevitabile instabilità; non teme il mutamento, ma lo incorpora come parte del proprio funzionamento ordinario. In questa prospettiva, il rischio sistemico non è un’anomalia da contenere, ma una variabile permanente da trasformare in leva di riprogettazione.
Nel quadro dell’analisi sistemica, il concetto di correlazione assume un ruolo centrale. A differenza della causalità lineare, la correlazione evidenzia come due o più fenomeni si muovano insieme secondo dinamiche che possono non essere spiegabili attraverso nessi diretti e unidirezionali. In un sistema complesso, la correlazione è spesso espressione della struttura profonda del sistema: non indica necessariamente un rapporto causa-effetto tra due variabili, ma può segnalare l’influenza comune di una rete di fattori interconnessi. Ad esempio, in economia, si osservano frequentemente correlazioni tra mercati geograficamente distanti che non si spiegano con un singolo canale causale, ma con l’interdipendenza dei flussi finanziari, commerciali, normativi. In questo senso, la correlazione diventa un indicatore utile per ricostruire le architetture del sistema, rivelando pattern di comportamento collettivo e zone di rischio condiviso.
La complessità non si elimina: si governa attraverso simulazione, iterazione e apprendimento.
Ogni decisione va progettata come parte di un processo: non lineare, ma strutturato.
Il Metodo Stroncature e la “customizzazione”
Concepire ambienti operativi, contesti decisionali o scenari strategici come sistemi lineari, chiusi e isolabili porta inevitabilmente a errori di valutazione. La realtà in cui si muovono oggi istituzioni, imprese e soggetti politici è invece un ambiente interdipendente, in cui ogni azione produce effetti che si propagano, si trasformano e ritornano sotto forma di retroazioni spesso inattese. Le variabili non sono indipendenti, le relazioni non sono stabili, e le correlazioni non sono sempre evidenti. In questo quadro, ogni tentativo di comprensione o pianificazione deve abbandonare la logica della semplificazione e della sequenza lineare, per abbracciare un metodo che consideri simultaneamente le interazioni tra fattori, le soglie non lineari di cambiamento, le biforcazioni evolutive, e le conseguenze non intenzionali che ogni decisione può generare. Agire in un sistema complesso significa riconoscere che il campo di azione non è mai neutro: ogni intervento modifica il contesto che lo rende possibile.
Pianificare un’azione o analizzare una strategia, in questo senso, non è un esercizio di previsione meccanica, ma un processo di lettura sistemica. Richiede di mappare le interconnessioni, riconoscere le dipendenze, valutare le possibili retroazioni e identificare le aree in cui una correlazione nascosta può diventare un nodo critico. In tale prospettiva, la simulazione, la modellazione dinamica, la lettura trasversale delle esposizioni e la costruzione di scenari iterativi diventano strumenti indispensabili. È solo attraverso questo tipo di approccio che si può affrontare la complessità non come una minaccia da semplificare, ma come una condizione strutturale da comprendere, governare e, nei limiti del possibile, trasformare. L’intelligenza sistemica non fornisce certezze, ma offre il metodo più adeguato a operare in ambienti dove la stabilità è l’eccezione e la variabilità è la norma.
In contesti del genere, il Metodo qui delineato può essere adattato alle specifiche esigenze di un’azienda e del suo settore merceologico, tenendo però sempre conto di alcune caratteristiche strutturali delle decisioni complesse: 1. Esse implicano trade-off, cioè obiettivi in conflitto tra loro su cui è indispensabile operare scelte reiterate; 2. Sono soggette a “falle cognitive”, cioè errori di percezione e valutazione ricorrenti, ben noti in termini generali ma difficili da evitare in casi specifici; 3. Per effetto dei due punti precedenti, le decisioni complesse beneficiano di prospettive diverse da quelle di chi è coinvolto direttamente, anche per far emergere opzioni (e opportunità) inizialmente non evidenti[4].Pianificare è un’attività intrinsecamente umana, non soltanto un vezzo, un lusso, un’opzione a cui magari si può anche rinunciare perché in fondo “tutto è imprevedibile”. Il cervello umano ha attraversato un processo evolutivo che ha premiato la pianificazione, cioè la costruzione di modelli del mondo per immaginare sé stessi in un futuro o in una situazione ipotetica e fare simulazioni: è una forma di apprendimento che riduce i costi e i rischi, consentendo comunque di esplorare (almeno virtualmente) molti scenari alternativi[5]. Ciò vale per ogni singolo individuo, per nuclei familiari o piccole comunità, ma anche per organizzazioni aziendali complesse.
Come suggeriscono molti studi nel campo delle neuroscienze, c’è uno stretto legame tra pianificazione ed esigenza di accettare trade-off: la capacità di posticipare una (minore) gratificazione immediata in vista di (maggiori) benefici futuri è un caso particolare del problema degli stati mentali in conflitto[6]. In altre parole, per pianificare nonostante l’incertezza si deve saper immaginare sé stessi in due situazioni da mettere a confronto – cioè quella attuale e quelle futura o ipotizzata.
Il Metodo Stroncature non è un modello teorico, né una filosofia descrittiva, né un algoritmo; è uno schema individuare le regolarità all’interno della confusione e l’ordine in quello che a tutti appare disordine.
[1] C.S. Bertuglia, F. Vaio, Complessità e modelli. Un nuovo quadro interpretativo per la modellizzazione delle scienze della natura e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p.7 per una definizione precisa dei sistemi complessi.
[2] B.W. Arthur, La natura della tecnologia. Che cos’è e come evolve, Codice, Torino, 2011, p.13.
[3] S. Kauffman, Investigations, Oxford University Press, Oxford, 2000.
[4] Tra gli studi utili per sviluppare questo approccio, Steven Johnson, “Farsighted. How We Make the Decisions That Matter the Most”, John Murray Publishers, 2018.
[5] Si veda ad esempio Max S. Bennett, “Breve storia dell’intelligenza. Dai primi organismi all’AI: le cinque svolte evolutive del cervello”, Apogeo, 2024.
[6] In una letteratura molto ampia, tra gli altri Thomas Suddendorf, “The invention of Tomorrow: A Natural History of forethought”, Basic Books, 2022.


